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Hayao Miyazaki, cantastorie antico dalla mano umana, ci riporta nel Paradiso della nostra infanzia

Pubblicato il 20 aprile 2019 by redazione

Hayao Miyazaki nasce a Tokyo nel 1941 da una famiglia piuttosto agiata. Dopo essersi laureato in Scienze politiche ed Economia, entra a far parte della Toei e qui incontra Isao Takahata (suo futuro collaboratore di lunga data) e Yasuo Ōtsuka (suo maestro nonché pioniere del primo lungometraggio animato a colori prodotto in Asia). Iniziata la sua carriera come collaboratore, grazie al suo talento e alla sua creatività riuscirà a staccarsi dalla Toei per approdare alla A Productions. Ma la vera svolta avviene nel 1982 con la pubblicazione del manga Nausicaã della valle del vento sulla rivista Animage che gli avvale successivamente la realizzazione dell’animazione omonima (che uscirà nelle sale nel 1984) e, un anno dopo, la fondazione di una propria casa di produzione: lo Studio Ghibli.

Tra le sue tematiche più frequenti abbiamo: il rapporto uomo- natura, la paura per ciò che è diverso e l’ecologismo in Nausicaã della valle del vento, Principessa Mononoke e Ponyo sulla Scogliera; il pacifismo e la tendenza dell’uomo ad autodistruggersi in Il castello errante di Howl e nuovamente la Principessa Mononoke; il rapporto dell’uomo con sé stesso e la concezione dualistica dei personaggi negativi in La città incantata, Ponyo sulla scogliera, Il castello errante di Howl e Porco Rosso; l’amore, il calore della famiglia e dell’amicizia in Il mio vicino Totoro, LaputaCastello nel cielo, Kiki, Consegne a domicilio e ArriettyIl mondo segreto sotto il pavimento. Infine, il tema della magia e della mitologia nipponica presente in moltissimi dei suoi capolavori.

 

 

Quest’ampia trattazione tematica può essere spiegata anche in relazione al fatto che l’autore considera il pubblico come qualcosa a lui estraneo. Miyazaki infatti non ha un target di riferimento, ma finalizza tutto il suo lavoro alla creazione di un’opera completa che possa perdurare nel tempo.

A questo proposito, lo stesso Miyazaki dichiarava in un’intervista: “Io credo che i film non debbano essere fatti per un temporaneo senso di catarsi. Quello che cerco è un mondo che non sia mai stato visto prima, ma che nel contempo è qualcosa di bello e accettabile per i bambini.”

Tutti i suoi film sono carichi di significati e di messaggi nascosti, il che talvolta li rende dei veri e propri cartoni “per adulti”. Ma non mancano anche opere adatte ai più piccoli, come la bellissima fiaba avventurosa sull’amore infantile Ponyo sulla scogliera, che lo stesso Miyazaki definisce “Un film per bambini di cinque anni che non capiscono il mondo e dove gli adulti si rilassano venendo messi nella stessa condizione”.

Un’altra costante delle sue opere sono proprio i bambini o gli adolescenti, protagonisti della maggior parte dei suoi lungometraggi. L’autore infatti usa l’innocenza e la purezza dei bambini come chiave di lettura della vita, che risalta proprio dal confronto con personaggi negativi (per lo più adulti incapaci di resistere alle insidie della corruzione, come accade ai genitori di Chihiro di fronte al cibo ne La città incantata o alla strega delle Lande Desolate de Il castello errante di Howl che si lascia sopraffare dalla gelosia nei confronti di Howl).

Proprio Miyazaki a proposito dell’infanzia dice “Ho compreso che il paradiso risiede nei ricordi della nostra infanzia. In quei giorni eravamo protetti dai nostri genitori ed eravamo innocentemente incoscienti dei tanti problemi che ci circondavano. Per tanto, quando si cerca il paradiso, è necessario tornare con la memoria alla propria infanzia.”

Spesso questi personaggi sono giovani donne o bambine, per le quali Miyazaki dice di ispirarsi alle donne del suo studio, delle quali ne cattura “l’essenza” e non il fisico o le facce, dove preferisce servirsi di volti più semplici da disegnare.

Per quanto riguarda il successo commerciale, invece, l’autore non lo ritiene l’obiettivo primario, sebbene non neghi che talvolta ciò sia essenziale per proseguire nel proprio lavoro.

