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Diario di un manager musicale

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Diario di un manager musicale

Pubblicato il 31 gennaio 2013 by redazione

Logo_emerg_300dpiTra mille difficoltà ci provo!: Prima puntata.

Ho sempre pensato che, per quanto riguarda l’apprezzamento della musica, le persone si dividano in due categorie: quelle per cui la musica è un piacevole diversivo, un sottofondo, un qualcosa sul cui ritmo muoversi quando si va a ballare, e poi quelle per cui la musica è linfa vitale, quasi una religione, qualcosa da amare con la stessa intensità con cui si ama un genitore, un fratello o un figlio. Io ho sempre fatto parte di questa seconda categoria. Nel film Almost Famous, una ragazza dice: “…quelle non sanno nemmeno che vuol dire essere una fan. Amare così profondamente una stupida canzoncina, una musica, o tutto un gruppo, con così tanto amore che ti fa stare male”. Ecco, io sono così. I miei genitori mi hanno spesso ripetuto che, se fossi vissuta negli anni 70, sarei quasi sicuramente stata una groupie, e io non posso dar loro torto.

Non c’è quindi da stupirsi che il mio indirizzo di studi e la mia scelta di carriera siano ruotati intorno all’ambiente musicale.

Circa tre anni fa, mi sono trasferita a Los Angeles per studiare Music Business all’università. Due anni di corso e un anno di tirocinio dopo, sono tornata in Italia e ora sto cercando di inserirmi nell’industria musicale italiana.

I Miserabili

Un paio di mesi fa, ho risposto a un annuncio su internet di una band che cercava un manager. Lo ammetto, diventare manager di una band non era il mio sogno, o la mia carriera ideale, ma ci si adatta, e quindi sono diventata la manager de “I Miserabili”, una band che fonde insieme elementi di vario genere per creare un sound unico.

Rappresentare una band che propone solo ed esclusivamente canzoni originali non è per niente facile, soprattutto in un Paese come l’Italia dove, come ho già scritto nel mio precedente articolo, i proprietari dei locali non se la sentono di assumersi il rischio di far suonare gruppi che hanno in scaletta solo brani inediti. Nonostante abbia mandato decine di email, sto ancora aspettando dai locali una risposta positiva. In realtà, i proprietari dei locali non possono neanche essere biasimati: parlo con cognizione di causa quando dico che la disparità di pubblico tra un live di una cover band e quello di un gruppo che fa canzoni proprie è tristemente evidente. Qualche settimana fa, parlavo con il chitarrista dei Clairvoyants, la band italiana ufficiale di tributo agli Iron Maiden, e mi ha detto che quando suonano canzoni degli Iron Maiden non solo hanno decine di inaggi all’anno, ma riempiono senza problemi locali come l’Alcatraz di Milano, mentre quando vogliono proporre pezzi originali tratti dal loro album, oltre a suonare raramente, attirano poche decine di persone.

Festival Ammazza la vecchia: passaparola

Una sera, durante una pausa dalle prove, mentre ci stavamo lamentando proprio di questa tendenza che penalizza gli artisti che decidono di fare sentire la propria voce e non quella dei grandi, venuti prima di loro, ci è venuta l’idea di raccogliere adesioni tra altre band che, come noi, hanno difficoltà a suonare, perchè scelgono di non proporre brani cover, e organizzare una sorta di festival di protesta. Abbiamo intitolato l’iniziativa “Ammazza la vecchia”, e al momento stiamo cercando di spargere la voce e di coinvolgere più artisti possibili.

Abbiamo deciso di limitarci alle band rock, perchè è più facile trovare un pubblico disposto ad ascoltare cinque, sei, sette artisti dello stesso genere piuttosto che di generi diversi.

Il passo successivo sarà trovare uno spazio dove poter tenere questo evento, fissare una data e pubblicizzarlo abbastanza da ottenere una discreta affluenza di pubblico. La nostra speranza è quella di riuscire a riscuotere abbastanza successso da poterci presentare ai gestori dei locali dicendo “guardate, anche delle band che propongono pezzi originali riescono ad attirare il pubblico necessario per riempire un locale”.

