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Arsenico e cancro alla vescica

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Arsenico e cancro alla vescica

Pubblicato il 28 gennaio 2016 by redazione

Decine di milioni di persone in tutto il mondo sono esposte a cibi contaminati dall’arsenico presente nell’acqua potabile. Questo problema si sta maggiormente sviluppando in Bangladesh, dove 50 milioni di persone sono esposte a livelli elevati di arsenico nell’acqua potabile, e in India dove l’esposizione riguarda 30 milioni di individui. Altri milioni di persone sono colpite in tutto il Centro e Sud America e in alcune zone d’Europa e Nord America.

 

ACQUA

ACQUA

Questo dato è allarmante e il crescente sviluppo di diversi tipi di tumore, in particolare nei primi anni di vita, non fa che peggiorare la situazione. I tumori in questione riguardano il cancro della pelle e quello al polmone, e ora il World Cancer Research Fund International ha pubblicato un rapporto che dimostra il legame tra l’esposizione a elevati livelli di arsenico e il cancro alla vescica. Questo supporta le precedenti conclusioni del World Cancer Research Fund, e quelle dell’Agenzia Internazionale per la Ricerca sul Cancro, che hanno classificato l’arsenico come cancerogeno di classe 1.

Il carcinoma della vescica colpisce, ogni anno, un gran numero di persone, con circa 430.000 nuovi casi registrati a livello mondiale nel 2012. Classificato al 9 ° posto tra i tipi di cancro più diffusi al mondo, è chiaramente tra quelli che desta maggior preoccupazione.

 

In che modo l’arsenico finisce nell’acqua potabile?
Per capire come impedire l’assunzione di questa sostanza cancerogena, bisogno innanzitutto scoprire come l’arsenico entra nel cibo e nelle bevande. L’arsenico è un elemento naturale presente nella crosta terrestre e in alcune zone, come le Ande del Cile, questo elemento è normalmente presente in quantità molto elevate, il che significa che le fonti d’acqua di quei territori, come i fiumi, possono essere contaminati da grandi quantità di arsenico. Altre volte, però, l’arsenico arriva a contaminare le falde d’acqua potabile anche a causa di fattori inquinanti agricoli ed industriali.

Il numero di individui che consumano arsenico attraverso l’acqua potabile è determinato dal luogo in cui vivono, che determina la fonte d’acqua potabile a cui si approvigionano. Alcune persone sono fortunati perché le quantità di arsenico presenti nel loro ambiente sono di lieve entità, ma per molte persone in tutto il mondo non è così.

 

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Cosa si può fare?

Naturalmente occorre prendere delle misure efficaci per ridurre la quantità di arsenico nell’acqua potabile per ridurre il rischio di sviluppare il cancro della vescica. L’Organizzazione Mondiale della Sanità, che riconosce questa necessità, suggerisce diversi modi con i quali paesi possono ridurre il consumo di arsenico, compreso l’uso di sistemi di rimozione dello stesso, che possono essere collocati nelle singole abitazioni, o con i quali è possibile controllare e filtrare la rete idrica, direttamente alla fonte. Questi includono l’ossidazione, lo scambio ionico e le tecniche a membrana, che permettono di rimuovere fisicamente l’arsenico dall’acqua. Tradizionalmente questi metodi erano molto costosi, ma le moderne tecnologie in fase di sviluppo li dovrebbe rendere più accessibili e praticabile anche per i paesi a basso e medio reddito.
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Tuttavia, anche se l’arsenico viene rimosso dall’acqua potabile, il problema non è affatto risolto. Antofagasta, Cile settentrionale, impianti di trattamento delle acque sono stati installati per ridurre i livelli di arsenico nella fornitura di acqua potabile per la città, che ha raggiunto l’incredibile valore di 860 microgrammi di arsenico per ogni litro di acqua potabile. Questo intervento ha ridotto l’esposizione all’arsenico, riportandolo al livello di sicurezza raccomandato di meno di 10 microgrammi per litro; tuttavia, non si è ancora risolto il problema di come controllare gli effetti irreversibili dell’arsenico su coloro che sono già stati esposti.

Si stima che gli effetti dovuti ad una forte esposizione all’arsenico possano influenzare il rischio di incorrere in cancro alla vescica anche dopo vari decenni che l’esposizione è cessata. Questo suggerisce che gli interventi non dovrebbero fermarsi alla sola riduzione di concentrazione di arsenico nell’acqua potabile, ma dovrebbero anche garantire che le persone che sono state esposte ad alti livelli di arsenico vengano inclusi in programmi di screening e in altre iniziative di prevenzione al cancro per i diversi decenni che seguono.
La necessità di un intervento urgente è visto anche in prospettiva di un futuro onere per la salute e il benessere delle popolazioni.