Il risultato finale a cui Miyazaki vuole arrivare è un apprezzamento globale da parte del pubblico: lo scopo è che il film possa diventare “Un amico per tutta la vita”, e in questo risiede il suo vero valore. Riguardo al successo internazionale, questo viene considerato come un bonus che può essere preso in considerazione anche in un secondo momento.

Questo grande artista nipponico punta proprio alla valorizzazione della pellicola come vera e propria opera d’arte, frutto di un finissimo lavoro artigianale. Come dice lo stesso Miyazaki “ L’animazione ha bisogno della mano umana”, ancor più in un’epoca dove l’animazione è ormai un mero prodotto della computer graphic. Per questo nell’universo creativo di Miyazaki, ogni cosa è realizzata a mano, partendo dai disegni dei personaggi arrivando agli sfondi, e solo in un secondo momento l’intera produzione viene perfezionata al computer per esaltare la vivacità dei colori e catturare l’attenzione dello spettatore.

E’ grazie a tutto questo impegno e lavoro che Hayao Miyazaki può essere considerato un vero cantastorie in grado non solo di narrare una fiaba, ma anche di trasportare lo spettatore (che sia bambino o adulto) nel mondo magico della sua fantasia.

di Francesca Pich

 

Piccola Cineca

Wan Wan chushingura (1963)

Okami shonen Ken (1963)

Shonen ninja kaze no Fujimaru (1964)

Hustle Punch (1965)

Gulliver no uchu ryoko (1965)

Rainbow sentai Robin (1966)

Sally la maga (1966)

La grande avventura del piccolo principe Valiant (1968)

La grande avventura del piccolo principe Valiant (1968)

Il gatto con gli stivali (1969)

Moomin (1969)

Sora tobu Yureisen (1969)

Lo specchio magico (1969)

Sabakuno tami (1969)

Le avventure di Lupin III (1971)

Gli allegri pirati dell’isola del tesoro (1971)

Ali Baba to 40 piki no tozoku (1971)

Hela Supergirl (1971)

Panda kopanda (1972)

Akado Suzunosuke (1972)

Yuki no taiyo (1972)

Sam il ragazzo del West (1973)

Panda Kopanda: Amefuri circus no maki (1973)

Samurai Giants (1973)

Heidi (1974)

Il fedele Patrashe 1975)

Marco (1976)

Rascal, il mio amico orsetto (1977)

Le nuove avventure di Lupin III (1977)

Saraba itoshiki Lupin yo (1977)

Conan, il ragazzo del futuro (1978)

Conan, il ragazzo del futuro (1978)

Lupin III – Il castello di Cagliostro (1979)

Anna dai capelli rossi (1979)

Super Robot 28 (1980)

Space Adventure Cobra (1982)

Nausicaä della Valle del Vento (1982)

Shuna no tabi (1983)

Hayao Miyazaki no zasso note (1984)

Nausicaä della Valle del Vento (1984)

Il fiuto di Sherlock Holmes (1984)

Laputa – Castello nel cielo (1986)

Il mio vicino Totoro (1988)

Akai Crow to yureisen (1989)

Hikotei jidai (1989)

Kiki consegne a domicilio (1989)

Nandaro (1992)

Porco Rosso (1992)

Sora iro no tane (1992)

Nandaro (1992)

Mimi wo sumaseba (1995)

On Your Mark (1995)

La leggenda di Zorro (1996)

Principessa Mononoke (1997)

Koro no dai-sanpo (2001)

Kujiratori (2001)

La città incantata (2001)

Mei to Konekobasu (2002)

Ornithopter monogatari (2002)

Il castello errante di Howl (2004)

Mizugumo Monmon (2006)

Yadosagashi (2006)

Hoshi wo katta hi (2006)

Ponyo sulla scogliera (2008)

Karigurashi no Arrietty (2010)

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Neko Cafè a Vienna

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Neko Cafè a Vienna

Pubblicato il 20 febbraio 2013 by redazione

Vienna. In una fredda sera, di inizio dicembre, l’aria pungente costringe me e i miei amici a fermarci al caldo in qualche bar. Passeggiando intabarrati nei nostri piumini per il bel quartiere di Innere Stadt, la mia attenzione viene attratta da un locale molto inn: pareti bianche, eco design, luce soffusa, gruppi di donne e di giovani seduti attorno ai tavoli.. e un gatto nero accoccolato su una sedia! La nostra comune passione felina ci spinge, un po’ attoniti, a guardare meglio: i gatti sono in totale cinque, di diverse taglie, e pascolano sornioni tra gli avventori del bar. Solo dopo essere entrati, aver bevuto una cioccolata calda e, tra le fusa, aver scambiato due chiacchiere con la proprietaria del caffè le nostre idee si fanno un po’ più chiare. In realtà, quello in cui ci siamo imbattuti è il solo “cat cafè” esistente in Europa, dal nome tradizionale Neko (gatto) Cafè, importato direttamente dal Giappone. Il primo Neko Cafè è nato infatti a Osaka, nel 2004, e nel giro di cinque anni ne costruirono ben 100 in tutto il Pese, la metà dei quali nella sola Tokyo.

