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Nuova vita operativa per la vecchia bomba B61

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Nuova vita operativa per la vecchia bomba B61

Pubblicato il 29 febbraio 2016 by redazione

Gli Stati Uniti hanno lanciato un programma da 1000 miliardi di Dollari per aggiornare l’arsenale nucleare, compreso quello tattico schierato in Europa.

 

Immagine di apertura

Caccia F35A Lightning II mostra agganciati nei vani di carico due prototipi della bomba termonucleare B61-12.

 

Il presidente statunitense Barak Obama ha recentemente smentito le voci secondo cui il programma di ammodernamento dell’arsenale nucleare americano attualmente in corso possa subire variazioni o ridimensionamenti, confermando che nei prossimi 30 anni verrà aggiornata la capacità delle armi a disposizione, in modo da renderle pienamente compatibili con gli scenari di impiego attuali e i mezzi di nuova generazione.

Le prime armi a essere oggetto del Life Exstension Program saranno le armi termonucleari tattiche B61 per impiego aereo, le ultime a caduta libera ancora in servizio in numero consistente: già schierate da molti anni in Europa e oggetto del controverso programma di nuclear sharing con le forze armate di alcuni Paesi della NATO, erano considerate come superate nell’era delle cosiddette armi intelligenti, un relitto degli anni del confronto con l’Unione Sovietica e i suoi alleati.

La fine della guerra fredda ha però provocato una frammentazione dei centri di potere e una ripresa delle tensioni politico – economiche tra Paesi e all’interno stesso di molti Stati.

Il nuovo disordine mondiale ha creato anche una ripresa della corsa all’atomo militare: governi ritenuti poco stabili o non affidabili (le vicende di Iran e Nord Corea sono protagoniste della cronaca internazionale) guardano all’arma atomica come un mezzo per accrescere il proprio peso internazionale.

Inoltre in molti Paesi del campo occidentale, che fino a oggi hanno rinunciato a sviluppare programmi atomici aderendo ai trattati internazionali di non proliferazione, si sta timidamente riaprendo il dibattito sulla necessità di dotarsi dell’arma totale.

Non è certo una prospettiva incoraggiante, come osserva la Federation of Atomic Scientists, l’organizzazione di scienziati che dalla fine della Seconda Guerra Mondiale controlla e informa l’opinione pubblica sulla situazione delle armi nucleari, attraverso la pubblicazione del Bullettin of Atomic Scientist.

Lo scienziato danese Hans Kristensen, che appartiene alla federazionne di scienziati e dirige il Nuclear Research Project, ha sottolineato che il mondo si trova in una situazione di crisi molto pericolosa, la probabilità di una catastrofe nucleare ha raggiunto livelli simili ai momenti più bui della guerra fredda.

Il Doomsday Clock, l’orologio simbolico creato dalla Federazione, segna oggi solo tre minuti prima della mezzanotte, l’ora dello scatenarsi di un conflitto nucleare globale, che cancellerebbe forse ogni forma di vita superiore sul pianeta.

Quindi è stata solo un’illusione che la fine della guerra fredda potesse allontanare il rischio di un conflitto combattuto con le armi di distruzione di massa.

La decisione di rinnovare e adeguare il deterrente nucleare al mutato teatro geopolitico internazionale risponde proprio alla necessità di mantenere il suo potere dissuasivo, secondo la motivazione ufficiale esposta dal governo americano.

Una risoluzione certo amara per l’amministrazione del Presidente Obama, che nel 2009 ha ricevuto il premio Nobel per pace per i suoi sforzi sulla cooperazione internazionale e che aveva firmato nel 2010 con il Primo Ministro russo Dimitry Medvedev il trattato New START di limitazione delle armi nucleari.

Il Presidente russo Vladimir Putin non ha nascosto la sua irritazione per l’avvio questo programma, che aggrava la situazione di stallo già esistente nei rapporti fra i due Paesi, dopo l’espansione della NATO a Est e la missione di assistenza militare nelle Repubbliche Baltiche, (Estonia, Lettonia e Lituania), la cui indipendenza non è mai stata ben digerita da Mosca.

Il disappunto dei russi è stato sottolineato da una massiccia ripresa dei voli a ridosso dello spazio aereo dei Paesi occidentali, in particolare di Gran Bretagna e Norvegia, degli aerei da caccia, da ricognizione e dei bombardieri strategici dell’aviazione della Federazione russa, come non si vedeva dagli anni del confronto diretto con l’URSS.

D’altro canto, la decisa condanna USA dell’ingerenza russa nella crisi ucraina e dell’intervento nel calderone mediorientale a fianco della Siria ufficialmente contro l’ISIS, ma in realtà contro ogni opposizione al presidente Bashar al Assad, hanno aumentato la divergenza fra i governi di Washington e Mosca, riportando a un clima di guerra fredda tra le due superpotenze.

Putin ha fatto riferimenti inquietanti all’uso eventuale delle armi atomiche non solo per reagire a un attacco strategico portato con armi di distruzione di massa, ma per ogni situazione che veda le forze russe sottoposte a una grave minaccia.

Peraltro negli anni scorsi anche la Russia ha annunciato una decisa ripresa degli investimenti nel sistema militare, giustificata come reazione alla aggressiva politica estera occidentale.

In realtà, anche il sistema nucleare russo ha bisogno di essere rinnovato e razionalizzato, dopo anni di stallo negli investimenti.

Anche il governo cinese ha espresso preoccupazione per il programma americano, per quanto a sua volta, sia ancora difficile capire quale sia la reale consistenza dell’arsenale atomico attivo di Pechino.

Gli Stati Uniti continuano però a respingere le accuse di favorire un clima da nuova corsa agli armamenti nucleari, sostenendo che il programma in corso rispetta le linee dettate nei trattati internazionali di non proliferazione e di limitazione degli arsenali a cui ha aderito.

Lo schieramento della versione 12 della bomba B61, ritenuta una arma sostanzialmente nuova, viene considerata da Mosca una grave violazione degli equilibri nucleari nel settore europeo, a cui la Russia non potrà che rispondere, probabilmente con il rischieramento di missili da crociera e altre armi tattiche, per lo più sul Mar Baltico e nel quadrante nord – ovest del territorio russo.

 

La bomba non va in pensione

Immagine 1

Esploso di una bomba termonucleare tattica B61. Anche se si tratta di una foto relativa a una versione precedente, punto di forza della B 61 è la semplicità dell’arma, con numero di componenti base abbastanza standardizzato per tutte le versioni. Il cuore fissile è contenuto nel cilindro metallico, posto a sinistra tra i componenti esposti.

 

Nel corso dei prossimi 5 anni gli Stati Uniti schiereanno la nuova versione B 61–12 dell’ultimo tipo di ordigno termonucleare a caduta libera ancora ampiamente presente negli arsenali areonautici.

Queste armi sostituiranno le versioni B61-7, 10 e 11 attualmente operative e verranno sostanzialmente ottenute modificando armi già esistenti.

Il Pentagono conta di arrivare a ricostruire circa 500 ordigni, dei quali 180 saranno dispiegati direttamente in Europa nelle basi aeree NATO. L’arrivo del nuovo equipaggiamento non interesserà solo le unità di attacco dell’USAF, ma anche le areonautiche di quei Paesi dell’Alleanza Atlantica che da oltre 50 anni praticano il concetto di nuclear sharing, la politica di condivisione di armi nucleari tra gli alleati.

Tale politica, che ha ampliato la deterrenza tattica dello schieramento occidentale, si è rivelata valida verso la minaccia dall’Est durante il confronto della guerra fredda, permettendo ai reparti di punta della NATO di addestrarsi al nuclear strike, mentre le armi formalmente restavano di proprietà statuinitense, continuando a essere assistite dai reparti speciali di manutenzione americani e venendo sottoposte alle rigide regole di impiego stabilite in sede NATO.

L’aggiornamento di questo arsenale ha rilanciato la polemica vivace che divide coloro che sostengono il nuclear sharing e coloro che sottolineano come sia giuridicamente in contrasto con l’adesione dei Paesi NATO al Trattato di non proliferazione (TNP) del 1970, il quale impegna gli stati aderenti non solo a rinunciare a sviluppare propri programmi militari atomici, ma anche a non custodire, gestire e utilizzare armi appartenenti ad altri.

La bomba modello B61 a testata termonuclare all’idrogeno fa parte di una serie di armi concepite tra gli anni ’50 e ’60 per equipaggiare la nuova generazione di velivoli supersonici che stavano entrando in servizio in quegli anni. Venne progettata nel 1963 dai Los Alamos National Laboratory e fu introdotta in servizio nel 1968, frutto di una intensa ricerca nella miniaturizzazione dei dispositivi, in modo da poter essere installate in armi dalle dimensioni contenute, dotate di una aerodinamica esterna idonea al trasporto e allo sgancio a velocità oltre il muro del suono. La sua importanza è stata tale che è rimasta cllassificata come segreta per molti anni, indicata genericamente con i termini carico esterno o pallottola d’argento (le prime versioni avevano finitura in metallo naturale, senza alcuna verniciatura).

Oggi è l’ultima arma nucleare americana a essere permanentemente schierata al di fuori del territorio statunitense.

Nel corso degli anni numerose versioni sono state prodotte e la testata ha è stata sottoposta a continue modifiche per aumentarne la sicurezza e la semplicità di gestione.

Il corpo dell’ordigno è lungo circa 3 metri e mezzo, il diametro è di circa 33 centimetri nel punto di maggior larghezza, per un peso totale attorno ai circa 320 chili, a seconda della versione.

Cuore concettuale dell’arma è la su capacità variable yeld, ovvero la possibilità di decidere la potenza sviluppabile dalla testata agendo sulla quantità di materiale fissile coinvolto nella reazione fissione-fusione, sul tipo di generatore di neutroni e sul sistema elettronico di innesco, quindi un ordigno dotato di notevole flessibilità di impiego.

La potenza esplosiva della versione B61-11, attualmente la più diffusa in servizio, può variare da 0,3 fino a 80 kilotoni, cioè da 300 a 80mila tonnellate di tritolo, con quattro diverse opzioni di potenza, selezionabili direttamente al momento del montaggio dell’arma sul velivolo lanciatore.

L’arma è stata prodotta in nove versioni diverse, talvolta con paracadute – freno e sistemi di ritardo di innesco. Il campo proncipale di impiego è contro concentrazioni di truppe, depositi, centri di comando avanzati situati in fortificazioni o altro tipo di sito protetto.

La capacità bunker buster per colpire bersagli pesantemente protetti e ground piercing di penetrazione al suolo è quella principalmente sviluppata nella nuova versione B61-12 in quanto più adatta alle necessità di impiego moderne ed è questo che ha determinato la decisione di modernizzarne il sistema d’arma.

 

Immagine 2

Diagramma della nuova B61 – 12. con indicazione delle parti e degli apparati aggiornati.

 

La versione 11 è già dotata di una ogiva rinforzata, tale da agevolare una penetrazione di circa 6-8 metri in un terreno di media durezza, ma le B 61-12 sono state pensate per migliorare questa prestazione e per indirizzare maggiormente la forza d’urto dell’esplosione nucleare verso il sottosuolo.

La tecnologia costruttiva di bunker sotterranei negli anni ha raggiunto un livello molto elevato. Spesso tali edifici si sviluppano per più piani, totalmente interrati, costruiti nel cuore di montagne, per aggiungere ulteriore capacità di resistenza in caso di attacco con armi nucleari. Anche il Centro di Comando strategico statunitense, il famoso NORAD, è costruito sotto il massiccio della Cheyenne Mountain in Colorado.

L’uso di armi capaci di un basso margine di errore può limitare, secondo i calcoli dei tecnici, i danni collaterali a strutture eventualmente vicine e alle popolazioni, contenendo (sempre teoricamente) il fallout radioattivo nell’aria.

A conferma della migliorata precisione dell’arma, la potenza massima della versione B61-12 non supererà i 50 kilotoni.

Tali rassicurazioni non possono essere del tutto soddisfacenti, perchè dipendono moltissimo dalla caratteristche del suolo dove l’arma viene impiegata.

Inoltre, se il bunker da colpire non si trovasse in una zona isolata, ma sotto una città densamente popolata?

Quello che preoccupa non solo il governo russo, ma in generale gli esperti è che la bomba B 61-12 avrà la capacità di colpire entro il raggio di 30 metri dall’epicentro dell’obbiettivo, rispetto ai 100 metri della versione 11, come hanno evidenziato i test di sviluppo eseguiti nel poligono Tonopah Test Range in Nevada.

L’aumento della capacità di precisione dell’arma è alla base di buona parte delle critiche contro il programma: le modifiche infatti sono mirate a renderla, di fatto, una guided bomb, un’arma controllabile a distanza.

La Boeing, impresa a cui è stato affidato lo sviluppo della versione, ha dotato il corpo della bomba di superfici di coda mobili e di un nuovo sistema informatico, capace di scambiare informazioni non solo coi sistemi dell’aereo lanciatore, ma anche di ottenere dati in tempo reale sull’area del bersaglio da colpire da satelliti. Questo vuol dire che l’arma potrà essere sganciata tenendo l’aereo lontano dal bersaglio, anche oltre 100 chilometri, al sicuro dalla prossibile intercettazione avversaria. Una volta che avrà acquisito definitivamente il bersaglio, guidata dal computer e dai sistemi radar installati, si dirigerà autonomamente verso l’obbiettivo.

 

La nuova tentazione di usare la ‘bomba’

Di fatto la B61-12 è passata dalla categoria delle iron bombs o stupid bombs, del tutto prive di guida, per passare appieno a quella delle smart bomb, le armi intelligenti, con tutta una serie di potenziali conseguenze.

Queste armi rischiano di sfuggire alla precisa classificazione a cui sono sottoposte dai trattati di limitazione internazionali, quindi anche la certezza del conteggio delle testate a disposizione può essere messo in discussione, con il risultato di rendere meno trasparente la situazione, accrescere la diffidenza reciproca fra gli Stati e mettere in pericolo la credibilità dei trattati stessi.

L’amministrazione americana subito dopo la firma del trattato New START nel 2010 aveva ribadito, sia con dichiarazioni dirette del Presidente Obama, sia con quelle contenute nel Nuclear Posture Review Report, l’impegno degli Stati Uniti a non sviluppare nuovi tipi di testate nucleari oppure nuove capacità per le armi già prodotte, limitando nei programmi di estensione della vita operativa (Life Exstension Programs, LEP) l’uso di componenti basati su progetti già esistenti.

Tuttavia, anche quando la testata di guerra resti sostanzialmente la stessa delle prime versioni, se l’arma viene resa controllabile dopo lo sgancio, la capacità di penetrazione del bersaglio viene aumentata, allora senza alcun dubbio siamo in presenza di nuove capacità militari.

Quindi nel caso della B61-12 ci si troverà davanti all’introduzione di un’arma sostanzialmente diversa e nuova: questa è l’accusa, che sembra basata su solidi argomenti, mossa da molte parti al programma, con buona pace delle dichiarazioni della National Nuclear Security Administration.

Già nel 2011 la Federation of Atomic Scientists aveva inviato una lettera preoccupata alla Presidenza degli Stati Uniti e al Segretrario alla Difesa per sottolineare i rischi di destabilizzazione legati ai programmi di aggiornamento della B61 e delle altre armi nucleari.

Il governo americano però non ha mai risposto.

Alcune riflessioni fatte durante una conferenza stampa dal generale Norton Schwartz, capo di stato maggiore dell’areonautica statunitense, hanno aggiunto un ulteriore motivo di preoccupazione. Schwartz ha ammesso che avere a disposizione un’arma di relativamente basso impatto ambientale e elevata precisione può cambiare il modo in cui i politici e i comandanti militari considerino il ricorso all’arma atomica, rendendolo più appetibile che in passato.

Specie in teatri di guerra circoscritti, dove le situazioni sul campo possono divenire molto complesse, il ricorso ad una arma estremamente potente e dotata di precisione chiurgica potrebbe colpire al cuore la capacità organizzativa dell’avversario, evitando prolungati e rischiosi interventi sul campo.

D’altro canto, i programmi di update sono preziose occasioni di lavoro sia per i laboratori di ricerca e sviluppo (come il Sandia National Laboratory o il Los Alamos National Laboratory), sia per i grandi colossi dell’industria aerospaziale.