 

Da ricordare

L’arsenico presente nell’acqua potabile aumenta la sua concentrazione se l’acqua viene fatta bollire, per esempio per cuocere pasta, riso, verdure, caffè, tè ecc.

 

In molte zone italiane il livello consentito fino a qualche anno fa era superiore 10 mg.

Nelle zone rurali, dove spesso si attinge l’acqua da pozzi privati, il controllo di arsenico nell’acqua potabile è ora diventato obbligatorio e va eseguito ogni sei mesi.

Molti comuni si sono convenzionati con laboratori di analisi locali e a basso costo.

 

Le raccomandazioni del WCRF per prevenire il cancro

Oltre 150 ricercatori di tutta Europa hanno lavorato a una serie di linee guida per prevenire i tumori. Dalla loro collaborazione è scaturito un documento, pubblicato nel 2007, a firma del WCRF (World Cancer Research Fund, Fondo Mondiale della Ricerca sul Cancro). Si tratta di 10 semplici regole valide sia per tenere lontani i tumori per le persone sane, sia per prevenire le recidive per chi si è già ammalato. Queste indicazioni riguardano lo stile di vita, basandosi principalmente sulla promozione dell’attività fisica e di una corretta alimentazione.

Nel 2014 una commissione di esperti si è riunita a Lione e ha integrato le Raccomandazioni WCRF, pubblicando il Codice Europeo Contro il Cancro (European Code Against Cancer) formato da 12 raccomandazioni.

Divulgare queste indicazioni è fondamentale nell’ottica della diffusione di corretti stili di vita orientati alla prevenzione delle malattie cronico-degenerative.

 

pancia grassa

  1. Mantenersi snelli per tutta la vita.

Il BMI dovrebbe mantenersi verso il basso dell’intervallo considerato normale (quindi nella metà bassa fra 18,5 e 24,9 secondo l’OMS). Il BMI (in italiano Indice di Massa Corporea) si calcola con la seguente formula:

 

Massa (Kg) / altezza (m) al quadrato

 

La circonferenza corporea è un fattore che può incidere nello sviluppo del cancro al seno. Le donne prima della menopausa tendono ad accumulare riserve adipose sottocutanee attorno ai fianchi, cosce e natiche, determinando così un profilo anatomico detto ginoide o comunemente chiamato “a pera”. In periodo post-menopausale invece le donne acquisiscono una forma più simile a quella maschile, detta androide o “a mela”. Ciò è causato dalle modifiche del pattern ormonale-metabolico, con squilibrio del rapporto estrogeni/androgeni in favore dei secondi. La cessazione delle mestruazioni induce anche un cambiamento nella biosintesi degli estrogeni. Se prima della menopausa essi sono prodotti principalmente dall’ovaio, dopo la menopausa la produzione estrogenica origina quasi unicamente da una conversione a partire dagli androgeni ad opera delle aromatasi del tessuto adiposo addominale.

A sinistra un esempio di profilo androide (a mela). A destra il profilo ginoide (a pera)

 

Gli ormoni sessuali si legano nel sangue a speciali proteine dette Sex Hormone Binding Globulines (SHBG). Queste proteine riducono l’azione degli ormoni sessuali. Un eccesso di tessuto adiposo determina anche una riduzione della produzione di SHBG leganti gli ormoni sessuali e di conseguenza un eccesso di estrogeni liberi che agiscono sulle cellule del seno promuovendo la proliferazione.

 

sport

 

  1. Mantenersi fisicamente attivi tutti i giorni.

E’ sufficiente un impegno fisico pari a una camminata veloce per almeno mezz’ora al giorno; man mano che ci si sentirà più in forma sarà utile prolungare l’esercizio fisico fino ad un’ora o praticare uno sport o lavoro impegnativo. L’uso dell’auto per gli spostamenti e il tempo passato a guardare la televisione sono i principali fattori che favoriscono la sedentarietà nelle popolazioni urbane. Una strategia vincente può essere salire le scale a piedi in casa, invece che utilizzare l’ascensore.