Questi locali si configurano come veri spazi di interazione tra gatti e uomini per un beneficio reciproco: mentre i primi sono accuditi, nutriti e coccolati, gli altri traggono soddisfazione da una pet-therapy fuori casa. Proprio i restrittivi regolamenti condominiali, che non permettono di allevare un animale nei minuti appartamenti del Sol Levante, spingono infatti i clienti (per lo più uomini single, poco portati alla socializzazione e spesso impegnati in lavori che li obbligano fuori casa per l’intera giornata) a spendere ¥ 1000 all’ora (poco meno di € 10) per passare la pausa pranzo o la serata in locali arredati come grandi salotti con tavolini, sofà, cuscini, rete wifi e videogiochi. Si possono poi pagare degli extra per l’acquisto di giocattoli e cibo per allevare quelli che, spesso, sono dei trovatelli: un po’ come accade a Vienna, dove i padroni di casa, i Maine Coon Luca e Moritz, la bastardina Momo, il rosso Thomas e la nera Sonia, provengono tutti da un ricovero per animali, e ora vagano liberamente per il caffè alla ricerca di gioco, cibo e carezze.

Proprietaria del locale è Takako Ishimitsu, residente da 20 anni a Vienna, ma originaria di Nagoya, in Giappone: “All’inizio non è stato facile ricevere tutte le autorizzazioni per aprire il mio Cafè Neko – ci spiega – tanto che ho dovuto trascorrere tre anni a negoziare con le autorità locali su questioni di igiene”. Ma, determinata a introdurre un aspetto saliente della cultura giapponese in terra austriaca e intenzionata a fare qualcosa di buono per il ricovero dei felini di Vienna, è infine riuscita nel suo rivoluzionario intento: “Il locale, che può ospitare fino a 50 persone, è stato subito un successo tra autoctoni e turisti”, tanto che è ora diventato un vero e proprio centro di incontro tra proprietari di gatti e futuri tali, che si ritrovano al bar per scambiarsi consigli o acquistare cuccioli troppo numerosi, che altrimenti rimarrebbero senza padroni.

Ma non dimentichiamoci che siamo in un caffè: largo quindi a un ricco menu composto di piatti tipici giapponesi (sushi con salmone affumicato, tofu fritto accompagnato da riso e riso accompagnato da erbe), di dolciumi (torta del giorno fatta in casa, crème caramel, crema di marroni e di cioccolato) e di bevande calde (caffèlatte, cioccolata e una vastissima scelta di tea provenienti dal Giappone, dall’India e dall’Irlanda). I mici, invece, hanno la loro pappa e non vanno assolutamente avvicinati con il cibo per gli umani: a questo proposito, è inoltre vietato inseguire gli animali, tenerli se non lo desiderano, svegliarli o spaventarli parlando ad alta voce e fare foto col flash. Ma la restrizione più importante presente nel locale è, ovviamente, il divieto di entrata per i cani: il Neko Cafè è il regno dei gatti.

di Clara Amodeo

http://www.cafeneko.at/

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Keith Haring: fumetti e lotta contro l’AIDS

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Keith Haring: fumetti e lotta contro l’AIDS

Pubblicato il 12 luglio 2012 by redazione

Keith Haring

“La tela come materiale in sé è meravigliosa. È robusta, può essere venduta e in un certo senso è duratura. Ma mi inibisce. Spendo 8 dollari per una tela di 75 centimetri per 100 e per la pittura a olio; poi vado in paranoia per come riuscirà perché ho speso 12 dollari per quel quadro e penso che debba valere qualcosa. Invece, quando dipingo su un pezzo di carta che ho trovato oppure ho comprato a poco prezzo, e uso l’inchiostro ad acqua, faccio un intero quadro di 120 centimetri per 270 senza aver speso praticamente nulla”. Così, il 14 ottobre del 1978, appuntava sui suoi diari uno dei capi della corrente neo-pop, il padre indiscusso del graffitismo di frontiera, il lungimirante sperimentatore dell’arte pubblica nello spazio urbano: Keith Haring.