L’arma è stata infatti pensata per equipaggiare i cacciabombardieri di quinta generazione, in primis il Lockheed- Martin F 35A Lightning II, che sarà in dotazione a molti paesi della Nato e i cui test di sviluppo da parte dell’USAF proseguono a pieno ritmo.

Intanto, sarà già resa operativa, per quanto con minore efficienza, sui mezzi già in linea, quali i Panavia Tornado IDS per Germania e Italia, gli F 16 Fighting Falcon per Olanda, Belgio e Turchia. Oltre 700 milioni di dollari sono già stati stanziati dal D.oD. (Department of Defence, Dipartimento della Difesa USA) nel triennio dal 2014 al 2017 per sviluppare il software degli aerei, le strutture delle basi destinate a custodire le armi (Weapons Storage and Security System, WS3), per aggiornare la preparazione di piloti e personale di terra.

Per l’areonautica americana, l’arma sarà utilizzabile sia dagli F16C/D (nella base di Aviano, in Friuli, ad esempio, sugli aerei del 31st Fighter Wing), dagli F15E Strike Eagle, dai venerandi B52H Stratofortress, dai B1B Lancer e dai B2A Spirit, mentre la US Navy adeguerà i propri F/A 18 Super Hornet imbarcati sulle portaerei.

Secondo la Federation of Atomic Scientists, alcune foto satellitari mostrano che i lavori sono già iniziati, a partire dalla base della Luftwaffe di Buchel in Germania, dove andranno venti di questi nuovi ordigni.

Una quantità uguale verrà stoccata in ciascuna delle basi di Volkel in Olanda, Kleine Brogel in Belgio, Ghedi-Torre in Italia, mentre ad Adana-Incirlik in Turchia andranno 50 ordigni.

L’Italia resterà il Paese con più testate di tutta l’Alleanza Atlantica: se contiamo che alla base di Aviano andranno circa 50/70 bombe, sommate alle 20 destinate a Ghedi avremo un totale di 70/90 armi termonucleari.

di Davide Migliore

 

Linkografia:

Le lancette del Doomsday Clock vanno avanti

https://it.wikipedia.org/wiki/B61

https://it.wikipedia.org/wiki/Condivisione_nucleare

https://www.youtube.com/watch?v=FBm74WiCL1g

http://espresso.repubblica.it/attualita/2016/01/20/news/ecco-la-nuova-bomba-h-che-arrivera-in-italia-1.247276?refresh_ce

http://www.ilgiornale.it/news/cronache/armi-nucleari-segrete-italia-1215307.html

http://www.webalice.it/imc2004/files_arms/nuclear/B-61.htm

http://www.difesaonline.it/mondo-militare/difesa-nato-gli-usa-inviano-20-nuove-bombe-nucleari-germania-italia-dalle-30-alle-50

http://www.ilgiornale.it/news/mondo/obama-e-i-mille-miliardi-dollari-nuovo-arsenale-nucleare-1214785.html

http://nukewatch.org/B61.html

http://www.globalresearch.ca/o-k-per-logiva-nucleare-b61-12-andra-ad-aviano/5466784?print=1

http://www.pddnet.com/news/2015/05/photos-day-mock-b61-12-nuclear-bomb-tested

http://espresso.repubblica.it/inchieste/2014/07/01/news/ecco-le-bombe-nucleari-di-brescia-1.171372
http://www.globalresearch.ca/in-italia-bombe-nucleari-a-potenza-variabile/5501986

http://www.wired.it/attualita/tech/2016/01/12/armi-nucleari-usa-miniatura/

http://nnsa.energy.gov/mediaroom/pressreleases/b61-b61-12-lep-life-extension-program-snl-lanl-sandia-national-laboratory

http://fas.org/blogs/security/2016/01/b61-12_earth-penetration/

https://www.whitehouse.gov/the-press-office/statement-president-barack-obama-release-nuclear-posture-review

http://www.defense.gov/Portals/1/features/defenseReviews/NPR/2010_Nuclear_Posture_Review_Report.pdf

https://luisspersenzatomica.wordpress.com/2015/03/23/intervista-hans-m-kristensen-presidente-nuclear-information-project-federazione-degli-scienziati-americani/comment-page-1/

http://thebulletin.org/press-release/doomsday-clock-hands-remain-unchanged-despite-iran-deal-and-paris-talks9122

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Le nuove mini bombe atomiche rilanciano la corsa agli armamenti

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Le nuove mini bombe atomiche rilanciano la corsa agli armamenti

Pubblicato il 25 novembre 2015 by redazione

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Trinity Site Obelisk National Historic Landmark.

All’inizio degli anni ’90 dello scorso secolo, finita la Guerra Fredda, sembrava si stesse affermando finalmente un clima di distensione tra Paesi, prima duramente contrapposti sia sul piano ideologico, sia sul piano economico – militare.

I trattati internazionali di disarmo nucleare START I del 1991 e START II del 1993, poi il trattato SORT del 2002 e il New START o Trattato di Praga del 2010, hanno consentito riduzioni notevoli degli arsenali e regole precise sullo sviluppo di alcune categorie di armi e vettori nucleari.

L’entusiasmo si è però progressivamente spento, lasciando il posto a un’altra preoccupazione: il nuovo ‘disordine mondiale’, ha consentito di far riemergere gli scontri latenti tra gli Stati.

La tragedia dell’11 settembre 2001 ha fatto ripiombare il mondo in una situazione di tensione e di diffidenza reciproca fra le nazioni.

Una delle conseguenze è stato il tentativo da parte di molti Paesi di entrare nel cosiddetto club nucleare, cioè il gruppo di Paesi in possesso dell’arma atomica.

Bisogna ammettere che la tecnologia di base ormai non è più appannaggio solo di quegli Stati che per primi l’hanno sviluppata, sebbene progettare un’arma atomica resti una cosa piuttosto complessa.

Le tensioni anche tra le grandi due superpotenze USA e Russia è tornata a salire, fino a sfociare di fatto in una nuova corsa agli armamenti, propagandata come razionalizzazioni e ammodernamenti degli arsenali nucleari, necessari e formalmente rispettosi dei limiti imposti dai trattati internazionali.

Gli Stati Uniti hanno sostenuto, a propria giustificazione, l’impossibilità di proseguire nello sviluppo del Trattato di Non Proliferazione (TNP), finché vi siano Paesi apertamente impegnati nello sviluppo nucleare.

Le vicende che fino a oggi hanno coinvolto l’Iran e la Corea del Nord sono esempi attualissimi.

Washington ha annunciato un piano trentennale di revisione dello stockpile nucleare con una spesa prevista di circa 400 miliardi di Dollari. La necessità di rendere sicuro e controllabile l’arsenale è reale, riguarda tutti i possessori di armi nucleari, ma i programmi di tutti i Paesi del club sono chiaramente sovradimensionati.

Inoltre hanno incominciato a guardare all’atomica anche Paesi, stabili e potenzialmente capaci di sviluppare un programma , che però per motivi storici e politici si erano finora tenuti a distanza dall’arma nucleare.

Tra l’altro le tecnologie di calcolo attuali permettono di evitare la fase più eclatante dello sviluppo di un’arma, ovvero i test di prova.

La situazione se possibile è diventata ancora più incontrollabile con la crescita del terrorismo fondamentalista islamico, che sta tentando di scatenare una nuova guerra fra Oriente e Occidente.

Anche le organizzazioni estremiste mirano ora più che mai a mettere le mani sul materiale fissile per acquisire una terribile capacità di distruzione di massa.

In questo panorama internazionale sempre più inquietante, manca la volontà di collaborare tra molti governi potenzialmente coinvolti, anzi c’è chi sostiene che i trattati internazionali, disegnati sul modello di un mondo che non c’è più, siano superati e non valga la pena tenerli in vita.

In poche parole, si è tornati a parlare di un uso limitato e locale dell’arma nucleare, come se si trattasse di un’arma convenzionale qualsiasi: già nel 2003, durante la seconda Guerra del Golfo e l’invasione dell’Iraq, per la prima volta esponenti del governo statunitense ipotizzarono apertamente il ricorso a ordigni tattici nucleari, sotto la minaccia che il dittatore iracheno Saddam Hussein potesse utilizzare quelle armi di distruzione di massa, la cui eliminazione era stata uno dei motivi principali per giustificare la guerra.

In realtà, nulla di nuovo sotto al sole: il Nuovo Concetto Strategico adottato dal Pentagono nel 1999 già chiaramente indicava l’attualità dello strumento militare nucleare, la necessità di rivedere le regole del suo impiego nel nuovo scenario internazionale e di rilanciare lo sviluppo tecnologico di queste armi.

I vertici politico militari degli altri Paesi non è che avessero posizioni molto diverse, nonostante le molte polemiche sollevate verso la nuova dottrina sul nucleare…

Anzi, con tutta probabilità a rendere di nuovo appetibile l’opzione militare nucleare sui campi di battaglia pare essere proprio lo sviluppo scientifico e tecnologico raggiunto in questo campo.

 

L’evoluzione dell’arma atomica

Il 16 luglio 1945 a Alamogordo, nel deserto del New Mexico, la prima esplosione nucleare provocata dall’uomo (in codice Trinity test), inaugurò l’era atomica.

Furono finalmente chiare due cose: Albert Einstein aveva ragione, la sua teoria della relatività funzionava e l’uomo era finalmente in grado di dominare o, meglio, di scatenare la più grande potenza che si sia mai vista, contenuta nella struttura più piccola che si conoscesse, l’atomo.

Immagine 1

Questo fotogramma scattato 25 millisecondi dopo l’innesco della prima reazione a catena indotta dall’uomo, ci mostra l’attimo in cui è iniziata l’era atomica. Il Trinity test a Alamogordo, deserto del New Mexico.

Come le sue dirette discendenti che esplosero il mese dopo su Hiroshima e Nagasaky, si trattava di un ordigno che sfruttava il fenomeno della fissione nucleare.

Ovvero, la proprietà dell’Uranio 235 o del Plutonio 239 di emettere una straordinaria quantità di energia, in quanto elementi caratterizzati da una altissima densità e peso atomico.

L’Uranio 235 è un isotopo fortemente arricchito dell’U92 e il Plutonio239, non esistente in natura, si genera sottoponendo l’Uranio 238 a un bombardamento di neutroni.

La pesantezza dei nuclei li rende elementi altamente instabili e già naturalmente radioattivi, cioè capaci di emettere energia sotto forma di radiazioni, per arrivare all’equilibrio: il funzionamento dei reattori atomici e degli ordigni bellici sfrutta questo fenomeno per utilizzare l’energia contenuta nei nuclei.

Quando si colpisce con un neutrone un nucleo di U235, il nucleo dell’uranio si spezza, provocando la creazione di due nuclei di elementi diversi e l’emissione di altri due o tre neutroni.

Se la massa di materiale instabile e abbastanza concentrata, i neutroni usciti dalla prima fissione atomica non si disperderanno, ma andranno a colpire il nucleo di un atomo vicino, che subirà a sua volta fissione, emettendo altri neutroni, che colpiranno a loro volta i nuclei di atomi vicini.

E’ il principio della reazione a catena.

Circa 1% della massa atomica si converte in energia, sotto forma di radiazioni e energia cinetica dei neutroni.

La massa di materiale instabile adatta a generare questa reazione è detta massa critica e può variare in base all’elemento atomico scelto per armare la bomba, dalla sua purezza e concentrazione come isotopo fissile, dalla forma geometrica, così come da eventuali schermature inserite per contenere al massimo la fuga di neutroni.

In una testata atomica, come quelle Little Boy che venne sganciata su Hiroshima o Fat Man lanciata su Nagasaky, la massa critica è divisa in due o più sub masse, generalmente sferico-concave, che vengono fatte collidere a alta velocità, usando esplosivo convenzionale per spararle letteralmente l’una contro l’altra.

Le sub masse così unite costituiscono il nocciolo dell’arma: la compressione provoca il distacco di neutroni da alcuni atomi e la scissione di altri, causando l’innesco della reazione a catena incontrollata.

Al centro della massa fissile normalmente viene inserita una piccola quantità di un elemento potenziatore, come il Polonio 239, forte emettitore di neutroni.

E’ il modello usato per Little Boy, in cui sono stati bruciati circa 65 chilogrammi di Uranio 235.

La massa critica necessaria a generare la reazione si riduce a circa a 7- 10 chili, se si usa lo schema più efficiente a implosione, adottato nell’ordigno Fat Man.

In questo modello le sub masse fissili sono poste attorno al nocciolo vero e proprio, a costituire una sfera, venendo fatte collidere tutte con precisione nello stesso istante, mediante un sistema di cariche di esplosivo convenzionale, azionate da un complesso sistema elettronico.

Si tratta tipicamente dello schema degli ordigni detti di prima generazione, in cui al massimo si riesce a sfruttare solo il 15% del materiale fissile, il resto viene distrutto dalla reazione termica e meccanica dell’esplosione stessa. Tuttavia la presenza nella testata di tale quantità di materiale è necessaria perché si possa innescare la reazione a catena.

Inoltre se i neutroni sono troppo veloci e non vengono contenuti nell’ambito della massa critica, rischiano di rimbalzare, invece che penetrare gli altri atomi, disperdendosi inutilmente all’esterno.

La scissione dell’atomo di Uranio o Plutonio genera altri sub elementi, fortemente radioattivi come il Cesio 137, lo Stronzio 90 e lo Iodio 131, presenti nel fall out radioattivo provocato dall’enorme quantità di materiale che la bomba ha incenerito e risucchiato nel fungo atomico. Questi elementi, assieme alle radiazioni Alfa, Beta ma sopratutto Gamma, sono i principali responsabili dei danni gravissimi alle catene del DNA degli esseri viventi, che si vanno a sommare a quelli causati dalle temperature che raggiungono nell’epicentro della deflagrazione circa 500/700mila gradi centigradi e a quelli causati dal violentissimo spostamento d’aria, che può raggiungere i 300 chilometri all’ora nell’area più vicina all’epicentro.

Quindi, chi non viene subito vaporizzato, muore tra atroci sofferenze per le ustioni e i traumi gravissimi subiti. Oppure nei giorni successivi mostra i segni dell’avvelenamento acuto da radiazioni, che hanno minato il fisico dall’interno e provocano il decesso delle vittime, con una agonia terribile. Tumori e malformazioni genetiche continueranno per decenni a colpire i sopravvissuti e le generazioni successive, come conseguenza a lungo termine dell’irradiazione o dell’assorbimento nel corpo di elementi fortemente radioattivi.

E’ il calvario che hanno dovuto subire gli abitanti delle due città giapponesi annientate alla fine della Seconda Guerra Mondiale.

Immagine 2

Schema tipico di un ordigno atomico con innesco “a proiettile”, come quello adottato nella bomba Little Boy.

 

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Schema della fissione atomica e dell’innesco di una reazione a catena.

Per ovviare ai limiti di efficienza delle prime atomiche, venne sviluppato il progetto di una bomba che impiegasse il fenomeno fisico opposto alla fissione, cioè la fusione nucleare tra due nuclei atomici.

La bomba termonucleare all’Idrogeno o bomba H sfrutta questo fenomeno, che sta alla base del funzionamento delle stelle, come il nostro sole.

Lo schema di questa bomba, detta a fissione – fusione – fissione secondo il modello sviluppato dai fisici Edward Teller e Stanislaw Ulam, prevede una prima sezione costituita da una bomba atomica a fissione.

All’interno dell’arma è contenuta una certa quantità di un isotopo instabile dell’Idrogeno, il Deuterio (H2), allo stato solido, assieme a Litio 6. Al centro dell’ordigno, una canna vuota di Plutonio 239.

Innescata la reazione di fissione classica del primo stadio, la pressione e il calore generato dalla prima reazione di fissione surriscaldano il Deuterio e il Litio.

La seconda reazione di fissione avviene nella canna di Plutonio, generando neutroni veloci e altro calore, che provocano a loro volta la scissione del Litio6 in Trizio o H3, altro isotopo dell’Idrogeno.

A questo punto avviene la reazione di fusione fra Deuterio e Trizio, con la generazione di enorme quantità di energia, fino a 20 milioni di gradi centigradi, onde d’urto a centinaia di chilometri all’ora e potentissimi impulsi elettromagnetici, capaci di distruggere ogni apparecchio elettrico nel raggio di centinaia di chilometri.