 

  1. Limitare il consumo di alimenti ad alta densità calorica ed evitare il consumo di bevande zuccherate.

Sono generalmente ad alta densità calorica i cibi industrialmente raffinati, precotti e preconfezionati, che contengono elevate quantità di zucchero e grassi, quali i cibi comunemente serviti nei fast food. Si noti la differenza fra “limitare” ed “evitare”.

Il glucosio (uno dei parametri della SM è proprio la glicemia a digiuno) gioca un ruolo importante nello sviluppo del cancro al seno favorendo la selezione delle cellule maligne. Le cellule neoplastiche mostrano infatti un uso estensivo del glucosio per sostenere il proprio metabolismo, al contrario delle cellule “sane” che possono utilizzare anche carburanti alternativi. Questo effetto è denominato “effetto Warburg” e fu scoperto da un medico e fisiologo tedesco (Otto Heinrich Warburg) premio Nobel nel 1931.

Non sono raccomandate nemmeno le bevande dolcificate con edulcoranti a zero calorie, come aspartame, saccarina… Nemmeno la stevia, pur essendo un prodotto naturale, è utile per mantenere un corretto peso corporeo e un adeguato metabolismo degli zuccheri.

 

  1. Basare la propria alimentazione prevalentemente su cibi di origine vegetale, con cereali non industrialmente raffinati e legumi in ogni pasto e un’ampia varietà di verdure non amidacee e frutta.

I cereali integrali presentano molti vantaggi rispetto ai cereali raffinati. Il cibo integrale ha un indice glicemico più basso, mantiene più a lungo il senso di sazietà e aiuta a coltivare una corretta flora batterica intestinale. Nel nostro intestino infatti vivono circa 10mila miliardi di batteri, un numero molto simile al numero di cellule che compongono il nostro organismo!

Il chicco integrale inoltre è composto da 3 parti: EPIDERMIDE ricco di fibre, GERME ricco di vitamine e acidi grassi benefici ed ENDOSPERMA, ricco di amido. Nella raffinazione si perdono le prime due componenti e resiste solo l’endosperma.

Vi raccomandiamo di cominciare a introdurre gli alimenti integrali gradualmente nella vostra dieta. Per chi non è abituato, nei primi giorni potrebbe avvertire senso di gonfiore.

 

  1. Limitare il consumo di carni rosse ed evitare il consumo di carni conservate.

Le carni rosse comprendono le carni ovine, suine e bovine, compreso il vitello. Per chi è avvezzo a consumare carne, si raccomanda di non superare i 500 g a settimana.

Le carni rosse conservate comprendono anche i salumi. Spesso i salumi vengono addizionati di nitriti e nitrati con la funzione di conservanti. Essi infatti posticipano la data di scadenza e rendono di color rosso vivo l’alimento. Questi nitriti e nitrati nell’ambiente acido dello stomaco subiscono una serie di trasformazioni chimiche, fino a diventare nitrosammine con conclamata attività mutagena e cancerogena sulle cellule intestinali. Prosciutto crudo di Parma e prosciutto crudo San Daniele non contengono nitriti e nitrati, ma se ne sconsiglia comunque il consumo perché ricchi di sale.

 

  1. Limitare il consumo di bevande alcoliche.

Per chi ne consuma si raccomanda di limitarsi ad una quantità pari a un bicchiere di vino (da 125 mL) al giorno per le donne e a due per gli uomini, solamente durante i pasti. La quantità di alcool contenuta in un bicchiere di vino è circa pari a quella presente in una lattina di birra (330 mL) a o in un bicchierino di distillato o liquore.

 

  1. Limitare il consumo di sale (non più di 5 grammi al giorno) e di cibi conservati sotto sale. Evitare cibi contaminati da muffe (in particolare cereali e legumi).

In Europa si consumano giornalmente circa 12 grammi di sale al giorno, oltre il doppio del limite massimo consentito dalle Raccomandazioni WCRF. Il consumo eccessivo di sale accentua problemi di ipertensione ed è un fattore di rischio per patologie cardiovascolari e tumore allo stomaco.

Un’alternativa al sale per condire i vostri piatti è il gomasio, un mix fra semi di sesamo tostati ricchi di calcio e un pizzico di sale marino integrale. Nei corsi di cucina di Cascina Rosa (modulo “Cereali e legumi”) vi verrà mostrato come prepararlo in casa.