Nato il 4 maggio 1958 in Pennsylvania, mostra una precoce predilezione per la grafica di fumetti e di cartoni animati; incoraggiato in questa sua passione dal padre, Allen Haring, dopo il liceo si iscrive all’Ivy School of Professional Art di Pittsburgh, un istituto d’arte commerciale, che frequenta per quattro anni al termine dei quali si iscrive all’università. Ma nel frattempo, sull’onda della nuova contestazione giovanile e della culture hippie datata 1976, abbandona gli studi per girare gli Stati Uniti in autostop, facendo tappa nelle varie città del paese allo scopo di osservare più da vicino i lavori degli artisti della scena americana e soggiornando per diverso tempo a San Francisco, dove inizia a manifestare il proprio orientamento omosessuale.

Forte di questa esperienza di vita, nel 1978 sceglie di recarsi alla School of Visual Art (SVA) di New York: qui trova una prosperosa e alternativa comunità d’artisti che stanno sviluppando il proprio lavoro al di fuori dei circuiti commerciali d’arte costituiti da musei e gallerie, preferendo le strade, le metropolitane, i club e le dance-hall. Dopo aver fatto conoscenza con alcuni degli esponenti della nuova cultura underground, Andy Warhol e Jean-Michel Basquiat per fare dei nomi, decide così di aderire a questa nuova corrente culturale, esponendo le sue opere fra locali di vario genere (il Club 57 su tutti) e vernissage più o meno improvvisati; ma il suo cavallo di battaglia rimane la grafica, che egli decide di condividere con i suoi concittadini adottivi sui muri della metropolitana newyorkese: qui, nel 1980, nota la presenza di un pannello pubblicitario abbandonato ricoperto di carta nera opaca che cerca di abbellire con disegni a fumetto realizzati a gesso bianco.

Dal 1980 al 1985 omini stilizzati bianchi invadono la metropolitana della Grande Mela, rendendola non solo un “laboratorio” per promuovere idee e sperimentare linee grafiche, ma anche un vero e proprio museo a cielo aperto, dove Haring si fa conoscere e addirittura arrestare. Inizia così una (breve) vita di successo, che esplode nel 1982 alla Tony Shafrazi Gallery della frizzante SoHo, grazie alla quale approderà alla Documenta 7 di Kassel, alla Biennale di San Paolo e alla Withney Biennal.
Nell’aprile del 1986, poi, apre a New York il primo Pop Shop (il secondo, datato 1988, si trova a Tokyo), dove è possibile acquistare t-shirts, giocattoli, posters, magneti e accessori recanti le sue opere più famose: il negozio vuole così permettere la fruizione dell’arte di Haring al grande pubblico, che può a sua volta acquistare prodotti di qualità a basso prezzo, e dà inoltre la possibilità di vedere l’artista lavorare live.

Keith Haring AIDS

Ma nel 1988 la sua carriera viene stroncata dall’AIDS: “Nella mia vita ho fatto un sacco di cose, ho guadagnato un sacco di soldi e mi sono divertito molto. Ma ho anche vissuto a New York negli anni del culmine della promiscuità sessuale. Se non prenderò l’AIDS io, non lo prenderà nessuno”, aveva da poco dichiarato alla rivista “Rolling Stone”. Nel 1989, un anno prima di morire, fonda la Keith Harin Foundation, che si propone tutt’oggi di continuare la sua opera di supporto alle organizzazione no-profit a favore dei bambini e della lotta contro l’AIDS. Muore il 16 febbraio 1990, all’età di 31 anni.

Durante la sua breve ma intensa carriera, Haring ha fortemente influenzato la morale pubblica realizzando opere di intenso significato sociale con le quali ha invaso gli spazi pubblici delle città: la lotta contro la malattia, la pace, la dignità umana, sono messaggi che l’artista ha lasciato ai cittadini di più di 100 città nel mondo, tra le quali New York, Londra, Tokyo, Amsterdam, Pisa e San Francisco. Il suo successo ha inoltre contribuito alla formazione di una vera sensibilità artistica nei confronti della nuova forma d’arte urbana: immediate, semplici e dirette, le sue composizioni attirano l’attenzione di chi guarda a più livelli, da un piano più superficiale e divertito a uno graffiante e allucinato.

di Clara Amodeo

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Cacciatori di pirati digitali: chi sono i veri criminali?

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Cacciatori di pirati digitali: chi sono i veri criminali?