Sono convinta che possiamo lamentarci finchè vogliamo che in Italia non ci sia spazio per i gruppi emergenti, che solo i raccomandati riescono a sfondare, e che gli imprenditori non aiutano gli artisti a crescere e a farsi conoscere, ma se non siamo noi a fare il primo passo, la situazione non migliorerà mai. E quindi noi abbiamo deciso di compierlo, questo primo passo, sperando che l’iniziativa trovi il seguito che merita.

Contest Emergenza Festival

Nel frattempo, I Miserabili sono stati selezionati per partecipare al contest “Emergenza Festival”, un concorso live internazionale per gruppi emergenti. La prima selezione si svolgerà il prossimo 10 febbario, allo Speakeasy di Rozzano (MI). Ogni gruppo ha a disposizione mezz’ora per proporre brani originali e cercare di accedere, tramite votazione popolare, alla fase successiva. La finale si svolgerà all’Alcatraz di Milano e la band vincitrice rappresenterà l’Italia in un festival rock in Germania. In palio c’è l’organizzazione di un tour europeo e la produzione professionale del proprio album. È un’occasione unica non solo di poter tentare la via del professionismo, ma anche per farsi conoscere dal pubblico, e quindi poter sperare di trovare ingaggi per il futuro.

Insomma, la vita di un musicista in Italia non è semplice, e non lo è nemmeno quella di una manager. Forse questa non sarà la carriera della mia vita, quella che mi darà il necessario per mantenermi, ma è un’inizio. Con un po’ di fortuna, il progetto “Ammazza la vecchia” andrà a buon fine e servirà per farci pubblicità, e magari anche il festival “Emergenza” ci porterà delle soddisfazioni, o sarà anche solo un buon trampolino di lancio. Come inizio, non mi sembra da scartare.

Male che vada, io e “I Miserabili” continueremo comunque ogni venerdì sera a ritrovarci in una sala prove per poter suonare la musica che abbiamo creato, a fare quello che amiamo di più. In fondo, la musica non dovrebbe essere in primo luogo una passione? E sicuramente, a noi quella non manca.

di Simonetta Pastorini

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Cacciatori di pirati digitali: chi sono i veri criminali?

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Cacciatori di pirati digitali: chi sono i veri criminali?

Pubblicato il 30 giugno 2012 by redazione

“La comunicazione è un processo sociale fondamentale, un bisogno umano primario e il fondamento di tutte le organizzazioni sociali. E’ centrale nella società dell’informazione.”

Il passo qui citato, viene riportato da una dichiarazione rilasciata durante il World Summit on the Information Society del 2003 e mai come oggi, visti i recenti sviluppi del progetto ACTA, a livello internazionale, e del SOPA negli USA (di fatto in sostituzione del DMCA, ora vigente), risulta così attuale.

Assange

In breve, questi progetti normativi costituirebbero una fortissima limitazione della libertà degli internauti di accedere e sfruttare informazioni online, opere condivise o database informatici, il tutto in nome di una fortissima protezione del diritto d’autore. Il che è reso ancor più paradossale dal fatto che proprio il copyright era nato come strumento di censura per gli autori! Già, infatti fu introdotto in Inghilterra nel XVI secolo in modo tale che la Corona potesse controllare cosa potesse essere pubblicato e cosa, invece, censurato! Quello che oggi viene difeso alla stregua di un diritto inviolabile, altro non era che uno strumento nelle mani dell’Autorità.

Procediamo per gradi. Sul filone dei recenti scandali informatici (Wikileaks, Megavideo, Megaupload e molti siti di file-sharing peer-to-peer solo per citarne alcuni), sono stati sviluppati a livello locale (visto che i progetti SOPA e PIPA sono stati presentati su base nazionale negli USA, rispettivamente dal deputato repubblicano della Camera dei Rappresentanti statunitense Lamar S. Smith e dal senatore Patrick Leahy) e poi estesi a tutela internazionale (vedi il recentissimo accordo commerciale dell’ACTA, siglato a Tokyo il 26 gennaio 2012 cui hanno aderito 22 dei 27 Paesi dell’UE), disegni di legge che rafforzerebbero notevolmente la proprietà intellettuale. Negli ultimi anni, infatti, si è sviluppato il trend internazionale di inasprimento delle pene, anche per quei reati che, di fatto, costituiscono ormai prassi consolidata dell’era digitale (come lo scaricare un brano musicale), al punto che è nata una sorta di “equiparazione” tra la violazione del copyright e il reato di furto.