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Schema della fusione nucleare, alla base del funzionamento della bomba termonucleare o bomba H.

L’arma termonucleare è divenuta il modello più diffuso per molti decenni negli arsenali, perché ha reso possibile raggiungere potenze teoricamente illimitate, misurabili in megatoni, ossia in milioni di tonnellate di tritolo. Successivamente, la ricerca applicata ha consentito di immagazzinare nella bomba direttamente una piccola quantità di Trizio per l’interazione col Deuterio, senza dipendere dalla fissione de Litio6.

Sono le armi definite di seconda generazione.

L’arma termonucleare sarebbe di per se più pulita dell’arma a fissione, in quanto produce molti meno isotopi radioattivi pericolosi, ma se fatta esplodere in vicinanza del suolo o della superficie marina, provoca una quantità di fall out mostruosamente più grande.

Testate termonucleari furono installate in quasi tutti i tipi di armi, dai missili intercontinentali balistici alle mine antisommergibili, dai missili antiaerei alle armi a caduta libera, in una sorta di febbre del tutto nucleare.

Già nel 1961, quando l’URSS fece esplodere la mostruosa bomba Tzar dalla potenza di 50 megatoni e dal peso ingestibile di 27 tonnellate, la corsa alla bomba più grande stava terminando.

La nuova sfida era rendere più leggere e maneggevoli le testate, specialmente quelle da installare sulle nuove e temibili generazioni di missili strategici intercontinentali a testate multiple indipendenti, i MIRV (Multiple Independently targetable Reentry Vehicles).

L’utilizzo delle testate multiple garantisce più vantaggi a livello tattico e strategico: si aumenta la capacità distruttiva dei propri sistemi, diminuendo la potenza delle testate, si ha la capacità di distruggere più obiettivi contemporaneamente, si mettono praticamente fuori gioco le difese antimissile degli avversari, che difficilmente sarebbero capaci di intercettarle tutte.

Figlie in linea diretta di queste armi furono le cosiddette armi al Neutrone, in cui gli effetti termici e cinetici venivano trascurati per concentrarsi sull’emissione di neutroni sotto forma di raggi Gamma.

Modello previsto per armi tattiche da usare sui campi di battaglia, consentiva di colpire tutte le forme di vita attorno all’esplosione, lasciando invece essenzialmente intatte le strutture e evitando in buona parte il fall out radioattivo successivo.

In questo modo le truppe sul campo di battaglia avrebbero potuto teoricamente muoversi, senza quasi temere contaminazioni da elementi radioattivi a lunga durata.

Le bombe di questa classe, definite armi di terza generazione, sono sempre state oggetto di un certo scetticismo sia da una parte degli scienziati, sia da parte dei militari stessi, non solo per i dubbi sulla loro reale efficienza, ma sopratutto per la scarsa flessibilità di impiego.

La forte reazione morale dell’opinione pubblica a fronte degli effetti potenzialmente devastanti di tale bomba, ha causato il suo ritiro da buona parte degli arsenali nucleari, seppure una certezza assoluta della loro eliminazione totale non vi possa essere, a causa del segreto militare imposto da vari Paesi.

 

Smart Nuke Bomb: la quarta generazione delle armi nucleari e l’adattamento delle armi di generazione precedente.

Nel nuovo scenario internazionale dunque possedere bombe di grande potenza, costose da costruire e da mantenere efficienti, poco o nulla flessibili nel loro impiego, non è più conveniente: si sta cercando di sostituirle in tutto o in parte con ordigni molto più leggeri, compatti e economici.

Le potenze atomiche hanno già fatto molti sforzi, aggiornando le armi già in servizio negli arsenali alle nuove filosofie di impiego e alle nuove necessità strategiche del mondo di oggi.

E’ il caso della bomba termonucleare statunitense B61: introdotta nel 1966 come arma a basso potenziale, dal 1993 è presente nell’arsenale atomico statunitense (ma non solo) nella sua ultima versione B61 – 11.

Definita NEP, ovvero Nuclear Earth Penetrator, è stata pensata come arma bunker buster, ovvero per colpire fortificazioni sotterranee o edifici corazzati. Essenzialmente è un’arma termonucleare tattica, con una carica regolabile che può variare in potenza da 1 a 10 kilotoni, ma può arrivare anche a 1 megatone.

In realtà è un ottimo esempio delle armi pensate per i conflitti a bassa intensità del dopo Guerra Fredda.

Presentata come arma in grado di evitare il fall out radioattivo e preservare la vita della popolazione civile, in realtà nei test ha evidenziato grosse difficoltà a restare efficiente, una volta entrata oltre i sei metri nel terreno.

E’ chiaro che se venisse utilizzata operativamente, secondo le nuove filosofie di impiego localizzato, in ambiente urbano darebbe comunque luogo a irradiazione da raggi Gamma e contaminazione da dispersioni radioattive importanti, con ricadute potenzialmente anche lontane dal luogo di impatto.

Dopo gli ultimi studi però l’arma è stata dichiarata perfettamente aderente alle specifiche e rimessa in stoccaggio nei depositi di munizionamento nucleare.

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Bomba termonucleare tattica B61-11 su carrello da trasferimento.

Attualmente è stato previsto un ulteriore step di aggiornamento alla versione B61-12, che riguarderebbe la compatibilità con gli aviogetti di nuova generazione, come l’F35 Lightning II, in via di acquisizione da parte di molte nazioni della NATO. La spesa prevista per dotare le armi di nuovi sistemi di guida remota è di 178 milioni di dollari, al valore del 2012. Tuttavia l’opposizione di molti Paesi a ospitare tali ordigni, i dubbi circa l’opportunità di spendere tali cifre su armi a caduta di vecchia generazione, avevano messo in forse il programma, ma l’amministrazione del Presidente Barak Obama pare abbia riconfermato l’aggiornamento.

Circa una ventina di questi ordigni è conservata presso la base militare di Ghedi, secondo la politica NATO del nuclear sharing, la condivisione con le forze armate degli alleati di armamenti nucleari, formalmente di proprietà del Paese produttore, gli Stati Uniti, che continuano a gestirle e manutenerle con unità speciali di supporto logistico.

Altro esempio sono le testate da demolizione W45 SADM (Special Atomic Demolition Munition), trasportabili a spalla in uno zaino militare.

Pensata per operazioni locali, pesava però circa 45 chili, a causa dei sistemi di innesco e del materiale fissile prescelto, il Plutonio 239. Ne è stata anche prodotta una versione lanciabile attraverso un razzo terra – terra da 120 millimetri, la potenza per entrambi poteva variare tra una frazione di kilotone e i 6 kilotoni.

Dati i limiti tecnici e la facilità con cui si potevano danneggiare, questi dispositivi sono stati comunque ritirati dal servizio, così come sono stati ritirati i proietti all’Uranio 235 pensati per l’uso con l’obice da 155 millimetri modello M 109.

Tuttavia, molto probabilmente sia Israele che la ex Unione Sovietica hanno continuato lo sviluppo di ordigni da valigia, ulteriormente miniaturizzati e facilmente occultabili su aerei o altri mezzi di trasporto, per uso di sabotaggio.

Queste armi sarebbero ideali per i gruppi terroristici, quindi vengono considerate tra le più pericolose. Infatti resta il dubbio che dopo il crollo dell’Unione Sovietica, le forze armate e lo spionaggio russo abbiano perso le tracce di molti di questi ordigni, spesso dislocati all’estero.

Si tratta comunque di dispositivi che necessitano di manutenzione e cura particolare perché possano restare efficienti.

Resta chiaro che l’adattamento di armi di vecchia generazione non può essere una soluzione al problema delle strategie moderne.

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Ordigno da demolizione portatile W 45 SADM.

Il loro uso causerebbe comunque un olocausto nucleare su vasta scala, per cui i vertici statunitensi (ma è molto probabile siano giunti alle stesse conclusioni anche quelli russi o cinesi) hanno incominciato a pensare a un concetto di arma completamente nuovo.

Vi è un’opinione diffusa secondo la quale la ricerca militare, in alcuni momenti storici abbia permesso successive applicazioni in campo civile.

E’ un giudizio però un pò superficiale e errato, specialmente per il momento attuale.

E’ indubbio che i progressi nel campo dei superconduttori, delle nanotecnologie (avvenuti specialmente negli Stati Uniti) una volta applicate al campo della ricerca militare, consentiranno lo sviluppo di una generazione di armi nucleari radicalmente nuova e diversa rispetto al passato.

Quindi siamo in presenza dell’esatto contrario, è la ricerca civile che sta trainando e rilanciando quella bellica, specie nel campo delle armi non convenzionali.

Se da un lato procurarsi Uranio arricchito o Plutonio resta non del tutto facile, dati i controlli dell’Agenzia Internazionale per l’Energia Atomica (AIEA), dall’altro è diventato molto più semplice procurarsi le tecnologie per farselo in casa.

Procurarsi centrifughe per l’arricchimento sul mercato internazionale è molto più semplice che in passato.

La vicenda del programma nucleare iraniano è emblematica in questo senso, dato che le centrifughe ufficialmente sono state acquistate per la produzione di energia a uso civile.

In realtà ciò che resta molto difficile per Paesi di medio sviluppo è procurarsi la tecnologia del Trizio.

Sappiamo che è un gas leggero, radioattivo, estremamente instabile, ottenuto dall’irraggiamento di atomi di Litio6 con neutroni veloci: ne bastano pochi grammi in un moderno ordigno termonucleare.

Costruire acceleratori di particelle per produrre il Trizio resta anche più difficile che procurarsi l’Uranio o le centrifughe di arricchimento.

E’ a questo punto che la ricerca civile è venuta, più o meno consapevolmente, in aiuto di quella militare contribuendo al suo rilancio.

La tecnologia del Trizio è fondamentale anche nelle ricerche civili sulla fusione nucleare controllata, applicata alla produzione di energia.

L’utilizzo di generatori laser super potenti dovrebbe consentire di comprimere e portare a fusione un pit

contenente pochi milligrammi di Deuterio e Trizio.

La fusione di un milligrammo di tali elementi consentirebbe di sprigionare un’energia di ben 340 milioni di Joule, quindi un reattore a fusione laser da un Megawatt consumerebbe solo 1,5 milligrammi di Deuterio e Trizio all’ora.

Un risultato fenomenale che potrebbe finalmente rendere la dipendenza dalle tradizionali fonti di energia non rinnovabili un ricordo del passato.

Grandi impianti come National Ignition Facility 192 americano, sviluppato dalle ricerche del Lawrence Livermore National Laboratory, o il francese Megajoule 240 realizzato nelle vicinanze di Bordeaux presto permetteranno di raggiungere questo know how.

Restano ancora da realizzare laser estremamente compatti e potenti, ma che riescano anche a limitare il consumo di energia. Anche in questo campo la ricerca sui superconduttori e le nanotecnologie sta facendo passi da gigante, per cui le ricadute in campo bellico non si faranno attendere.

Negli Stati Uniti in particolare, si lavora già con i super computers, in grado di gestire interventi di precisione su dimensioni dell’ordine di un miliardesimo di metro, quindi siamo nell’ambito di gruppi di poche decine di atomi.

Del resto, proprio il principio della libera ricerca, che metta a disposizione dell’umanità conoscenze e applicazioni, è il motore del progresso scientifico e dello sviluppo delle tecnologie: sarebbe ipocrita cercare di limitarlo ora per paura delle conseguenze nella ricerca militare.

A questo punto, una volta in possesso di laser compatti super efficienti per ottenere il Trizio e indurre la fusione Deuterio – Trizio, il passo successivo sarebbe la realizzazione di ordigni a fusione pura (eliminando il terzo stadio a fissione che abbiamo visto presente nello schema tradizionale Teller – Ulam), di potenza ridotta, fino a mille volte meno di una testata nucleare di media potenza della vecchia generazione. Un’arma di pochi chilogrammi, se non di pochi etti, sarebbe in grado di generare la potenza di alcune tonnellate di tritolo.

Tale limitazione di dimensioni e potenza potrebbe facilmente sottrarre questa nuova classe di armi nucleari al controllo delle convenzioni e dei trattati di non proliferazione attualmente in vigore, con il terrificante risultato che potrebbero essere legalmente inserite, per il diritto internazionale, tra le armi convenzionali.

Sarebbe difficile per i comandi politici e militari resistere alla tentazione di utilizzare le armi di nuova generazione nei complessi e difficili scenari del nuovo millennio: comunque queste nuove armi, sulle quali la censura militare è comprensibilmente molto stretta, sono e resteranno armi nucleari, con tutte le loro terrificanti potenzialità e conseguenze.

Per esempio, basterebbe variare la quantità di Deuterio e Trizio nella testata, regolando di conseguenza la potenza del laser di fusione, per aumentare indefinitamente la potenza di un ordigno.

In ogni caso, l’opinione pubblica internazionale dovrebbe essere attenta sulle armi nucleari di nuova generazione, perché stiamo ritornando, momenti in cui la proliferazione crescente e l’insicurezza internazionale potrebbero riavvicinare l’umanità al baratro del conflitto, prima di quanto si possa immaginare.

di Davide Migliore

 

Linkografia e bibliografia

https://en.wikipedia.org/wiki/Nuclear_weapon_design

https://en.wikipedia.org/wiki/Nuclear_weapon_yield

http://www.spiegel.de/international/world/us-modernizing-its-nuclear-arsenal-despite-criticism-over-weapons-a-932188.html

http://www.dmi.unipg.it/mamone/sci-dem/nuocontri/baracca.htm

http://www.juragentium.org/topics/wlgo/it/nuclear2.htm

http://www.difesaonline.it/mondo-militare/difesa-nato-gli-usa-inviano-20-nuove-bombe-nucleari-germania-italia-dalle-30-alle-50

http://www.nexusedizioni.it/it/CT/la-nuova-dottrina-del-pentagono-le-mini-atomiche-sono-sicure-per-i-civili-di-michael-chossudovsky-533b2bd08a385

https://it.wikipedia.org/wiki/Bomba_atomica_da_zaino

http://www.repubblica.it/esteri/2013/06/19/news/sulle_rampe_o_in_aerei_e_sottomarini_ecco_i_numeri_del_terrore_atomico-61398604/

https://it.wikipedia.org/wiki/Accordi_START

http://it.ibtimes.com/quali-sono-gli-stati-con-armi-nucleari-1361196#

http://www.unimondo.org/Guide/Guerra-e-Pace/Armi-Nucleari/%28desc%29/show

http://www.massacritica.eu/nel-2017-un-arco-da-32-000-tonnellate-ricoprira-il-reattore-di-chernobyl/7340/

http://www.massacritica.eu/sparse-sul-pianeta-ci-sono-20000-bombe-nucleari/10614/

http://www.massacritica.eu/una-guerra-nucleare-e-possibile/10798/

http://www.massacritica.eu/fukushima-tutto-il-non-detto-troppo-non-detto/33/

http://www.massacritica.eu/cernobyl-un-disastro-annunciato/6721/

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Burt Rutan

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Burt Rutan

Pubblicato il 15 febbraio 2013 by redazione

Burt_Rutan1° parte

Elbert Leander Rutan, per gli amici ed estimatori, semplicemente Burt: un nome abbastanza anonimo per uno degli ingengneri areonautici più eclettici e prolifici della storia.

Nato il 17 giugno 1943 nello stato americano dell’Oregon, ad Estacada, pochi chilometri da Portland, cresce in California, a Dinuba, dove sin da piccolo si appassiona a veivoli aerei.

Pare che già a 10 anni disegnasse macchine volanti e, nel 1959, a soli 16 anni riuscì persino a prendere il brevetto di volo. Naturalmente si iscrisse alla facoltà di ingegneria aeronautica alla California Polytechnich State University, da cui brillantemente uscì laureato nel 1965, terzo di tutto il suo corso.

Forse sarà stato il fatto di esser nato nello stesso giorno in cui un altro genio dell’aeronautica, Clarence “Kelly” Johnson fondava gli “shunk works”, i laboratori segreti dell’industria Lockheed, fucina di progetti ed esperienze rivoluzionarie sia in campo militare sia civile, a partire dai bollenti giorni della Seconda Guerra Mondiale fino a quelli degli anni della guerra fredda.