Pubblicato il 30 giugno 2012 by redazione

“La comunicazione è un processo sociale fondamentale, un bisogno umano primario e il fondamento di tutte le organizzazioni sociali. E’ centrale nella società dell’informazione.”

Il passo qui citato, viene riportato da una dichiarazione rilasciata durante il World Summit on the Information Society del 2003 e mai come oggi, visti i recenti sviluppi del progetto ACTA, a livello internazionale, e del SOPA negli USA (di fatto in sostituzione del DMCA, ora vigente), risulta così attuale.

Assange

In breve, questi progetti normativi costituirebbero una fortissima limitazione della libertà degli internauti di accedere e sfruttare informazioni online, opere condivise o database informatici, il tutto in nome di una fortissima protezione del diritto d’autore. Il che è reso ancor più paradossale dal fatto che proprio il copyright era nato come strumento di censura per gli autori! Già, infatti fu introdotto in Inghilterra nel XVI secolo in modo tale che la Corona potesse controllare cosa potesse essere pubblicato e cosa, invece, censurato! Quello che oggi viene difeso alla stregua di un diritto inviolabile, altro non era che uno strumento nelle mani dell’Autorità.

Procediamo per gradi. Sul filone dei recenti scandali informatici (Wikileaks, Megavideo, Megaupload e molti siti di file-sharing peer-to-peer solo per citarne alcuni), sono stati sviluppati a livello locale (visto che i progetti SOPA e PIPA sono stati presentati su base nazionale negli USA, rispettivamente dal deputato repubblicano della Camera dei Rappresentanti statunitense Lamar S. Smith e dal senatore Patrick Leahy) e poi estesi a tutela internazionale (vedi il recentissimo accordo commerciale dell’ACTA, siglato a Tokyo il 26 gennaio 2012 cui hanno aderito 22 dei 27 Paesi dell’UE), disegni di legge che rafforzerebbero notevolmente la proprietà intellettuale. Negli ultimi anni, infatti, si è sviluppato il trend internazionale di inasprimento delle pene, anche per quei reati che, di fatto, costituiscono ormai prassi consolidata dell’era digitale (come lo scaricare un brano musicale), al punto che è nata una sorta di “equiparazione” tra la violazione del copyright e il reato di furto.

Siamo arrivati a un punto di sanzionamento per cui la punizione non è più un deterrente per l’agente, ma svolge un ruolo di “punizione esemplare”, specialmente in caso di approvazione del disegno di legge del deputato Smith o del senatore Leahy, dove interi siti rischiano la rimozione soltanto per la violazione del copyright da parte di UNO solo dei contenuti: come dire “in un pacchetto di biscotti ce n’è uno guasto. Fermiamo l’intera produzione di dolci a livello federale!”. E a dirla tutta non si tratta neanche di grandi novità, visto che entrambi i progetti nascono dalle ceneri di altre due proposte: il DMCA (attualmente in vigore negli USA) e il COICA (presentato nel settembre 2010 e respinto). Stando a questi due progetti normativi, con il SOPA (Stop Online Piracy Act ) sarebbe consentito alle stesse detentrici di copyright di agire direttamente per impedire la diffusione di contenuti protetti e verrebbe seriamente limitata l’autonomia di siti che permettono agli utenti di caricare contenuti (senza andare troppo lontano: Facebook, Youtube, Blog….), in quanto anch’essi perseguibili, nonostante siano meri “contenitori” dell’informazione, al punto da essere considerati essi stessi “siti pirata” (come previsto dal PIPA, PROTECT IP Act).

Non solo! In previsione si avrebbe una proliferazione incontrastata di cause legali nascenti contro la violazione del diritto d’autore, dove siti minori verrebbero sopraffatti dalle grandi case detentrici del copyright, perchè incapaci di sostenere economicamente le spese legali. In aggiunta, questo progetto non si limiterebbe alla sola giurisdizione statunitense, ma estenderebbe il suo raggio d’azione anche a siti collocati al di fuori del territorio USA, ma accusati di consentire direttamente o indirettamente la violazione del diritto d’autore in uno degli Stati federali. Come? Oscurando tali siti, impedendone la visualizzazione dagli stessi motori di ricerca e compromettendone seriamente lo sviluppo economico, dal momento che le detentrici del copyright potrebbero rivolgersi a società di pagamenti online (Paypal e Mastercard solo per citarne alcune tra le più diffuse) vietando loro di fornire i propri servizi ai siti sospetti.