Siamo arrivati a un punto di sanzionamento per cui la punizione non è più un deterrente per l’agente, ma svolge un ruolo di “punizione esemplare”, specialmente in caso di approvazione del disegno di legge del deputato Smith o del senatore Leahy, dove interi siti rischiano la rimozione soltanto per la violazione del copyright da parte di UNO solo dei contenuti: come dire “in un pacchetto di biscotti ce n’è uno guasto. Fermiamo l’intera produzione di dolci a livello federale!”. E a dirla tutta non si tratta neanche di grandi novità, visto che entrambi i progetti nascono dalle ceneri di altre due proposte: il DMCA (attualmente in vigore negli USA) e il COICA (presentato nel settembre 2010 e respinto). Stando a questi due progetti normativi, con il SOPA (Stop Online Piracy Act ) sarebbe consentito alle stesse detentrici di copyright di agire direttamente per impedire la diffusione di contenuti protetti e verrebbe seriamente limitata l’autonomia di siti che permettono agli utenti di caricare contenuti (senza andare troppo lontano: Facebook, Youtube, Blog….), in quanto anch’essi perseguibili, nonostante siano meri “contenitori” dell’informazione, al punto da essere considerati essi stessi “siti pirata” (come previsto dal PIPA, PROTECT IP Act).

Non solo! In previsione si avrebbe una proliferazione incontrastata di cause legali nascenti contro la violazione del diritto d’autore, dove siti minori verrebbero sopraffatti dalle grandi case detentrici del copyright, perchè incapaci di sostenere economicamente le spese legali. In aggiunta, questo progetto non si limiterebbe alla sola giurisdizione statunitense, ma estenderebbe il suo raggio d’azione anche a siti collocati al di fuori del territorio USA, ma accusati di consentire direttamente o indirettamente la violazione del diritto d’autore in uno degli Stati federali. Come? Oscurando tali siti, impedendone la visualizzazione dagli stessi motori di ricerca e compromettendone seriamente lo sviluppo economico, dal momento che le detentrici del copyright potrebbero rivolgersi a società di pagamenti online (Paypal e Mastercard solo per citarne alcune tra le più diffuse) vietando loro di fornire i propri servizi ai siti sospetti.