O forse fu la fortuna di crescere in uno degli stati più effervescenti della ricerca aeronautica e sede di alcune tra le maggiori industrie del “più pesante dell’aria” di tutto il mondo.

Fino al 1972 lavorò per l’aeronautica Statunitense, la U.S. Air Force, nella Edwards Air Force Base, dove tutta la sua ecletticità e il suo modo controcorrente di pensare aerei e materiali ebbe la possibilità di svilupparsi al massimo. Venne, infatti, coinvolto assieme alla compagnia  Ling-Temco-Vought nello sviluppo dell’XC142, una velivolo VSTOL, ovvero Vertical Short Take Off and Landing, cioè un aereo che, grazie all’ala rotante sul proprio asse, poteva rapidamente divenire simile a un elicottero, permettendo l’atterraggio e il decollo in verticale, in uno spazio di pochi metri. In realtà le difficoltà tecniche portarono all’abbandono del progetto, che rinacque però anni dopo e portò alla realizzazione del V22 Osprey, attualmente in linea con le forze armate statunitensi.

L’esperienza su progetti del genere non fecero che aumentare la convinzione che si potessero progettare macchine volanti usando materiali e formule ben diverse dai “canoni classici” che si insegnavano nelle facoltà universitarie o si seguivano nelle industrie aerospaziali.

Conclusa l’esperienza con l’USAF, assunse fino al 1974 la carica di responsabile collaudi per la Bede Aircraft in Kansas, dove maturò anche la decisione di mettersi in proprio e investire nelle idee che stava sviluppando. Si trasferisce così nel bel mezzo del deserto del Mojave, dove fonda la Rutan Aircraft Factory, assieme ad alcuni altri ‘pazzi visionari’.

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Il Rutan VariEze nella galleria del vento del centro di ricerca aeronautica della Nasa a Langley.

Model 27VariViggen

La prima realizzazione fu il Rutan Model 27VariViggen: già nell’aspetto questo piccolo velivolo manifestava tutto l’approccio alternativo della progettazione Rutan. Nato già negli anni successivi all’università, il primo prototipo (ispirato al caccia supersonico svedese SAAB J 37 Viggen) iniziò ad essere assemblato nel garage di casa Rutan nel 1968, nel più classico stile ‘do it yourself’ americano, ma Burt ci stava lavorando sin dal 1963, mentre studiava ancora ingegneria.

L’idea era di fornire al mercato un velivolo semplice da diporto, facile da costruire e mantenere, dalle prestazioni estremamente avanzate. Rutan credeva nell’idea di un’aviazione per tutti, una “motorizzazione” dell’aria facile ed economica.

Lungo solo 5,12 metri, con un’apertura alare di 5,79 metri, per una superficie di soli 11,40 metri quadri e un peso di 772 chili in ordine di volo, questo biposto era sostenuto da un piccolo motore a scoppio Lycoming, con elica spingente: praticamente un’alternativa all’auto, “parcheggiabile agevolmente nel garage di una casa di periferia”. Il motore era posizionato in fusoliera dietro all’abitacolo e non davanti come si è soliti vedere… questa scelta implicava però la rinuncia ai comandi classici di coda, timoni di direzione e profondità sdoppiati, per far posto all’elica e in parte compresi nell’ala a delta, ovvero dal disegno in pianta che ricorda la metà di un triangolo. Parte sono invece posti in un’aletta davanti all’abitacolo, secondo una soluzione detta ‘Canard’ (anatra in francese) oggi piuttosto comune anche nei velivoli militari ad alte prestazioni, ma allora… questo rendeva un aereo sicuro per il turismo e il diporto, difficile da far entrare in stallo (cioè perdere la portanza, il sostegno del flusso di aria che spinge verso l’alto il velivolo) e nelle cadute a vite, le più pericolose. Ma soprattutto sono i materiali: esteso l’uso del legno ma soprattutto delle fibre di vetro. Rutan sin da allora ha sempre mostrato fiducia nei materiali alternativi, una visione lungimirante come vedremo in seguito.

Il prototipo del VariViggen oggi è conservato nel Ventura Air Museum. Ne furono costruiti solo 5 esemplari, ma il VariEze da cui fu sviluppato venne estesamente costruito e venduto fin al 1985, anche come kit montabile in casa.

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Un esemplare di Model 33 VariEze in volo mostra le dimensioni compatte e le linee anticonvenzionali del progetto di Burt Rutan.

Model 33 VariEze

Lo stesso Rutan dimostrò le possibilità della sua formula impegna dosi con il Model 33 VariEze, evoluzione del VariViggen in produzione dal 1976,  a polverizzare vari record , tra cui quello stabilito al raduno areonautico di Oshkosh, con una distanza coperta di ben 2.636 chilometri di volo! E con un consumo di carburante irrisorio, meno di un’automobile… Niente male per un aereo appartenente alla classe di peso inferiore ai 500 chili… il pilota Gary Hertzler vinse con un VariEze il premio CAFE (Challenge Aircraft Efficiency Prize) per la sicurezza. In effetti, di tutte le varianti del variEze (seguito dal più grande Long-Eze) furono costruiti più di 2000 esemplari, venduti in tutto il mondo addirittura in scatola di montaggio … gli incidenti registrati per questo velivolo, tra il 1976 e il 2005, furono solo 130, 46 dei quali con vittime, a fronte di un incalcolabile monte di ore di volo. Praticamente molto più sicuro di una qualsiasi automobile utilitaria. Al 2005 risultavano solo negli States ancora 800 VariEze iscritti al registro areonautico e in condizioni di volo. Per un piccolo produttore indipendente è assolutamente un miracolo.

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Il Model 54 Quickie e le sue evoluzioni hanno segnato forse il vero primo successo dell’industria fondata da Burt Rutan e delle sue convinzioni. Nella foto, un biposto Quickie Q2 ripreso ad Arlington nel 2003.

Model 54 Quickie

Altrettanto fece il Model 54 Quickie: piccolo aereo da turismo, propulso da un motore bicilindrico raffreddato ad aria della Onan Industries, da appena 18 cavalli, con una struttura timoni-ali a x, che richiamava più un caccia interstellare appena uscito da Guerre Stellari che un normale velivolo da  diporto. Addirittura ne fu studiata una versione che poteva montare un motore da automobile Wolkswagen !!! Nato nel 1977 sull’onda del successo del VariEze, segnò la definitva affermazione delle idee di Burt Rutan e della sua impresa commerciale. Alla fine della produzione, più di 3000 kit di Quickie.

Nel 1982 Burt Rutan fonda la Scaled Composites

Altra genialità di Rutan fu proprio di puntare decisamente su “scatole di montaggio”, come i modellini in scala, contenendo così il costo del velivolo e della produzione, dimostrando anche che qualsiasi cliente era in grado di costruirsi un aereo in garage o in un prato davanti a casa. Non c’è bisogno di essere degli ingegneri!

Nella sua azienda-abitazione nel deserto del Mojave questo tipico ragazzo americano continuava a sfornare idee e progetti senza soluzione di continuità. Ma soprattutto è nella chimica e nella fisica dei materiali, nell’immensamente piccolo, che Rutan cercava i segreti per poter viaggiare sempre meglio nell’“immensamente grande”.

Nel 1982 si sentì abbastanza pronto per fondare la Scaled Composites, azienda che  attualmente costituisce ancora il cuore delle imprese di Burt Rutan.

Il concetto è semplice: se voglio creare aerei e strutture alternative, c’è bisogno di materiali altrettanto anticonvenzionali. Allora perché non crearmeli da solo? Simbolo di quella ingenuità e genialità, che talvolta contraddistingue le imprese americane, Burt Rutan decise di creare un luogo dove si creassero gli aerei dal nulla: progettare, sperimentare il materiale e la struttura, costruire e testare il prototipo, infine iniziare la produzione. Tutto all’insegna della ricerca, del risparmio di materie prime e peso, per un risultato di massime prestazioni.

Nella compagnia sarebbero stati presenti tutti i profili di professionalità necessari: ingegneri, operai, chimici, piloti, tutti animati dalla fede nel realizzare l’impossibile. E il mondo aveva iniziato a credere  nelle capacità di quel simpatico geniaccio californiano, compreso il governo  americano e quegli stessi militari con cui Rutan aveva iniziato il suo percorso.

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Il prototipo dell’assaltatore “ARES” con un’accattivante colorazione notturna.

Infatti alla Rutan Aircraft Factory prima e alla Scaled Composites poi, viene chiesto di partecipare ad un concorso del ministero della difesa per un piccolo jet da osservazione e attacco al suolo, per cui Rutan ed i suoi progettisti creano l’ARES, un monoplano monomotore dalle prestazioni assolutamente incredibili per  la fine degli anni ‘80. Il progetto non venne poi più sviluppato, ma il prototipo dell’ARES continua ad essere impiegato per testare soluzioni e c’è stato anche più di un interessamento per produrlo come una “fuoriserie dell’aria”, per clienti amanti delle alte prestazioni.

Viene anche ricordato per esser stato impiegato in alcuni film di avventura e fantascienza. Ma anche i grandi colossi come la Northrop Grumman commissionano progetti a Burt Rutan: ad esempio l’aereo-spia senza pilota (drone in gergo areonautico) X47A.

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L’aereo spia senza pilota X47A progettato per la Northrop Industries.

In ogni caso, il principale campo di ricerca per Rutan resta quello dei materiali ultraleggeri, le strutture originali da impiegarvi, e il loro utilizzo nel campo civile, anche se le commesse militari rimangono sempre una tentazione, per una piccola compagnia che punta il tutto per tutto sulla ricerca.

Ultralite, una show-car progettata da General Motors  e realizzata da Rutan.

La riprova di quanto Rutan e la sua compagnia siano andati avanti nella ricerca e nell’applicazione dei materiali cosiddetti alternativi, arriva con Ultralite, una show-car progettata da General Motors  e realizzata da Rutan.

Struttura completamente realizzata in grafite e in pannelli in fibra di carbonio alternata a PVC, per una leggerezza e una robustezza inimmaginabili, che usa le classiche lamiere in metallo, oltre che il comfort interno molto maggiore per gli spazi così risparmiati e la visibilità esterna assolutamente non confrontabile con altre berline ordinarie: la leggerezza e la duttilità di questi materiali permettono di aumentare del 50% le superfici trasparenti (realizzate anch’esse in materiali di sintesi). Consumi ridicoli e durata eccezionale dei materiali (che non arrugginiscono…), purtroppo altre politiche industriali e altri calcoli di costo produttivo non hanno permesso all’epoca di sviluppare questo concept vehicle, che però ha fatto scuola tra le altre industrie internazionali dell’automobile. In futuro potrebbe divenire una realtà, sotto la spinta dei costi sempre più pesanti delle materie prime e di smaltimento dei veicoli convenzionali…

Voyager

Tra aerei da trasporto, sperimentali, jet executive e altre centinaia di progetti partoriti dalla sua mente vulcanica e visionaria, Burt Rutan ha sempre continuato a credere che la sfida ai record fosse il modo migliore (oltre che il più eccitante) di dimostrare  agli altri la validità del suo inimitabile “design”.

Da parecchi anni stava pensando ad un’impresa pazzesca: la traversata della Terra in un solo volo, senza scali e senza alcun rifornimento. Una cosa da epoca dei pionieri del volo, ma non certo nel pieno dell’era dei satelliti e degli aviogetti. Tuttavia era qualcosa che non era mai stato tentato prima, una cosa da storia dell’aviazione, e della scienza. Come un tarlo ormai gli aveva  scavato nella mente e nel cuore.

Dick, fratello di Burt, ex pilota militare (la passione del volo è un punto in comune nella famiglia Rutan) e veterano del Viet-Nam, da tempo pilota capo collaudatore alla Rutan Aircraft Factory,  fu subito della partita, nutrendo la più grande fiducia nelle capacità progettuali del fratello minore. Nel 1981 iniziò, tra centinaia di impegni, a studiarne la fattibilità e a disegnare un aeroplano apposta per il record.

L’impegno richiese anni di prove, sviluppo di materiali (un grande uso di resine, epossidiche e fibra di carbonio) calcoli complicatissimi per il consumo di carburante e il tempo di volo, raccolta di fondi e ricerca di sponsor. Quest’ultimo aspetto fu fonte di amarezza, poiché nessuna banca, o altro grande sponsor, appoggiò l’impresa.

Addirittura il fatto che Dick e la sua compagna Jeanna Yeager non fossero sposati, negli anni dell’America Repubblicana e reaganiana, attirò loro l’antipatia dei conservatori radicali, … solo la grande e commovente generosità dei dipendenti di Rutan alla Scaled Composites (che lavorarono spesso senza compenso per quel progetto speciale) e di molti piccoli privati si riuscì ad avere i fondi necessari, oltre 2 milioni di dollari dell’epoca.

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Alle prime ore del 26 dicembre 1986, il Voyager viene fotografato da un “chase plane” alla fine del suo volo non stop attorno al globo, poche ore prima dell’atterraggio sulla pista della base aerea di Edwards, da dove era partito 9 giorni prima, il 14 dicembre.

Assemblato con pazienza per mesi e mesi in un hangar del Mojave airport, superando problemi che nessun altro aveva mai dovuto affrontare e lo scetticismo di buona parte del mondo scientifico e dell’aviazione, la mattina del 14 dicembre 1986, dalla pista della base militare di Edwards (dove nel 1965 Burt Rutan aveva iniziato la sua carriera dopo gli studi di ingegneria) il Voyager, com’era stato battezzato il velivolo, decollò. Solo poche ore prima aveva ricevuto le eliche ed i motori definitivi.

L’aereo aveva fatto un solo volo di collaudo, il 22 giugno di due anni prima, per di più con solo un quarto del carburante nei serbatoi. Un altro volo, per raggiungere la fiera annuale aerea di Oshkosh fu quasi essere interrotto perché l’aereo dimostrò di non essere controllabile in caso di pioggia. Ma l’aereo arrivò e quasi un milione di persone poté vedere la creatura di Rutan dal vivo: fu un colpo pubblicitario enorme.

Finalmente, tra l’8 e il 15 luglio 1985, pur con alcune tappe intermedie e affrontando avarie pericolose, il Voyager stracciò il record di distanza su unico volo in circuito detenuto dalla US Air Force da quasi 40 anni, percorrendo in 111 ore e 40 minuti 11.857 miglia. Il Voyager era pronto. Probabilmente fu il progetto più impegnativo e frustrante per Burt Rutan. Fino all’ultimo si dovettero affrontare avarie e malfunzionamenti potenzialmente letali. L’aereo era come sempre un grande Canard, con le superfici di controllo poste avanti alle ali, una fusoliera centrale pressurizzata, con uno spazio simile a quello di una cabina del telefono, in cui i due componenti dell’equipaggio, Dick Rutan e Jeana Yeager, avrebbero convissuto per lunghi 9 giorni, assieme a radio e provviste. Era sostenuto da due moderni motori Teledyne Continental, un IOL 200 raffreddato a liquido posto nella parte posteriore della fusoliera centrale, che sviluppava 130 cavalli/vapore massimi, e un IOL  0-240 posto anteriormente, con raffreddamento ad aria, capace di 11° cavalli/vapore.

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Le dimensioni del Voyager appaiono bene in questa foto scattata durante la presentazione al pubblico.

La lunga ala centrale, con un’apertura maggiore di quella di un Boeing 727, era costruita secondo una formula che le donava flessibilità e robustezza unici:  la struttura esterna era fatta di  numerosi fogli di carta sottilissima, impregnati di resine contenenti fibre di carbonio, mentre l’interno era costruito a celle a nido d’ape. Tutta la pannellatura esterna invece era formata da grafite, mentre per la struttura portante si era fatto largo uso di kevlar e fibre di vetro. Due semifusoliere partivano dal centro dell’ala, contenevano i carrelli d’atterraggio, strumentazione, celle del carburante e si ricongiungevano posteriormente con un unico piano di coda.

L’aereo era il primo di quelle dimensioni nella storia ad essere stato costruito interamente con materiali compositi e sintetici.