Per quanto riguarda la sfera europea, invece, un obiettivo simile, ma decisamente più mitigato, è stato perseguito tramite l’ACTA (Anti-Counterfeiting Trade Agreement ), accordo commerciale plurilaterale, spacciato per inasprimento ed estensione del TRIPs (Accordo sugli aspetti commerciali dei diritti di proprietà intellettuale, promosso dall’Organizzazione Mondiale del Commercio, ad oggi considerato uno degli accordi più completi in materia di proprietà intellettuale), cui hanno aderito 22 Paesi su 27 dell’UE, tra cui anche l’Italia, e fino ad ora firmato da 30 Paesi. Anche l’iter di approvazione di questo progetto è stato piuttosto travagliato, soprattutto per la questione della scarsa trasparenza che ne ha accompagnato tutte le fasi dei negoziati. Innanzitutto, questo accordo commerciale nasce con l’intento “dichiarato” di rafforzare i diritti della proprietà intellettuale a livello internazionale, in modo da opporsi al fenomeno ormai capillare nella nostra società della contraffazione (alimentare, di farmaci, film e musica) e della pirateria informatica. I negoziati nascono nel 2007, coinvolgendo 40 Stati, diverse associazioni e multinazionali, e vengono mantenuti segreti durante tutta la redazione del testo originale, al punto che lo stesso Presidente Obama vi appone il segreto di Stato per motivi di sicurezza nazionale. Già questo episodio, dovrebbe essere un campanello d’allarme, perché così facendo il Presidente degli Stati Uniti ha spacciato un trattato (che quindi ha valenza legislativa e deve passare all’attenta analisi e votazione del Senato) per un “accordo esecutivo” stipulato sul fronte internazionale (sollevando non pochi dubbi circa la sua legittimità costituzionale, dubbi esplicitati direttamente al Presidente Obama, in una sorta di lettera aperta, firmata da alcuni tra i più autorevoli giuristi americani del nostro tempo: http://infojustice.org/senatefinance-may2012 ). Senza troppi giri di parole, questo gruppo di accademici fa notare come l’iter legislativo non rispetti i principi fondamentali sanciti nell’Articolo 1 della Costituzione americana ed evidenzia come la questione non riguardi una mera violazione processuale (ossia l’approvazione da parte del Congresso ex-ante, invece che ex-post, della proposta di legge), ma vada ad intaccare lo stesso principio di separazione dei poteri, in quanto la sfera di competenza del potere esecutivo verrebbe dilatata da una disposizione che “clearly does not authorize the agreement “ (infatti, la Sezione 8113(a) del PRO-IP Act non autorizza la negoziazione di accordi internazionali, ma auspica, nella sottosezione f) programmi di assistenza tecnica ai governi stranieri nella lotta alla contraffazione e alle infrazioni tra le Agenzie dei vari Paesi). Ed è qui che interviene l’altro motivo di incertezza: sul modello e sulla portata di leggi nazionali in materia di proprietà intellettuale, verrebbero creati obblighi internazionali, con una sommaria delineazione anche dell’entità delle ipotetiche pene relative a ciascuna infrazione.

Quest’onda di incertezza non ha risparmiato nemmeno l’Unione Europea, sia dal punto di vista accademico (dove quesiti analoghi si hanno: http://www.statewatch.org/news/2011/jul/acta-academics-opinion.pdf), sia dal fronte interno della stessa Unione europea. Se a luglio 2011, la Direzione Generale per le Politiche Estere si limitava ad avviare uno studio conoscitivo su ACTA, in vista della ratifica dell’accordo, in cui si conclude “l’inopportunità” (inteso come “pochi vantaggi”) dell’accordo, a partire da maggio 2012 il suo approccio si fa molto più analitico, al punto che il Parlamento Europeo decide di far passare il testo legislativo sotto la scure di ben cinque commissioni (la Commissione Giuridica; la Commissione Industria; la Commissione che si occupa di libertà civili; la Commissione Sviluppo e da ultima la Commissione Commercio Internazionale). Il responso comune? Respingere l’accordo! Immancabile la critica e il disappunto delle grandi major e dei loro rappresentanti (da molti considerate le “burattinaie” che si celano dietro questo progetto e che hanno partecipato alla “negoziazione segreta” dell’accordo). Carole Tongue, parlamentare europea ed esponente del Gruppo del Partito del Socialismo Europeo ha commentato, il 21 giugno 2012, alla fine del vaglio della Commissione Commercio Internazionale: «L’economia della conoscenza in Europa occupa fino a 120 milioni di lavoratori, con mestieri che vanno dalla manifattura ai settori innovativi e creativi. Penso che queste persone siano deluse dal voto di oggi».