Per quanto riguarda la sfera europea, invece, un obiettivo simile, ma decisamente più mitigato, è stato perseguito tramite l’ACTA (Anti-Counterfeiting Trade Agreement ), accordo commerciale plurilaterale, spacciato per inasprimento ed estensione del TRIPs (Accordo sugli aspetti commerciali dei diritti di proprietà intellettuale, promosso dall’Organizzazione Mondiale del Commercio, ad oggi considerato uno degli accordi più completi in materia di proprietà intellettuale), cui hanno aderito 22 Paesi su 27 dell’UE, tra cui anche l’Italia, e fino ad ora firmato da 30 Paesi. Anche l’iter di approvazione di questo progetto è stato piuttosto travagliato, soprattutto per la questione della scarsa trasparenza che ne ha accompagnato tutte le fasi dei negoziati. Innanzitutto, questo accordo commerciale nasce con l’intento “dichiarato” di rafforzare i diritti della proprietà intellettuale a livello internazionale, in modo da opporsi al fenomeno ormai capillare nella nostra società della contraffazione (alimentare, di farmaci, film e musica) e della pirateria informatica. I negoziati nascono nel 2007, coinvolgendo 40 Stati, diverse associazioni e multinazionali, e vengono mantenuti segreti durante tutta la redazione del testo originale, al punto che lo stesso Presidente Obama vi appone il segreto di Stato per motivi di sicurezza nazionale. Già questo episodio, dovrebbe essere un campanello d’allarme, perché così facendo il Presidente degli Stati Uniti ha spacciato un trattato (che quindi ha valenza legislativa e deve passare all’attenta analisi e votazione del Senato) per un “accordo esecutivo” stipulato sul fronte internazionale (sollevando non pochi dubbi circa la sua legittimità costituzionale, dubbi esplicitati direttamente al Presidente Obama, in una sorta di lettera aperta, firmata da alcuni tra i più autorevoli giuristi americani del nostro tempo: http://infojustice.org/senatefinance-may2012 ). Senza troppi giri di parole, questo gruppo di accademici fa notare come l’iter legislativo non rispetti i principi fondamentali sanciti nell’Articolo 1 della Costituzione americana ed evidenzia come la questione non riguardi una mera violazione processuale (ossia l’approvazione da parte del Congresso ex-ante, invece che ex-post, della proposta di legge), ma vada ad intaccare lo stesso principio di separazione dei poteri, in quanto la sfera di competenza del potere esecutivo verrebbe dilatata da una disposizione che “clearly does not authorize the agreement “ (infatti, la Sezione 8113(a) del PRO-IP Act non autorizza la negoziazione di accordi internazionali, ma auspica, nella sottosezione f) programmi di assistenza tecnica ai governi stranieri nella lotta alla contraffazione e alle infrazioni tra le Agenzie dei vari Paesi). Ed è qui che interviene l’altro motivo di incertezza: sul modello e sulla portata di leggi nazionali in materia di proprietà intellettuale, verrebbero creati obblighi internazionali, con una sommaria delineazione anche dell’entità delle ipotetiche pene relative a ciascuna infrazione.

Quest’onda di incertezza non ha risparmiato nemmeno l’Unione Europea, sia dal punto di vista accademico (dove quesiti analoghi si hanno: http://www.statewatch.org/news/2011/jul/acta-academics-opinion.pdf), sia dal fronte interno della stessa Unione europea. Se a luglio 2011, la Direzione Generale per le Politiche Estere si limitava ad avviare uno studio conoscitivo su ACTA, in vista della ratifica dell’accordo, in cui si conclude “l’inopportunità” (inteso come “pochi vantaggi”) dell’accordo, a partire da maggio 2012 il suo approccio si fa molto più analitico, al punto che il Parlamento Europeo decide di far passare il testo legislativo sotto la scure di ben cinque commissioni (la Commissione Giuridica; la Commissione Industria; la Commissione che si occupa di libertà civili; la Commissione Sviluppo e da ultima la Commissione Commercio Internazionale). Il responso comune? Respingere l’accordo! Immancabile la critica e il disappunto delle grandi major e dei loro rappresentanti (da molti considerate le “burattinaie” che si celano dietro questo progetto e che hanno partecipato alla “negoziazione segreta” dell’accordo). Carole Tongue, parlamentare europea ed esponente del Gruppo del Partito del Socialismo Europeo ha commentato, il 21 giugno 2012, alla fine del vaglio della Commissione Commercio Internazionale: «L’economia della conoscenza in Europa occupa fino a 120 milioni di lavoratori, con mestieri che vanno dalla manifattura ai settori innovativi e creativi. Penso che queste persone siano deluse dal voto di oggi».

Di contro, si è dichiarato soddisfatto il deputato David Martin (membro del Gruppo dell’Alleanza Progressista di Socialisti e Democratici al Parlamento Europeo), responsabile di aver “affossato” l’accordo troppo vago, privo di definizioni precise, ma con sanzioni spropositate, che alla fine della votazione ha commentato: «Io critico il contenuto del trattato, non il fatto che l’UE tuteli la proprietà intellettuale. Se la Commissione proporrà sistemi e metodi più sensati per difendere la proprietà intellettuale, li sosterrò». Ora la decisione finale spetta al Parlamento Europeo, che a luglio si pronuncerà in seduta plenaria (dall’Agenda dell’Unione Europea fanno sapere tra il 2 e il 5 luglio 2012) sul testo integrale, senza possibilità di proporre emendamenti (si noti che in caso di risposta negativa, l’ACTA non sarà legge per l’Unione Europea!). La risposta, una sola: SI o NO.

 di Giulia Pavesi

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