L’aero, senza attrezzature, carburante e motori, pesava soli 426 chili! Già al decollo i problemi non mancarono: sotto il peso di 3.180 chili  di carburante avio, le semiali si piegarono fino a urtare il suolo e due winglets, alette di controllo poste alle estremità delle ali, si staccarono. Ma Dick Rutan non se ne accorse, perché il microfono della radio era rimasto staccato e non sentì i disperati messaggi del fratello e dell’amico Mike Melvill, preso a controllare l’aereo che sembrava troppo lento rispetto ai calcoli. Nei 9 giorni Dick e Jeana, che non pilotava, ma svolgeva il fondamentale ruolo di supporto e controllo, dovettero affrontare di tutto: il motore anteriore si bloccò solo dopo poche ore di volo e ci volle parecchia inventiva per capire cosa l’aveva causato facendolo tornare miracolosamente in funzionamento. Durante il volo  di crociera, normalmente veniva tenuto in funzione solo uno dei due motori, utilizzandoli entrambi solo in caso di necessità. Successivamente l’impianto di pressurizzazione iniziò a non funzionare, quindi dovettero volare quasi sempre tra i 3 e i 4.000 metri. Questo voleva dire non poter sfuggire alle tempeste e alle correnti ascensionali, che sbattevano l’aereo come uno straccio.

Inoltre l’equipaggio dovette utilizzare giornalmente l’aspirina per tenere il sangue liquido e contrastare gli effetti della quota.

Non si poteva mai veramente riposare, c’erano sempre da controllare le temperature (un malfunzionamento alle ventole di raffreddamento teneva troppo elevata la temperatura dell’olio nei motori), sentire dal controllo missione a Mojave nell’hangar 77 la situazione meteo (Len Snellman, il metereologo volontario dell’equipe, fece del suo meglio per calcolare le rotte che li portassero lontani da tifoni e tempeste), continuare a travasare il carburante tra i serbatoi per mantenere l’equilibrio ed evitare torsioni eccessive alla struttura.

Oltre che a una serie di fortunali che sembrarono fare apposta a concentrarsi sulla loro rotta, si doveva lottare anche con le valvole del carburante, che tendevano a congelare. Sulla costa sudamericana una di queste smise di funzionare definitivamente. Assieme a tutto questo stress, anche il pilota automatico, che avrebbe dovuto affiancare Dick per buona parte del volo, sopra le Filippine mostrò funzionamenti anomali dei giroscopi, per cui non fu mai completamente affidabile.

Dick non poteva contare su turni di riposo finché non fosse stato riparato, per cui a Jeana toccò smontare e ricontrollare tutti i cablaggi delle strumentazioni, alla ricerca del guasto. Un errore di rotta di pochi decimi di grado avrebbe voluto dire perdersi su un oceano e la morte.

All’epoca il GPS era qualcosa che potevano permettersi i militari, e il governo americano non aveva patrocinato i Rutan… nonostante le autorità militari consentissero loro di appoggiarsi ai canali satellitari quando non occupati da traffico militare, alcuni danni alle antenne resero difficile il collegamento via UHF per tutto il volo.

Ma intanto l’impresa aveva calamitato l’attenzione nel pubblico mondiale, sembrando di rivivere i lontani 20 e 21 maggio 1927, giorni  in cui Charles Lindbergh, per primo e in solitaria, riuscì ad attraversare l’Atlantico a bordo del monoplano Ryan  “Spirit of St. Louis”.

Inoltre, gli ultimi 2 giorni di volo furono i più tesi, con l’equipaggio ormai stremato che dovette affrontare il pericolo più letale: i conteggi sul carburante non tornavano, per cui non si riusciva a capire  se vi fosse un consumo anomalo oppure se un serbatoio avesse una perdita… furono ore di frenetici colloqui col centro controllo e tentativi di far ragionare menti stanche e intorpidite dal rumore continuo dei motori.

Quando nella notte tra il 22 e il 23 dicembre il Voyager finalmente si stava avvicinando alla base di Edwards, Mike Mellvill e Burt Rutan saltarono sul bimotore Beechcraft Duchess (curiosamente per una volta Rutan non utilizzò un aereo di sua costruzione, ma della “concorrenza”) già utilizzato come aereo di supporto durante i collaudi, decollarono e raggiunsero il Voyager per scortarlo fino alla base, dove finalmente toccò terra sulla pista utilizzata dagli Space Shuttle al rientro dalle missioni spaziali,  alle 8.05 del 23 dicembre 1986.

Avevano volato per 40.210 chilometri e 969 metri, in nove giorni, tre minuti e 44 secondi, battendo il record stabilito nel 1952 da un bombardiere B 52 H dell’USAF nel 1952.

Nei serbatoi saranno trovati solo 32 litri di carburante residui.

Ad accoglierli  c’erano oltre 80.000 persone affluite nel deserto californiano, fin dentro la base, lungo la pista di atterraggio.

Vi era stato anche un’ulteriore grande sacrificio affrontato dall’equipaggio, di cui nessuno al di fuori dei partecipanti all’impresa era a conoscenza: la relazione tra Dick Rutan e Jeana Yeager non stava andando bene già prima che il viaggio cominciasse. Mesi di frenetici viaggi in giro per gli States, tra apparizioni in tv e conferenze stampa, per promuovere l’impresa avevano ulteriormente aggravato la situazione. Così che già qualche mese prima del decollo i due  avevano deciso di separarsi. Ma non avevano voluto renderlo pubblico per le conseguenze devastanti che avrebbero avuto sul progetto Voyager. Anzi, decisero di affrontare assieme il volo per il quale così a lungo si erano preparati assieme.

Poco tempo dopo la missione, il Voyager fu ritirato dal volo e donato alla Smithsonian Air and Space Museum, dove si trova esposto. A poca distanza dallo “Spirit of St. Louis” di Lindbergh.

Burt ce l’aveva fatta: a dispetto di tutte le previsioni ora davvero era entrato nella storia del volo. Ed aveva dimostrato che si può costruire un aereo di successo con materiali e linee ben diverse da quelli tradizionali. Aveva  indicato che una nuova via di sviluppo per l’aeronautica era possibile.

di Davide Migliore

 

Fonti generali

http://en.wikipedia.org/wiki/Burt_Rutan

http://it.wikipedia.org/wiki/Burt_Rutan 

biografie di Burt Rutan su Wikipedia

http://en.wikipedia.org/wiki/LTV_XC-142

gli anni con l’USAF alla Edwards AFB. Il progetto XC 142

http://en.wikipedia.org/wiki/Rutan_VariViggen

http://www.youtube.com/watch?v=sgbGpulUJdU

http://www.airventuremuseum.org/collection/aircraft/3Rutan%20VariViggen.asp

il primo progetto di Burt Rutan destinato alla produzione in serie

http://en.wikipedia.org/wiki/VariEze

il VariEze, primo grande successo di Burt Rutan.

http://airandspace.si.edu/collections/artifact.cfm?id=A19880548000

http://www.youtube.com/watch?v=jyRGNcbeS7o

l’aereo dei record : il Rutan Voyager

http://www.oshkosh365.org/saarchive/eaa_articles/1987_02_01.pdf

il viaggio del Voyager nelle parole del giornalista Jack Cox

http://www.youtube.com/watch?v=MYW6X46qWG0  

http://www.youtube.com/watch?v=OeO5xDfgRhs

http://www.youtube.com/watch?v=f9p0urF-Amc

http://www.youtube.com/watch?v=shlhQLw6jOg

Frontiers of Flight – the last great world record (1992), 4 parts vide

http://www.airportjournals.com/Display.cfm?varID=0612035

http://www.airportjournals.com/Display.cfm?varID=0701014

Airplane Journals, December 2006 I and II part, the story of the Voyager enterprise.

http://www.parabolicarc.com/2011/12/18/burt-rutan-recounts-emotional-voyager-flight/

Burt Rutan ricorda in un’intervista l’epopea del progetto Voyager

http://www.scaled.com/about/

Link al sito della Scaled Composites

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Una sera all’Hangar Bicocca

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Una sera all’Hangar Bicocca

Pubblicato il 29 gennaio 2013 by redazione

Un’uggiosa domenica di dicembre. In due, si decide di prendere un autobus: linea 87, fermata Via Chiese. E’ qui che si distende il vasto complesso espositivo dell’Hangar Bicocca, che occupa gli spazi dell’ex area industriale più importante d’Italia, tra Milano e Sesto San Giovanni. Dopo l’abbandono della zona da parte dei gruppi maggiori (Finanziaria Ernesto Breda, poi Ansaldo, Falk, Marelli, Pirelli), il progetto di riconversione avviato già dagli anni ’80 ha fatto sì che l’aspetto urbanistico prevalesse su quello industriale: numerosi capannoni e aree, un tempo occupate dalle fabbriche, hanno lasciato spazio ad abitazioni, centri commerciali, edifici dell’Università degli Studi di Milano Bicocca e uffici. All’interno di questa riqualificazione si colloca Hangar Bicocca, che dal 2004, ospita mostre ed eventi riguardanti i temi della ricerca e della sperimentazione.

sequenza#2sequenza#1Già dai primi passi nel vialetto che porta verso l’ingresso, si è catapultati in una realtà parallela, quasi come se si entrasse in un luogo di culto, una sorta di tempio dell’arte contemporanea. Ad accoglierci, “La Sequenza”, un’opera di Fausto Melotti, ingegnere, musicista, scrittore e soprattutto scultore. Ciò che colpisce è il fatto di non riuscire a coglierla in un unico sguardo: suddivisa in tre piani identici, lo spazio è definito attraverso l’alternanza di volumi pieni e vuoti; a ogni passo si aprono nuove vedute, nuove brecce attraverso quella che simbolicamente vuole rappresentare una scena teatrale. L’ingresso è per definizione racchiuso tra queste forme: preclude prima, svela poi.

Entriamo. La hall dalle pareti bianche, quasi come in un film di Kubrick, precede l’ingresso alle sale espositive, mentre sugli schermi laterali scorrono le interviste agli autori delle opere in allestimento.

sette_palazzi#2sette_palazzi#1I sette Palazzi Celesti

Dietro un pesante sipario nero, s’innalzano “I Sette Palazzi Celesti”. L’autore è Anselm Kiefer, che ha sempre posto al centro della propria speculazione artistica un interrogativo importante: quale deve essere il ruolo di un artista tedesco dopo l’Olocausto e come può relazionarsi con la recente storia della propria nazione? Kiefer ha cercato di dare una risposta attraverso “l’indagine degli elementi religiosi, filosofici e simbolici che sono all’origine degli eventi, investigandone le radici nascoste e invisibili”, si legge sui libretti descrittivi a disposizione per i visitatori. Quest’opera costituisce forse l’apice del percorso compiuto dall’artista e vuole rappresentare le macerie dell’Occidente dopo la Seconda Guerra Mondiale. Le sette torri sono realizzate in cemento e hanno la forma di container industriali. Ognuna di esse ha un significato fortemente simbolico, con figure tratte ancora una volta dalla religiosità (in particolar modo ebraica); la stessa idea alla base dell’opera, “I Sette Palazzi Celesti” è un rimando alle grandi costruzioni religiose dell’antichità, dalle piramidi alle ziggurat.

Sefiroth, che racchiude in sé le espressioni o “mezzi” di Dio; Melancholia, con riferimento a Saturno, pianeta della malinconia, sotto la cui stella si riteneva nascessero gli artisti; Ararat, il monte a cui approdò l’Arca di Noè; Linee di campo magnetico, costituita da una lastra di piombo che la percorre dall’alto al basso, insieme a una bobina, simbolo della continua sopraffazione dell’arte sull’arte, così come quella dell’uomo sull’uomo; JW&WH, che unite formano il sacro e impronunciabile nome di Jahweh; Torre dei quadri cadenti, rivestita da cornici di ferro senza immagini.

Eccoli, “I Sette Palazzi Celesti”, si parano davanti a noi. Un’unica sensazione: sindrome di Stendhal.

time_foam#2time_foam#1Altre due istallazioni ci attendono. La prima è dell’architetto argentino Tomas Saraceno: “On Space Time Foam”. Le tematiche a cui Saraceno si dedica sono svariate, prima fra tutte la ricerca di modalità di vita sostenibile per l’uomo, che lo pongano in un rapporto diverso con la natura e con gli altri uomini; questo si traduce nella volontà di creare ambienti che rispecchino tali concetti grazie all’uso delle tecnologie più sofisticate. Non solo arte per l’arte, ma arte per la vita. L’opera in mostra all’Hangar è un esempio di connubio tra queste teorie e quelle legate alla meccanica quantistica, al concetto di spazio-tempo, immaginato come una membrana formata da tre strati di un materiale aerostatico, nel quale è possibile fluttuare. Una volta entrati si diventa parte integrante dell’opera, sono i movimenti, le posizioni e le espressioni delle persone a determinare ogni volta una configurazione nuova, in un continuo divenire mutevole. E poi ci siamo noi, che dal basso ammiriamo come tutto quel fluttuare sembra sfidare le leggi della gravità.

unidisplay#2unidisplay#1Ma le sorprese non sono ancora finite. Prima di uscire c’è l’ultima istallazione: “Unidisplay” di Carsten Nicolai. Le immagini in bianco e nero, proiettate su una parete prolungata all’infinito grazie a due specchi paralleli posti ai lati, scorrono incessantemente sul sottofondo di suoni ricavati dagli stessi segnali elettrici usati per crearle. Ci sediamo e ci troviamo immersi in sequenze, motivi e forme grafiche che si susseguono incessantemente. Lo sguardo e la mente restano come ipnotizzati. L’orecchio si tende non tanto ai suoni, ma alle frequenze. L’artista raggiunge il suo scopo: proiettare l’osservatore in un mondo astratto, extrasensoriale, lontano dal tram-tram che là fuori domina, ma che tutto d’un tratto sembra non esistere più, per pochi intensissimi minuti.

di Michele Mione

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Viaggio alla scoperta del Cern

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Viaggio alla scoperta del Cern

Pubblicato il 29 dicembre 2012 by redazione

Organizzazione-Europea-per-la-Ricerca-Nucleare-Cern-di-Ginevra-a22587539

Cern di Ginevra.

Oggigiorno sono in molti a vedere il nucleare come esclusiva fonte di energia, con i suoi pericoli e vantaggi, ma in pochi riescono a intravedere il suo potenziale a livello scientifico. Tra quei pochi spicca il CERN, Conseil Européen pour la Recherche Nucléaire (Organizzazione Europea per la Ricerca Nucleare), un organo provvisorio istituito nel 1952 con lo scopo di creare in Europa un’organizzazione a livello mondiale per la ricerca nel campo della fisica fondamentale.

La storia
Alla fine della Seconda Guerra Mondiale, le conoscenze europee sulle particelle erano già state ampiamente superate dagli studi degli scienziati americani. Un gruppo di studiosi e politici concepirono allora un laboratorio europeo di fisica atomica. Tra questi pionieri vi erano: Raoul Dautry, Pierre Auger, Lew Kowarsk (dalla Francia), Edoardo Amaldi (dall’Italia) e Niels Bohr (dalla Danimarca). Un laboratorio del genere avrebbe unito gli scienziati europei e avrebbe fatto fronte ai crescenti costi degli impianti di fisica nucleare. La prima proposta formale per la creazione di un laboratorio europeo fu pronunciata dal Premio Nobel per la fisica Louis de Broglie nel 1949, durante la Conferenza europea della Cultura di Losanna, ma passarono due anni (Dicembre 1951) prima che si decidesse di istituire un consiglio europeo per la ricerca. Undici Paesi firmarono un accordo che dava vita al Consiglio Provvisorio e con esso nasceva il CERN (la scelta di installare a Ginevra il laboratorio venne presa successivamente a seguito di un referendum tenutosi nel cantone di Ginevra nel Giugno del 1953). Il 29 settembre del ’54, dopo la rettifica di Francia e Germania, viene ufficialmente istituita l’Organizzazione Europea per la Ricerca Nucleare (sebbene venga conservato l’acronimo CERN). Con la Convenzione istitutiva del 1954 vennero fissati gli obiettivi principali dell’Organizzazione: gli Stati europei aderenti si impegnavano a collaborare tra di loro nella ricerca nucleare, stabilendo espressamente che i frutti del loro lavoro fossero interamente accessibili a tutti e senza scopi militari (“The Organization shall provide for collaboration among European States in nuclear research of a pure scientific and fundamental character (…). The Organization shall have no concern with work for military requirements and the results of its experimental and theoretical work shall be published or otherwise made generally available”). Il documento, inoltre, promuoveva programmi di formazione avanzata, scambi di informazioni e di ricercatori tra i laboratori, nonché una cooperazione nella ricerca tecnologica”).