Di contro, si è dichiarato soddisfatto il deputato David Martin (membro del Gruppo dell’Alleanza Progressista di Socialisti e Democratici al Parlamento Europeo), responsabile di aver “affossato” l’accordo troppo vago, privo di definizioni precise, ma con sanzioni spropositate, che alla fine della votazione ha commentato: «Io critico il contenuto del trattato, non il fatto che l’UE tuteli la proprietà intellettuale. Se la Commissione proporrà sistemi e metodi più sensati per difendere la proprietà intellettuale, li sosterrò». Ora la decisione finale spetta al Parlamento Europeo, che a luglio si pronuncerà in seduta plenaria (dall’Agenda dell’Unione Europea fanno sapere tra il 2 e il 5 luglio 2012) sul testo integrale, senza possibilità di proporre emendamenti (si noti che in caso di risposta negativa, l’ACTA non sarà legge per l’Unione Europea!). La risposta, una sola: SI o NO.

 di Giulia Pavesi

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Louis Vuitton per Ai Weiwei

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Ai Weiwei: l’arte si fa portavoce della resistenza contro l’oppressione

Pubblicato il 04 gennaio 2012 by redazione

“Senza libertà di parola non può esistere un mondo al passo coi tempi. Esso sarà solo barbaro e selvaggio”.

Questo il mantra di Ai Weiwei, artista contemporaneo, ma anche attivista per la democrazia e i diritti umani in Cina: un ideale, quasi uno stile di vita con cui, nonostante le repressioni del regime comunista, Weiwei svolge un instancabile lavoro artistico e sociale della durata, ormai, di oltre 30 anni. La sua storia non è facile: nato a Pechino il 18 maggio 1957 da Ai Qing e Gao Ying, entrambi letterati che per la loro aperta opposizione al regime maoista vennero internati nel campo di lavoro di Xinjiang, si trasferì già all’età di un anno presso Shihezi. Lasciò la città al compimento del suo sedicesimo compleanno per tornare a Pechino e, nel 1978, dopo il matrimonio con l’artista Lu Qing, iscriversi all’Accademia Cinematografica: qui fondò il gruppo Stars, una delle prime avanguardie artistiche cinesi, che, tuttavia, si sciolse nel 1983 quando Weiwei emigrò negli Stati Uniti d’America, solo dopo aver organizzato la prima mostra retrospettiva sul lavoro svolto dal gruppo dal titolo The Stars: ten years. A New York studiò alla Parson School of Design e alla Art Students League of New York, dove si impratichì con l’arte concettuale attraverso l’alterazione di manufatti già confezionati. A causa della cattiva salute di cui godeva il padre,  tuttavia, l’artista fu costretto a tornare in Cina nel 1993 e qui sovvenzionò gli esperimenti artistici di alcuni giovani pittori dell’East Village di Pechino: dal sodalizio nacquero i tre libri Black cover book, White cover book e Gray cover book. Anche il racconto di questa nuova generazione di artisti entrò a far parte, dal 1997, dei China Art Archives and Warehouse (CAAW), archivi di arte contemporanea e sede delle principali esposizioni culturali degli abitanti della Repubblica Cinese, co-fondati e disegnati da Weiwei stesso. Il suo studio personale vide invece la luce nel 1999, a Coachangdi: da questa data lo studio di architettura FAKE Design divenne la sede di progettazione dell’intero operato dell’artista d’opposizione, i cui guai iniziarono proprio allo scoccare del XXI Secolo. Nel gennaio 2007 Weiwei fu chiamato, in qualità di consulente artistico, a disegnare il Birds Nest, lo Stadio Nazionale di Pechino realizzato per le Olimpiadi 2008: nonostante la sua partecipazione ai lavori, che successivamente motivò con l’amore per il design, l’artista animò le proteste contro le Olimpiadi, distanziandosi successivamente dal progetto e accusando i coreografi della cerimonia d’apertura Steven Spielberg e Zhang Yimou di mancanza di responsabilità. Nel dicembre 2008, poi, Weiwei e un altro artista cinese decisero di voler dare un nome, fino ad allora taciuto, ai ragazzi rimasti coinvolti nella tragedia del sisma di Sichuan: dopo un anno di ricerche tutti i 5.385 nomi furono inseriti sul blog dell’artista che tuttavia venne fatto chiudere dalle autorità cinesi nel maggio 2009. Poco tempo dopo, a seguito di una manifestazione a favore delle vittime di Sichuan, Weiwei venne picchiato dalla polizia: ciò (forse) gli provocò un’emorragia cerebrale su cui un team di medici tedeschi intervenne velocemente, salvandolo. Ancora, nel novembre del 2010 la polizia cinese lo mise agli arresti domiciliari per aver organizzato una “festa di addio” in segno di protesta contro la demolizione del suo nuovo studio di Shanghai: Weiwei venne infatti accusato di aver costruito una struttura di 2.000 mq senza i necessari permessi, anche se furono proprio le autorità a insistere per realizzare una nuova area culturale cittadina. Il 2011 è stato l’anno in cui le rappresaglie del regime nei suoi confronti sono arrivate al più alto grado di sopraffazione: dopo la demolizione del sopracitato studio in gennaio, il 3 aprile Weiwei è stato arrestato all’Aeroporto di Pechino e condotto in una località tutt’ora ignota; contemporaneamente, circa cinquanta poliziotti sono entrati senza permesso in casa sua requisendo documenti, laptops e hard drives assieme a otto assistenti e alla moglie stessa dell’artista: motivo ufficiale di tale atto sarebbe stato, a detta del Ministero degli Affari Esteri, l’accusa di evasione fiscale ai danni dello Stato. L’incubo è durato fino al 22 giugno, quando Weiwei è stato rilasciato su cauzione: 81 giorni di detenzione durante i quali l’Europa e gli Stati Uniti d’America molto hanno fatto per protestare contro il suo insensato arresto. E’ di poco tempo fa l’ennesimo sopruso ai suoi danni: a novembre le autorità cinesi lo hanno accusato di detenzione e diffusione di materiale pornografico e, a questo proposito, hanno sequestrato sua moglie, costringendolo a pagare un’ammenda di 1 milione e 500 mila euro circa.