Gli Stati membri
I Paesi membri, nonché fondatori del CERN, sono: Belgio, Danimarca, Francia, Germania, Grecia, Italia, Norvegia, Paesi Bassi, Regno Unito, Svezia e Svizzera. Ai quali si sono aggiunti: Austria, Spagna, Portogallo, Finlandia, Polonia, Ungheria, Repubblica Ceca, Slovacchia, Bulgaria e Romania.

E42B9484-07AC-814E-C533C4A562F15A21_1Cosa fa il CERN?
I fisici del Cern studiano la materia utilizzando degli acceleratori di particelle, ossia macchine che accelerano i fasci di particelle fino a farli collidere l’uno contro l’altro. L’energia che scaturisce da questa collisione è molto grande e vuole cercare di riprodurre le condizioni esistenti pochi istanti dopo il Big Bang.
Gli acceleratori furono inventati per studiare la struttura del nucleo dell’atomo. Possono essere di due tipi: circolari, a forma di anello, all’interno dei quali le particelle sono guidate da campi magnetici e incrementano la loro energia ad ogni giro (sono anche gli acceleratori più grandi!); lineari, dove le particelle viaggiano da un capo all’altro.

Cos’è l’LHC?
Per raggiungere velocità sempre più elevate, il CERN ha creato un complesso di acceleratori. Tra questi, il Grande Collisore di Adroni, o LHC (Large Hadron Collider), è la macchina più potente mai realizzata finora e tuttora in fase di messa a punto, installata in un tunnel di 27 km di circonferenza, scavato tra 50 e 150m sotto terra tra le montagne del Giura francese e il lago di Ginevra, e progettata per sostituirsi al LEP (Large Electron Positron Collider).

CERN_Accelerator_ComplexIl LEP, nonché “antenato” dell’LHC era un acceleratore in grado di accelerare gli elettroni e i positroni fino a 100 GeV, velocità prossima a quella della luce, il cui scopo era verificare l’esistenza del bosone Higgs (possibile causa dell’esistenza stessa della materia, vedi http://www.massacritica.eu/studiare-linvisibile-il-bosone/1927/ ).

Il funzionamento dell’LHC? Questo acceleratore produrrà collisioni frontali tra due particelle dello stesso tipo, protoni o ioni di piombo. In un primo momento, la catena di acceleratori del CERN creerà i fasci di particelle, che verranno successivamente iniettati nell’LHC, quindi guidati nel circuito da magneti superconduttori (1800 in tutto!) a temperature estremamente basse, in modo da ricreare le condizioni dello spazio intergalattico. Lo scopo degli esperimenti è quello di studiare i milioni di particelle liberate durante la collisione. Tutto il processo di collisione verrà rilevato attraverso quattro enormi rilevatori di particelle distribuiti lungo l’LHC: ALICE, ATLAS, CMS e LHCb.

Cos’è l’ATLAS?
Reso operativo tra il 2009 e il 2010, l’ATLAS è il rilevatore più grande e complesso mai realizzato prima.  Un rilevatore di particelle è un dispositivo usato per rilevare il passaggio di una particella e consente agli scienziati di ricostruire un evento. I vari strati del rilevatore tracciano le traiettorie delle particelle cariche, misurando l’energia di quelle più cariche e di quelle neutrali. La curvatura delle tracce delle particelle nel campo magnetico permette di determinarne il moto e le cariche elettriche. Di tutte le milioni di collisioni al secondo, solo alcune sono utili ai fini di nuove scoperte ed è proprio il sistema di rilevamento, detto Sistema Trigger, a fare una scrematura delle informazioni superflue. Per questo, l’ATLAS registra solo l’equivalente di 27 CD di dati al minuto, invece dei reali 100000 CD al secondo! I backup di tutti i dati rilevati vengono fatti da 12 centri di raccolta dati, distribuiti nelle varie università e istituti di ricerca, collegati tra loro attraverso un sistema di fibre ottiche, mentre per tutti gli altri computer è possibile richiedere questi dati via Internet. I centri di raccolta si trovano: presso la sede del CERN, due negli Stati Uniti, Taiwan, Vancouver, Bologna, Barcellona, Lione, Amsterdam, Copenaghen, Oxford e Karlsruhe. Questa grandissima quantità di informazioni viene inviata da un centro di analisi all’altro attraverso un sistema chiamato Data Grid.

magnetic

Sistema di magneti.

muon

Spettrometri muonici.

calorimeters

Calorimetri.

 

inner-detector

Rilevatore interno.

 

Come è fatto l’ATLAS?
Il rilevatore ATLAS è costituito da una serie di cilindri concentrici attorno al punto di interazione, ossia il punto dove avviene la collisione tra i fasci di protoni dell’LHC.
I quattro componenti principali dell’ATLAS sono:
– rilevatore interno: misura il moto di ogni particella carica;
– calorimetri: misurano l’energia accumulata dalle particelle;
– spettrometri muonici: identificano e misurano il moto dei muoni, particelle fondamentali con carica elettrica negativa;
– sistema di magneti: deflette le particelle cariche nel rilevatore interno e nello spettrometro muonico, per misurarne il moto.
L’LHC e l’ATLAS sono fondamentali nella ricerca dell’antimateria, poiché permettono di ricreare le condizioni dell’universo pochi istanti dopo il Big Bang, quando la quantità di materia era pari a quella di antimateria.
L’obiettivo è quello di capire perchè nella creazione del sistema solare, del nostro pianeta e delle galassie sia stata utilizzata soltanto una parte della materia. La soluzione di questo mistero consentirebbe anche di scoprire come le particelle acquistano massa e qual è il rapporto tra massa ed energia.
Ai posteri, vedere se l’LHC riuscirà a colmare questo vero e proprio buco nero!

di Sara Pavesi

Fonti:
http://www.atlas.ch/
http://home.web.cern.ch/
http://public.web.cern.ch/public/

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Incidenti nucleari militari  1985 – 1986

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Incidenti nucleari militari 1985 – 1986

Pubblicato il 29 ottobre 2012 by redazione

Incidenti nucleari militari  1985 – 1986

Nella seconda metà degli anni 80 si preparano eventi che segneranno la fine degli equilibri di potere così come il mondo li aveva conosciuti da più di quarant’anni, che sembravano non modificabili a breve, se non addirittura intoccabili: la divisione in blocchi militari fra est e ovest del mondo, i sistemi economici capitalisti e socialisti, con le relative teorizzazioni e divisioni ideologiche. Il 1989 segnerà la fine sì dell’unione Sovietica, travolta da processi a cui non è riuscita a prepararsi, ma anche il blocco occidentale si troverà impreparato ai cambiamenti del nuovo millennio… tuttavia, prima di quei giorni che chiusero un’era, vi sono stati ancora anni in cui i toni del confronto tra gli schieramenti della guerra fredda tornarono più aspri che mai, tanto da far temere che si fosse vicini alla guerra aperta, quindi all’apocalisse nucleare. Un decennio pieno di controsensi, retorica, sospetti, con un rifiuto sempre più marcato nelle opinioni pubbliche di ideologie, modelli che sapevano di un passato sbagliato. Una voglia di disimpegno, di dimenticare la paura, l’angoscia dell’annientamento nucleare e semplicemente, finalmente, vivere. Sia ad est che a ovest, seppure con toni diversi le sensazioni furono inaspettatamente comuni. Perché la seconda guerra mondiale era finita ormai da cinquant’anni, ma in realtà il mondo era piombato nella terza, che non si era combattuta in campo aperto, ma in singoli teatri di guerre e crisi locali. Senza scontri diretti fra le superpotenze, almeno fino a quel momento. Gordon Matthew Thomas Sumner, musicista inglese molto noto al pubblico internazionale con il nome d’arte Sting, chiuse tutte queste sensazioni nel testo di una canzone per altro molto intensa, “Russians” (nota1), che scrisse nel 1985  e pubblicò l’anno successivo. E’ una canzone pacifista che, come talvolta accade agli artisti, ha avuto la capacità di esprimere e concentrare tutte le obiezioni, le paure che vivevano milioni di persone, schiacciate  in un gioco più grande di loro… nel testo Sting cita il leader sovietico Nikita Kruscev, che in un discorso promise agli occidentali “vi seppelliremo tutti”, così come il presidente statunitense prometteva ai suoi alleati “noi vi proteggeremo”: garbatamente Sting rispondeva a entrambi che la gente non era d’accordo con quei punti di vista. E soprattutto, diceva che non esiste una guerra (nucleare ovviamente) che si può vincere, è una bugia retorica a cui non crede più nessuno. Che condividiamo tutti la stessa biologia, nonostante le differenti ideologie. E che l’unica cosa che potesse salvare tutti è che anche i Russi amassero i loro bambini… e l’insistente ticchettio ricordava (ma lo fa ancora oggi) che l’orologio  della catastrofe segna pochi minuti alla mezzanotte nucleare…e continua ad andare avanti.

Mentre il mondo restava attanagliato da queste paure, ciò che le causava, l’arsenale nucleare, continuava ad esser ben presente e ad espandersi. Ai militari di entrambi gli schieramenti i rispettivi governi chiedevano di esserne sempre pronti all’uso, di continuare  nella sfida reciproca all’efficienza. Quindi le armi nucleari continuavano ad essere portate in giro per il mondo, in un clima di tensione continua. E gli incidenti di conseguenza continuarono ad accadere, nonostante tutte le rassicuranti parole dei leaders politici. Come nella canzone di Sting…..

1985

11 febbraio  La temperatura era piuttosto rigida quel giorno a Fort Redleg, una base della U.S. Army nell’allora Repubblica Federale Tedesca a pochi chilometri dalla città di Heilbronn (nota 2) . Una squadra  di artiglieri della 56° Brigata di artiglieria da campo (56th Field artillery Brigade) stava procedendo all’estrazione del missile nucleare a medio raggio autotrasportabile, quando questo inspiegabilmente prese fuoco ed esplose causando la morte di tre militari, il ferimento di altri sette e notevoli distruzioni nel perimetro della base. L’arma era uno dei 108 lanciatori che dal 1983 erano in corso di rischiaramento in Germania, per fronteggiare di missili di pari classe da parte dei Sovietici nei paesi del Patto di Varsavia, Germania Democratica compresa. In realtà l’arrivo di quei missili in dotazione all’esercito americano aveva già creato molte polemiche in Europa, poiché da alcuni era sostenuto apertamente che lo schieramento di armi da parte dei Russi fosse avvenuto per l’intransigenza crescente da parte dell’amministrazione Reagan sugli equilibri degli schieramenti nucleari e sulla diffidenza verso le dichiarazioni ufficiali  di Mosca in materia. Il missile Pershing II era stato tutta la notte all’aperto, nel contenitore con cui era arrivato dagli States. Ora la squadra di militari, con una temperatura di circa -7 gradi, nonostante fossero già le 14 del pomeriggio, stava smontandolo per posizionarlo sul carrello – lanciatore mobile. L’esercito americano stava amaramente per comprendere che anche i missili a propellente solido potevano essere soggetti a incidenti, non solo quelli liquidi. Secondo quanto fu appurato dall’inchiesta tecnica, mentre il personale della batteria C del 3° battaglione procedeva ai lavori, il motore del missile, la cui struttura esterna era costituita da kevlar, strisciò contro la gomma siliconica che costituiva la protezione interna del container. La bassa temperatura e il freddo secco favorirono l’accumularsi di una forte carica elettrostatica che incendiò il carburante Thyokol TX 174 del primo stadio. In meno di un secondo la pressione e la temperatura furono tali che l’intero missile si sbriciolò, lanciando rottami fino a  quasi 300 metri di distanza ed investendo con fiamme altissime tutto ciò che lo circondava. Per fortuna la testata da 400 kilotoni  era come da procedure, custodita in un “pit” corazzato separato. A seguito dell’esplosione la movimentazione di tali armi nucleari fu bloccata fino al 1986, quando venne profondamente modificato il manuale sulle procedure di manutenzione e messa in sicurezza dei missili a propellente solido.

10 giugno nelle prime ore del mattino, il sottomarino lanciamissili a propulsione nucleare HMS Resolution (nota 3), in servizio con la Marina di Sua maestà Britannica, venne speronato a largo di Cape Canaveral in Florida da uno yacht privato, il Proud Mary, che dovette essere trainato in porto per le riparazioni. Il Resolution invece non ebbe danni di grande rilievo. Il sottomarino stava raggiungendo il poligono di tiro della U.S. Navy Atlantic Test Range, per procedere ad un lancio addestrativo di un missile intercontinentale Polaris. Il Resolution era il primo dell’omonima classe di sottomarini, costruiti per portare ciascuno 16 lanciatori del missile americano. Furono costruiti 4 esemplari, oggi tutti ritirati dal servizio.

Immagine 1 il relitto del sottomarino K 431 attende a Petropavlovsk  l’inizio dei lavori di smantellamento

Immagine 1 : il relitto del sottomarino K 431 attende a Petropavlovsk l’inizio dei lavori di smantellamento. Il 10 agosto 1985 un incidente durante il cambio della barre di Uranio dei reattori causò una delle peggiori catastrofi nella storia dell’atomo militare.

10 agosto nella baia di Chazhma, a pochi chilometri dalla popolosa Vladivostock, la Marina Russa ha da sempre  la sua base di appoggio per la flotta del Pacifico, dove viene anche effettuata la manutenzione per i sottomarini a propulsione nucleare. Il K 431 (nota 4 e immagine 1), un sottomarino  della classe Echo II potenziato da due reattori a acqua pressurizzata da 70 Megawatt, quel giorno veniva sottoposto alla sostituzione delle barre di combustibile, costituite da una lega a base di uranio arricchito. L’operazione, per quanto complessa, era abbastanza comune sia per gli equipaggi che per il personale civile della base. Ma quel carico fu causa di uno dei più terribili incidenti militari di cui si abbia conoscenza. Verso la sera, mentre gli uomini stavano ultimando il carico, venne notato un disallineamento tra il  coperchio del reattore e la camera delle barre: a causarlo un elettrodo da fusione, dimenticato da un operaio. Si dovette nuovamente sollevare con l’argano sia le barre di Uranio che la griglia del sistema di contenimento. Nell’esatto momento in cui il reattore veniva estratto, il passaggio di una silurante nella baia causò un’onda tale lo scafo del sottomarino si spostò, le barre e la grata di contenimento si allontanarono tra loro ben oltre la distanza massima consigliabile. Alle 10.55, pochi attimi dopo, il combustibile del reattore di destra entrò in una reazione a catena spontanea incontrollabile. Un’enorme esplosione distrusse il comparto motore, uccidendo sul colpo le dieci persone, tra marinai e lavoratori, in quel momento attorno al battello, scagliò il pesante coperchio del reattore nell’acqua a 70 metri di distanza, squartò lo scafo e il ponte a poppa del battello e lanciò le barre di Uranio estremamente cariche (o quel che ne rimaneva) nella base e nella foresta attorno alla stessa. Un incendio violentissimo fu domato con fatica dopo quattro ore, mentre il sottomarino giaceva affondato di poppa nel bacino. Buona parte dei detriti cadde entro un raggio di 100 metri, ma una nube di ceneri e gas radioattivi venne spinta verso la penisola di Dunay, di fronte alle banchine della base, sfiorando la città militare di Shkotovo 22, a circa 1 chilometro e mezzo. Nelle 24 ore successive, iniziò il calcolo dei danni della contaminazione nucleare. Al momento dell’esplosione il livello di contaminazione era di 90.000 Roentegents/ora, circa tre volte quello attorno alla centrale di Chernobyl dopo l’esplosione del reattore. Alcune ore dopo era sceso, ma si attestava a 600 Roentgents/ora, comunque ben 30 volte superiore alla dose mortale per un essere umano che vi sia esposto per soli cinque minuti…una energia pari a sei milioni di Curie venne liberata nell’aria. I corpi, o quel che ne restava, dei dieci morti, letteralmente schiacciati, carbonizzati sulle pareti del sottomarino o della banchina, vennero seppelliti a notevole profondità, in quanto fortemente radioattivi. Il 30% del territorio della base e due chilometri quadrati della foresta risultarono contaminati oltre ogni possibilità di bonifica. Immediatamente iniziò l’opera di contenimento, che impegnò 2.209 persone, esposte a dosi massicce di radiazioni lavorando prive di protezioni. Già nei giorni successivi 49 tra pompieri e marinai svilupparono avvelenamenti acuti da radiazioni. In gran velocità vennero rimossi e seppelliti in 4 grandi trincee scavate nella foresta ben 1.200 metri di asfalto, 4.585 metri cubi di terra e pietrisco, 760 tonnellate di metallo e cemento. Delle persone impiegate nella bonifica 290 operarono nell’area maggiormente contaminata. Quanti morirono o subirono, fino ad oggi, le conseguenze durature dell’esposizione non sarà forse mai possibile saperlo, il risvolto forse più amaro di questo incidente. Le autorità  sovietiche, con la ben nota mania per la riservatezza, distrussero tutte le prove (cartellini di ingresso ai cantieri, ordini di servizio, registri..) per cui a nessuno dei lavoratori fu possibile vedersi riconosciuto il servizio reso in quei giorni. Così come ad ufficiali e marinai fu dato ordine tassativo di mantenere il silenzio: un segreto che rimase tale fino al 1993.  Ancora oggi giornalisti coraggiosi e associazioni indagano sulle tragedie ecologiche ed umane di quegli anni, in una battaglia legale con il governo russo a colpi di processi e ingiunzioni contro la censura, che prosegue da oltre vent’anni. Intanto i materiali radioattivi continuano a inquinare mortalmente le acque e il terreno attorno alla baia di Chazhma…

Nel corso del 1985 a bordo di sottomarini sovietici in servizio si sarebbero verificati altri incidenti, ma sulle effettive dimensioni degli stessi, danni a persone o all’ambiente non vi sono ad oggi notizie certe: il K 447, il K 208 e il K 367 sarebbero stati vittime di perdite al sistema primario di raffreddamento, di cui non si conoscono però i particolari, tranne che per l’ultimo battello, per il quale si sospetta sia andato in avaria il sistema di controllo automatico dell’attività del reattore. Il K 38, il K 255 (questi primi due a quanto pare nel corso del mese di marzo), il K 369, il K 298 e il K 192 subirono incendi.

24 ottobre il sottomarino nucleare da attacco USS Swordfish (SSN 579) (nota 5), durante la navigazione nell’Oceano Pacifico subì un’avaria al sistema di propulsione. Non se ne conosce la portata.

24 novembre  la portaerei americana a propulsione nucleare USS Enterprise (CVN 65) si arena sulla Bishop’s Rock a circa 100 miglia dalla base navale di San Diego in California. La portaerei riceve una falla di quasi venti metri sullo scafo e un danneggiamento ad un’elica, ma è in grado di partecipare alle manovre. Dopo il 27 novembre, la portaerei raggiunse il porto per le riparazioni in bacino di carenaggio. Durante le ispezioni venne constatato che un’elica si era deformata e dovette esser sostituita. Ma in ogni caso, la portaerei fu in grado di partecipare all’esercitazione preventivata, né furono rilevate anomalie ai reattori.

31 dicembre mentre è attraccato al porto di Palma di Maiorca, nelle isole Baleari, l’USS Narwhal (SSN 671), sottomarino d’attacco classe Sturgeon, rompe i cavi di ormeggio e resta alla deriva per alcune ore nella baia, prima che si riesca a rimorchiare il battello di nuovo al molo (nota 6). Il Narwhal era in realtà un classe Sturgeon “anomalo”, in quanto servì a testare i reattori S5G con sistema di raffreddamento del reattore “a circolazione naturale dell’acqua”, così come altri accorgimenti strutturali adottati poi su altre classi di sottomarini. Questo rendeva il Narwhal all’epoca il sottomarino più silenzioso nell’arsenale americano, quindi meno individuabile. Per questo fu probabilmente coinvolto in missioni di sorveglianza e spionaggio, di cui oggi ancora nulla ufficialmente si conosce.

1986

Immagine 2 la torretta dell'USS Nathanael Greene (SSBN 636) posta all'ingresso della rada di Cape Canaveral

Immagine 2: la torre di comando dell’USS Nathanael Greene (SSBN 636) accoglie le navi all’ingresso del porto di Cape Canaveral, in Florida. La base, nota per le installazioni spaziali della NASA, in realtà è anche inserita in un poligono marino di tiro in cui i sottomarini (statunitensi e di Paesi alleati) sono autorizzati a effettuare lanci di addestramento dei missili normalmente dotati di testate nucleari. Dopo la demolizione, la torre è stata adottata come ‘gate guardian’, la ‘guardia del cancello’.

13 marzo  il sottomarino lanciamissili balistici USS Nathanael Greene (SSBN 636), nonostante il ruolino di servizio di tutto rispetto, è un battello abbastanza bersagliato dalla sfortuna: dopo due incidenti, uno nel 1970 e ben due nel 1984, durante un’esercitazione di immersione profonda nel mare d’Irlanda, urtò il fondale per motivi non del tutto chiariti, danneggiando gravemente le superfici di controllo a poppa e le casse di zavorra principali (nota 7). Ricevute le prime riparazioni di emergenza presso la base scozzese di Holy Loch, il sottomarino attraversò l’Atlantico in immersione,  raggiungendo la base di Charleston, in South Carolina. I danni ingenti subiti dal battello, la sua non più giovane età (i sottomarini classe James Madison erano entrati in servizio lungo gli anni 60) e le restrizioni sul numero di sottomarini dotati di armi nucleari strategiche stabilite nel trattato di disarmo SALT II ne segnarono il destino.

Immagine 3 lancio da sottomarino di un missile UGM 73 Poseidon

Immagine 3: lancio in immersione di un missile balistico intercontinentale ad uso marino Locheed Martin UGM 73 Poseidon. Il missile è un esemplare da esercitazione, come indica il colore vivace della pannellatura.

Radiato dal servizio attivo e inserito nel programma Submarine Recycling Program (immagine 2), restò assieme a molti altri battelli ormeggiato nel Puget Sound Naval Shipyard di Bremerton fino al 2000, quando lo smantellamento e lo smaltimento del battello fu terminato. Sulla sfortuna o meno di un mezzo si può discutere, anche fare delle battute di spirito, se non fosse per il rischio  che riguarda in primis l’equipaggio (sul Greene erano imbarcati 143 uomini). Ed anche molte altre migliaia di persone, visto che oltre alle barre di Uranio del suo reattore ad acqua pressurizzata S5W, l’armamento di lancio del sottomarino prevedeva 16 silos contenenti altrettanti missili balistici intercontinentali Lockheed UGM 73 Poseidon (immagine 3), ciascuno capace di portare in media 10 testate W68 da 40/50 chilotoni di potenza ciascuna (Fat Man, l’atomica sganciata su Nagasaky aveva una potenza di 22 chilotoni, ovvero 22mila tonnellate di TNT). Senza contare la possibilità di imbarcare anche siluri a testata nucleare modello Mk 45…. Lasciamo fare a voi due conti rapidi sul potenziale distruttivo contenuto nel, Nathanael Greene. La Marina Statunitense ha ammesso che questo incidente è tra il più gravi che siano occorso alla sua flotta sottomarina nucleare, dopo quelli che hanno portato alla perdita dell’intero battello (immagine 2).

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Immagine 4 : un cane nato con gravi malformazioni causate dalle radiazioni emanate dal reattore della centrale di Chernobyl e esposto al museo dell’incidente a Kiev, in Ucraina. Immagine concessa in uso da Vincent de Groot

26 aprile Chernobyl. Pochi nomi come questo sono capaci di evocare angoscia, di incarnare l’immagine della tragedia, fino a diventarne un sinonimo (nota 8, immagini 4, 5 e 6). Non è un incidente nucleare militare, ma dopo Hiroshima e Nagasaky è di gran lunga il più grave, 7° grado della scala INES che misura la gravità di questi eventi. E’ 1.24 di notte: il reattore viene sottoposto in quei giorni a prove di funzionamento sotto stress, in particolare si stava provando per quanto tempo turbina e generatore riuscissero a produrre energia, anche dopo che  l’impianto di raffreddamento avesse cessato di produrre vapore. Per questo erano stati disabilitati alcuni sistemi di sicurezza. Nella sala di controllo non si percepisce, nei minuti precedenti, ciò che sta accadendo, perché la crescita del calore nel reattore è talmente rapida da superare la capacità di rilevamento degli strumenti. Il progetto del reattore RBMK 1000, raffreddato ad acqua pressurizzata e moderato con barre di grafite, come molti altri  reattori sovietici, non è nato per produrre energia, ma per arricchire il Plutonio a uso militare. Non ha sistemi secondari di contenimento, perché deve essere facile la sostituzione delle barre di combustibile, come in tutti i reattori di questo tipo.

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Immagine 5 : attorno alla centrale, immensi cimiteri di mezzi di ogni tipo restano abbandonati alla ruggine. Troppa la radioattività assorbita nei durante il lavoro attorno al reattore n. 4 scoperchiato. Nessuno conosce con certezza il destino di chi li ha utilizzati in quei terribili giorni….

Quando il personale nella sala di controllo comprende che qualcosa sta andando storto, è troppo tardi. Anzi, la decisione di rimettere nel nucleo le barre di assorbimento in grafite (che costituiva la fase finale del test)  non fece nient’altro che dare altro combustibile al rogo nucleare, perché le barre scesero solo parzialmente, bloccate nei condotti deformati dal calore. A quel punto tutto si fonde, dalle tubature spezzate l’acqua di raffreddamento raggiunge le barre in fusione nel basamento e evapora istantaneamente. L’idrogeno generato esplode scagliando attraverso il tetto dell’edificio i blocchi di cemento di contenimento, assieme ad almeno il 25% delle barre di Uranio e di quelle di grafite, come un vulcano in piena eruzione. Pulviscolo e vapore altamente radioattivi sono scagliati nell’atmosfera. Nella vicina città di Pripyat l’esplosione sveglia buona parte dei cittadini. Nell’impianto 3 persone sono morte istantaneamente, altre 28 entro poche ore moriranno per l’immensa quantità di radiazioni emesse: secondo i calcoli degli scienziati, fino a 400 volte le emissioni della bomba di Hiroshima. Dopo il solito tentativo di minimizzare o negare l’accaduto, durato peraltro alcuni cruciali giorni, di fronte alla nube radioattiva che attraversava l’Europa portando con se Iodio 131 e Cesio 137, il governo dell’URSS dovette ammettere  con gli altri Paesi la portata dell’incidente e chiedere aiuto alla comunità internazionale. L’ultimo dei 42 vigili del fuoco ed operai che intervengono immediatamente sul tetto e attorno al cuore del reattore, muore 96 giorni dopo la tragedia. I sovietici inviano migliaia di soldati a spostare freneticamente i detriti in fiamme dal tetto degli altri 3 reattori del complesso, a evacuare  città e villaggi per migliaia di chilometri quadrati attorno all’impianto. Le prime immagini concesse alle tv occidentali li mostrano lavorare davanti al mostro senza altro addosso che tute da protezione antincendio o maschere antigas. Come entrare nudi in un altoforno. Attorno al reattore sventrato si misurano coi contatori Geiger 20.000 Roentgen. Per capirsi, l’esposizione a soli 500 Roentgen in un’ora,  porta un essere umano alla morte entro le 5 ore successive. L’emissione del vapore ionizzato, fonte della più intensa contaminazione, cessa il 10 maggio. Quanti siano stati esposti alla fine dell’emergenza, cioè una volta rinchiuso il reattore in un immenso sarcofago di cemento e acciaio, non è dato sapere. Fino a tutto il 1987 erano stati contati 2.900 lavoratori civili e oltre 16.000 soldati nel cantiere. Anche se c’è chi parla di oltre 600mila “liquidatori”, certificati con attestato dello Stato,  che si avvicendarono a Chernobyl, spesso gettando direttamente nella fornace nucleare detriti e grafite, a mani nude. Circa 240.000 lavorarono all’interno dei 30 chilometri dal reattore, assorbendo dosi elevate di energia per più lungo tempo. A 26 anni di distanza, l’area per sempre inabitabile, le città fantasma, abbandonate in pochi giorni, le suppellettili lasciate parlano di vite spezzate in un momento. Gli oltre 1350 tra camion, cingolati, betoniere, gli elicotteri utilizzati per sganciare sul reattore scoperchiato boro, sabbia e dolomia,  abbandonati, completamente resi radioattivi; sono queste le parole mute che restano. Come le fotografie di tanti che si sono sacrificati in quelle ore. Le possiamo vedere a Kiev, al museo del disastro. O sulle tombe nei villaggi, da dove venivano quei soldati e quegli operai. Parlano i  casi di leucemia e  cancro alla tiroide, che molto spesso colpiscono i bambini: tra il 1987 e il 2005 ne sono stati conteggiati 6000 casi, nella popolazione giovanile esposta  direttamente alla contaminazione in Ucraina e Bielorussia, per cui statisticamente c’è da attendersi un incremento del trend, dovuto all’azione prolungata nel tempo di alcuni elementi radioattivi persistenti, oltre che dai danni immediati. Alcune fonti, come Greenpeace, hanno calcolato potranno raggiungere i 90.000. Anche se l’UNSCEAR (United Nations Scientific Committee on the Effects of Atomic Radiation, Comitato Scientifico delle Nazioni Unite per lo studio degli effetti delle radiazioni ionizzanti) ha condotto 20 anni di dettagliata ricerca scientifica ed epidemiologica sugli effetti del disastro. A parte i 57 decessi direttamente ascrivibili all’incidente in sé, l’UNSCEAR ha originariamente predetto fino a 4,000 casi di tumori da attribuire all’incidente.  Al di là di questo, il sarcofago costruito allora sta rapidamente arrivando a fine vita, numerose crepe stanno creandosi, dopo 25 anni di radiazioni e una temperatura interna che in alcuni punti raggiunge ancora i 1000 gradi…. Il nocciolo e la struttura del reattore, ormai fusi assieme, sono sprofondati di altri 4 metri, seppur le fondamenta non siano state superate in nessun punto. Lì giace il “piede di elefante”, un ammasso di Uranio, Grafite e altri materiali colato dalla sala del reattore e solidificatosi in questa strana forma. Un robot lo ha fotografato durante una delle ispezioni sullo stato interno del sarcofago. Ma solo un robot poteva avvicinare quel mostro che  emette un’energia di 10.000 Roentgen all’ora, sufficiente a mandare in pezzi un corpo umano nel giro di pochi minuti. Ma quel che è peggio, la centrale si trova nel bacino naturale dei fiumi Pripyat e Dnepr, quest’ultimo sfocia nel Mar nero, lungo le sue rive vivono più di 30 milioni di persone. L’avvelenamento delle falde ed il rilascio nei fiumi di radionuclidi potrebbe avere conseguenze incalcolabili…29 aprile l’USS Atlanta, sottomarino da attacco appartenente alla classe Los Angeles, collide violentemente contro il fondale durante la navigazione attraverso lo stretto di Gibilterra, mentre sta entrando nel Mediterraneo (nota 9). Immediatamente il sistema di emergenza (Emergency Ballast Tank Blow System, sistema di espulsione di emergenza dalla cassa di zavorra) entrò immediatamente in azione spingendo tonnellate di acqua fuori dalla cassa ed il sottomarino riemerse rapidamente.

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Immagine 6: sul pavimento di un edificio a Pripyat migliaia di maschere antigas, con cui migliaia di lavoratori operarono nell’area di interdizione attorno alla centrale. Totalmente inutili contro le radiazioni, sono un simbolo dell’impotenza di fronte al mostro.