Ma nonostante tutto, Weiwei continua a resistere e lo fa dando libero sfogo a una creatività artistica molto apprezzata tanto in Europa quanto in America e Oceania: basti pensare che le sue personali hanno appassionato, dal 2008 a oggi, i cittadini di Gronigen, Sydney, Monaco di Baviera, Pechino, Tokyo, Glenside, Portland e Duisburg, mentre le sue collettive hanno toccato i templi dell’arte mondiale quali la 48esima Biennale di Venezia, la prima e la seconda Triennale di Guangzhou, la prima Biennale d’Arte Contemporanea Cinese di Montpellier, la Biennale di Busan, la quinta Triennale di Arte Contemporanea Asiatica e Pacifica, Documenta 12, la Biennale Internazionale 08 di Liverpool, la Biennale di Architettura di Venezia e la 29esima Biennale di Sao Paulo. La sua più coerente produzione artistica si lega  indissolubilmente ai suoi trascorsi personali col governo cinese: sono del 2007, per esempio, Fairytale e Template progetti presentati alla Documenta 12 di Kassel consistenti nell’ospitare, presso un ex dormitorio ricostruito dai Weiwei stesso, 1001 lavoratori, studenti, insegnanti e musicisti cinesi. Obiettivo dell’evento è quello di mettere in mostra le esperienze di vita, le storie e le vicissitudini di persone diverse ma unite contro le vessazioni del regime comunista. L’esibizione So sorry, invece, che si è svolta dal 2009 al 2010 all’Haus der Kunst di Monaco, critica le migliaia di scuse espresse recentemente da governanti, industriali e banche di tutto il mondo per le malefatte e le infrazioni a danno della società civile. Puntualmente, tuttavia, a tali scuse non segue un impegno reale da parte dei colpevoli: prova ne è l’installazione Remembering ideata da Weiwei e realizzata con i 9.000 zaini appartenuti agli studenti coinvolti nel terremoto di Sichuan, le cui vite sono andate sprecate nell’indifferenza della politica cinese. Ultima installazione degna di nota è stata Sunflower seeds, dal 2010 al 2011 alla Tate Modern Turbine Hall di Londra: il lavoro ha consistito nella realizzazione manuale di circa 100 milioni di semi di girasole di porcellana prodotti da 1.600 artigiani della città di Jingdezhen che, prima dell’avvento delle fabbriche, era il fiore all’occhiello della Cina nella lavorazione della porcellana. L’opera ha diverse chiavi di lettura: i semi rappresenterebbero l’unicità dell’individuo contro la massificazione alienante della società contemporanea, ma anche un velato riferimento a Mao Tse Tung, il girasole cinese.

di Clara Amodeo

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