Una prima ispezione dei sommozzatori di bordo confermò che l’impatto è stato tanto violento da riuscire a staccare la cassa di zavorra di prua dallo scafo in alcuni punti, mentre la fibra di vetro che costituisce l’isolante interno pendeva ridotta a brandelli…anche l’’impianto sonar fu danneggiato, lasciando il sottomarino privo di un apparato fondamentale per la navigazione subacquea. Dopo  aver raggiunto il porto di Gibilterra ed avere meglio considerato i danni escludendo ogni coinvolgimento del propulsore nucleare, il comando della 6° Flotta della US Navy  ritenne di far tornare l’Atlanta per le riparazioni alla base di Norfolk, in Virginia. La ricostruzione dei fatti compiuta dalla commissione d’inchiesta non riuscì del tutto a chiarire i motivi della collisione. I sottomarini oceanici moderni sono dotati di un sofisticato sistema di navigazione inerziale capace di calcolare, secondo la rotta seguita, la velocità del battello e le carte sottomarine, ogni correzione di rotta per evitare ogni ostacolo sommerso conosciuto. Tuttavia anche navigando alla bassa velocità di sei/sette nodi, cioè attorno agli 11 – 13 chilometri all’ora,  una nave che stazza 6.900 tonnellate e scivola in un liquido ha un notevole grado di inerzia alle correzioni. Per cui anche il sistema inerziale ha bisogno di essere periodicamente azzerato e riprogrammato prendendo dei punti di riferimento a livello periscopico, sia geografici  che basati sulle trasmissioni di radiofari o satelliti. La missione dell’Atlanta avveniva in un momento di grande tensione con il regime del rais libico Muhammar Gheddafi, schierato col blocco sovietico, che non riconosceva il limite di 21 miglia delle acque internazionali nel Golfo della Sirte ed era apertamente avversario degli Stati Uniti, appoggiando anche attività terroristiche (basti ricordare l’assalto allo scalo all’aeroporto di Roma della Hel Hal, la compagnia di bandiera Israeliana, costato 19 morti). Il 19 aprile aerei dell’USAF provenienti dall’Inghilterra e della US Navy lanciati da portaerei nel Mediterraneo avevano bombardato basi militari e la residenza di Gheddafi. Quindi si sospettava che il canale di Gibilterra fosse sorvegliato da spie libiche e il passaggio di un sottomarino da attacco armato di missili Cruise non passasse inosservato. Il primo ufficiale (in quel momento il capitano non era sul ponte comando ) durante il passaggio dello stretto probabilmente fu troppo condizionato da questo rischio e ritardò il rilevamento della posizione, causando l’errore nel sistema di navigazione inerziale e l’impatto con i rilievi sottomarini. In ogni caso, l’Atlanta tornò negli Stati Uniti con una lenta navigazione in superficie durata tre settimane….e con un nuovo comandante.

31 luglio il 1986 non è un anno fortunato per le forze subacquee americane: l’USS Guitarro (SSN 665) (nota 10), sottomarino a propulsione nucleare classe Sturgeon, subì un problema a una valvola mentre si trovava in navigazione. Le fonti della marina non hanno concesso altro all’informazione, sottolineando peraltro che nessun  apparato a bordo, men che meno nucleare, è rimasto danneggiato o ne ha corso il rischio….

3/6 ottobre nemmeno sul lato opposto della cortina d ferro il 1986 è un anno da ricordare…mentre a Chernobyl si combatte ancora la battaglia col reattore esploso, nell’Oceano Atlantico si sta preparando un’altra tragedia. Partito dal porto militare di Gadhzievo, vicino a Murmansk, il sottomarino K 219, un lanciamissili nucleari balistici classe Yankee I, sta pattugliando le acque a un migliaio di chilometri dalle isole Bermuda, posizione ottimale per un eventuale lancio diretto alla Est  Coast degli Stati Uniti (nota 11). Alle 5, 14 del mattino, durante un controllo al comparto n. 4 viene scoperta un’infiltrazione di acqua nel silo n. 6 (il terzo sulla fila di sinistra), contenente un missile balistico a doppia testata nucleare SS-N-6. Mentre l’ufficiale agli armamenti e un tecnico cercano di capire da dove arriva l’acqua, che sembra filtrare dal lato dei collegamenti elettrici all’arma, improvvisamente la perdita diventa una falla vera e propria. Immediatamente il comandante Igor Britanov ordinò alle 5.25 di risalire alla quota di 46 metri per sicurezza, mentre le pompe cercano di svuotare il comparto del missile. Alle 5.32 da sotto il missile si sprigionano dense nubi di fumo marrone: l’acqua marina aveva raggiunto il carburante liquido del missile e stava producendo vapori di acido nitrico. A questo punto l’ufficiale armiere dichiarò incidente in corso, i compartimenti stagni vengono chiusi, ma 9 uomini restano nel comparto n. IV interessato dall’avaria. L’equipaggio è esperto e in meno di un minuto sta mettendo in pratica le procedure di emergenza, ma alle 5.38 una forte esplosione avviene nel silo n. 6. La situazione precipita:  tre uomini sono stati uccisi dall’esplosione, altri sei sono in pericolo nel comparto missili, Britanov ordinò l’emersione rapida per disattivare i due reattori a acqua pressurizzata che potenziano il battello, ma  raggiunta la superficie il K 219 resta senza energia elettrica. Le barre di controllo vanno inserite secondo procedura manuale, ma nel comparto del reattore la temperatura stava salendo vertiginosamente. L’ufficiale alle macchine Belikov è riuscito a calare tre delle quattro barre, ma non ce l’ha fatta con la quarta. Un marinaio di leva, il ventenne Sergei Preminin, entrò nella camera di controllo, dove la temperatura ha raggiunto i 70 gradi e riuscì a far scendere l’ultima barra. Cercò a quel punto di riaprire il comparto, ma cadde esausto a terra. Nemmeno i compagni riuscirono più ad aprire dall’esterno la porta blindata della camera assistendo impotenti alla morte del marinaio. A questo punto il comando della Marina informato della situazione ordinò a Britanov di attendere una nave appoggio che trainasse il battello alla base di partenza. Una volta raggiunti da una nave da carico russa, si tentò il traino che però fu impossibile. A quel punto l’incendio ed i gas del propellente liquido resero impossibile restare sul sottomarino, così Britanov mandò il suo equipaggio sulla nave da carico, mentre lui rimase a bordo. Mosca, irritata da quello che pensa essere un atto di insubordinazione, solleva Britanov dal comando e ordinò all’ufficiale politico di far tornare Ma è ormai tardi : appesantito dall’acqua imbarcata e privo di controllo, prima dell’alba del 6 ottobre il K 219 affondò, trascinando con se i corpi di sei valorosi uomini, due reattori nucleari e sedici missili, con trentadue testate operative. Il K 219 si adagiò sulla piana abissale di Hatteras, a  circa 6000 metri di profondità, sotto una pressione titanica. Due anni dopo la nave oceanografica sovietica Keldysh fotografò il relitto ed eseguì campionature dell’acqua. Dal momento che il comandante Britanov nelle ultime ore disperate del K 219 aveva fatto aprire i portelli dei missili raggiunti dall’acqua per fare evacuare i vapori ed evitare altre esplosioni, numerosi missili sono usciti dai silo e risultano dispersi sul fondo oceanico. Il sottomarino si è spezzato in due giusto davanti alla torre e attorno al relitto fu riscontrata una lieve traccia di radioattività, il che non fa sperare bene per il futuro…Preminin e gli altri caduti furono insigniti di onorificenze alla memoria, di onorificenze, mentre il comandante Britanov fu posto sotto accusa per negligenza e sospetto sabotaggio, come nella peggior tradizione sovietica, confinato a Sverdlovsk in attesa di processo. Con le dimissioni del ministro della difesa Sergey Sokolov, dopo il caso Mathias Rust (il giovane tedesco che atterrò sulla Piazza Rossa con un piccolo aereo Cessna da turismo, in barba a tutta la difesa aerea russa) il comandante Britanov venne scagionato dalle accuse e il caso archiviato. Anche a livello internazionale l’incidente ebbe conseguenze: i militari sovietici reclamarono apertamente con il governo americano per la presenza di un sottomarino da attacco, l’USS Augusta (SSN 710), che tallonando troppo da vicino il k 219 lo avrebbe speronato, provocandola la falla che ha portato alla perdita del battello e a una grave minaccia per l’integrità dell’ambiente oceanico. I vertici della US Navy, di solito piuttosto parchi di commenti sulle attività subacquee, questa volta risposero seccamente (forse sorpresi dalla “Glasnost” sovietica) che non era avvenuto alcun inseguimento né alcuna collisione fra il K 219 e l’USS Augusta. Ma di là a pochi giorni, l’11 e il 12 ottobre a Reykjavik, in Islanda, il presidente statunitense Reagan e quello sovietico Gorbaciov si sarebbero incontrati per uno storico colloquio su progetti di guerre stellari americani e sullo spiegamento di missili nucleari russi a medio raggio in Europa. Per cui ci fu un tacito accordo a trattenere ciascuno i propri “mastini della guerra” e a glissare sulle polemiche reciproche.

20 ottobre  in realtà, che le marine americana e sovietica giocassero una pericolosa partita a rimpiattino a distanza ravvicinata era del resto dimostrato da numerosi casi di collisione accaduti nei decenni precedenti (nota 12). Anche nel caso dell’USS Augusta, impegnato a sorvegliare i sottomarini lanciamissili che incrociavano a largo degli Stati Uniti, se non con il K 219 è probabile abbia avuto un “contatto ravvicinato del terzo tipo” con un altro battello. Infatti, pochi giorni dopo, ritornato in pattuglia l’Augusta ebbe una collisione in immersione con un oggetto non identificato. Il battello dovette rientrare a Groton per gli accertamenti del caso sui danni subiti, quantificati in circa 3 milioni di dollari. La US Navy fu rapida nel dichiarare che l’impianto propulsivo nucleare era perfettamente integro e non aveva corso alcun rischio…fotografie prese pochi giorni dopo mostrano un sottomarino lanciamissili classe Delta I (identificato da alcune fonti russe come il K 279) con una evidente ammaccatura sulla parte destra della prua. E’ plausibile che l’Augusta stesse inseguendo questo sottomarino, e non il K 219…che a sua volta lo stesse portando a farsi agganciare da un sottomarino da attacco classe Victor, nell’eterna lotta tra preda e cacciatore…

di Davide Migliore


Note

(1) http://www.youtube.com/watch?v=wHylQRVN2Qs

http://lyricskeeper.it/it/sting/russians.html

Sting, “Russians”

(2) http://articles.latimes.com/1985-01-12/news/mn-9508_1_unarmed-missile

http://www.fbjs.facebook.com/note.php?note_id=217420051617134&comments

 Incidente del 11.02.1985 a un missile Pershing II  

http://en.wikipedia.org/wiki/MGM-31_Pershing

Missile Martin Marietta MGM 31Pershing II  

http://miamisburg.org/pershing_missile_56th_field_artillery_command.htm   

organigramma e storia della 56th Field Artillery Brigade della U.S. Army

http://www.fbjs.facebook.com/l.php?u=http%3A%2F%2Fwww.dtic.mil%2Fcgi-    

bin%2FGetTRDoc%3FAD%3DADP005343%26Location%3DU2%26doc%3DGetTRDoc.pdf&h

     =xAQHQiQ7Q&s=1

Relazione tecnica sull’incidente al missile Pershing II ad Heilbronn del 11.02.1985

(3) http://www.britishpathe.com/video/polaris-fired-from-h-m-s-resolution

Video British Pate del lancio  in immersione di un misslie Polaris dall’HMS Resolution (1968)

(4) http://robertamsterdam.com/2008/08/grigory_pasko_prelude_to_chernobyl/

Grigory Pasko, “Prelude to Chernobyl”, articolo sull’incidente di Chazhma Bay

http://www.google.it/url?sa=t&rct=j&q=&esrc=s&frm=1&source=web&cd=16&ved=0CEgQFjAFOAo&url=http%3A%2F%2Fwww.ippnw-students.org%2FJapan%2FChazhmaBay.pdf&ei=_4qiUKbhOYuTswa3hoGgBw&usg=AFQjCNG2t1DPaq0lNboha4YqOKO5jw_x-Q&sig2=aUdZIpFDAbr7tsEDe9R5rA

Documento PDF,  International Physicians for the Prevention of Nuclear War, l’inquinamento nucleare a Chazhma Bay

http://spb.org.ru/bellona/ehome/russia/nfl/nfl8.htm#O17b

Bellona Report nr. 2:96. Written by: Thomas Nilsen, Igor Kudrik and Alexandr Nikitin, rapporto pubblicato dalla Bellona Foundation sugli incidenti che hanno colpito la flotta sottomarina nucleare sovietica fino agli anni ‘90.

(5) http://navysite.de/ssn/ssn579.htm

Incidente allo USS Swordfish

(6) http://navysite.de/ssn/ssn671.htm

http://www.mesotheliomaweb.org/mesothelioma/veterans/submarines/uss-narwhal

USS Narwhal SSN 671, incidente a sottomarino nucleare

(7) http://navysite.de/ssbn/ssbn636.htm

http://en.wikipedia.org/wiki/USS_Nathanael_Greene_(SSBN-636)

L’incidente all’USS Nathanael Greene

(8) http://it.wikipedia.org/wiki/Disastro_di_%C4%8Cernobyl

Centrale nucleare di Cherbnobyl ,  disastro nucleare

http://www.comedonchisciotte.org/site/modules.php?name=News&file=article&sid=8088 

“In diretta da Chernobyl” di Charles Choi,

www.scientificamerican.com

(9) http://en.wikipedia.org/wiki/USS_Atlanta_(SSN-712)             

http://navysite.de/ssn/ssn712.htm

Incidente all’USS Atlanta (SSN 712)

http://www.oocities.org/uss_atlanta_ssn/seastories.html

La collisione dell’USS Atlanta col fondo dello stretto di Gibilterra nella testimonianza del marinaio Glenn Damato

(10) http://navysite.de/ssn/ssn665.htm

 Incidente all’USS Guitarro

(11) http://english.pravda.ru/russia/politics/09-10-2012/122396-submarine_reagan_gorbachev-0/

http://en.wikipedia.org/wiki/Soviet_submarine_K-219

Hostile Waters (ISBN 0312966121) by Peter Huchthausen, Igor Kurdin and R. Alan White

L’affondamento del K 219 a largo delle Bermuda.

(12) http://en.wikipedia.org/wiki/USS_Augusta_(SSN-710)

http://navysite.de/ssn/ssn710.htm

L’Uss Augusta e la presenza di sottomarini russi a largo delle coste americane, probabili casi di collisione.


Fonti generali

http://www.progettohumus.it/public/forum/index.php?topic=428.0;wap2

Incidenti nucleari o potenzialmente nucleari dal 1971 ad oggi

http://lists.peacelink.it/armamenti/msg00252.html

Lista di incidenti a sottomarini e vascelli militari angloamericani dal 1945 

http://www.at1ce.org/themenreihe.p?c=United%20States%20submarine%20accidents

http://spb.org.ru/bellona/ehome/russia/nfl/nfl8.htm#O17b

Lista incidenti a sottomarini sovietici con cause

https://www.cia.gov/library/center-for-the-study-of-intelligence/csi-publications/books-and-monographs/a-cold-war-conundrum/source.htm sito ufficiale della C.I.A.

http://nuclearweaponarchive.org/index.html

The nuclear weapons archive

http://books.google.it/books?id=3wUAAAAAMBAJ&pg=PA23&lpg=PA23&dq=us+nuclear+submarine+accidents+1985&source=bl&ots=QvKSE3wTuu&sig=y6tbBUeneIb4ZiRAi6BYv-2tHOc&hl=it&sa=X&ei=3-mjUIuqFsfEsgbL-4DoAw&ved=0CCYQ6AEwATgK#v=onepage&q=us%20nuclear%20submarine%20accidents%201985&f=false

Bulletin of the Atomic Scientists, july/august 1989 issue

http://www.nukewatchinfo.org/nuclearweapons/index.html

Informazioni aggiornate sulla produziione di armamenti, sulle conseguenze mediche e ambientali della produzione di armi, iniziative pacifiste e di eliminazione degli armamenti nucleari.

http://bispensiero.blogspot.it/2007_05_01_archive.html

Blog con liste dei principali pericoli e situazione attuale della strategia atomica

http://archive.greenpeace.org/comms/nukes/chernob/rep02.html

http://www.rmiembassyus.org/Nuclear%20Issues.htm

http://www.web.net/~cnanw/a7.htm

10 mishaps that might have started an accidental nuclear war.

http://forum1.aimoo.com/American_Cold_War_Veterans/Cold-War-Casualties/Naval-Accidents-During-Cold-War-1-1579633.html

Incidenti navali con vittime durante la Guerra Fredda

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