 

  1. Assicurarsi un apporto sufficiente di tutti i nutrienti essenziali attraverso il cibo.

Per quanto riguarda la prevenzione tumorale la supplementazione con alte dosi in pillola di una vitamina o sostanza antiossidante si è dimostrata fallimentare. Lo hanno dimostrato due grandi studi, uno sulla prevenzione del tumore al polmone tramite supplementazione di beta-carotene (ATBC study) e uno sulla prevenzione del tumore alla prostata tramite vitamina E e selenio (SELECT study). L’ipotesi era che l’assunzione di alte dosi di queste sostanze antiossidanti potesse prevenire l’insorgenza dei tumori (polmone e prostata), ma si verificò l’esatto opposto. Nel gruppo di intervento aumentarono i casi di cancro, tanto che entrambi gli studi dovettero essere chiusi in anticipo.

L’effetto sinergico di tutte le sostanze antiossidanti contenute in un frutto o in una verdura non può essere sostituito dall’integrazione in pillole. Si ipotizza che l’assunzione di elevate dosi di antiossidanti sintetici possa inibire il meccanismo di apoptosi (morte cellulare programmata) sulle cellule potenzialmente tumorali.

 

  1. Allattare il bambino al seno per almeno sei mesi.

 

  1. Non Fumare

 

Nei limiti dei pochi studi disponibili sulla prevenzione delle recidive, le raccomandazioni per la prevenzione alimentare del cancro valgono anche per chi si è già ammalato.

 

Le raccomandazioni del WCRF per prevenire il cancro

– Mantenersi snelli per tutta la vita.

– Praticare quotidianamente esercizio fisico.

– Limitare il consumo di cibi ad alta densità calorica ed evitare bevande zuccherrate.

– Basare l’alimentazione quotidiana prevalentemente su cibi di provenienza vegetale con almeno 5 porzioni al giorno di un’ampia varietà di verdure non amidacee e frutta, e con cereali non raffinati e/o legumi ad ogni pasto.

– Limitare il consumo di carni rosse ed evitare il consumo di carni conservate.

– Limitare il consumo di bevande alcoliche.

– Limitare il consumo di sale ed evitare cereali e legumi mal conservati.

– Soddisfare ii bisogni nutrizionali attraverso il cibo, senza integratori.

– Allattare i figli.

– Comunque non fumare.

 

Linkografia:

http://www.wcrf.org/int/research-we-fund/our-cancer-prevention-recommendations

 

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Argentina vs la multinazionale SUEZ Environment

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Argentina vs la multinazionale SUEZ Environment

Pubblicato il 10 novembre 2015 by redazione

Suez global-map

[…] “L’Argentina dovrà pagare i ricorrenti Suez, Agbar e Vivendi, individualmente, i seguenti ammontari come risarcimento per i danni causati in relazione dei loro investimenti in Argentina in violazione rispettivamente, dell’articolo 3 del BIT Francia-Argentina, e del’articolo IV del BIT Argentina-Spagna, come sancito nella Decisione sulla Responsabilità di questo Tribunale Arbitrale del 30 Luglio 2010”
[…] “L’importo totale del premio è di USD 223.043.289, più gli interessi da conteggiarsi a partire dal 1° novembre 2014. Il Tribunale prende atto dell’impegno assunto del ricorrente, come espresso nelle memorie di questo caso, di non chiedere un risarcimento in altri procedimenti legali per eventuali perdite già assegnate e pagate loro con questo lodo. 1° Aprile 2015”

 

Quanto riportato non è che la parte finale della lunga Sentenza arbitrale firmata dal Presidente del Tribunale Arbitrale Jeswald W. Salacuse nello scorso Aprile, culmine di un procedimento che ha visto riuniti i ricorsi di 4 società diverse, (la SUEZ, di cui sopra, è quella che ha ottenuto il risarcimento più corposo, 223 milioni di dollari che costituiscono poco più della metà dei quasi 405 milioni USD che l’Argentina è stata obbligata a pagare), e per il quale il 23 Ottobre appena trascorso è stata costituita una commissione Ad Hoc che dovrà valutare la richiesta di Annullamento del Risarcimento inoltrata dal Segretario Generale in data 23 Agosto; si tratta dunque di una situazione che può ancora riservare sorprese, malgrado la decisione sia stata resa provvisoriamente esecutiva, come la stessa SUEZ auspicava nel comunicato ufficiale col quale ha accolto la sentenza.

 

Stabilimento acqua

“Questa decisione rappresenta un importante passo nel processo di risoluzione di questa disputa. Il prossimo passo consiste nell’assicurarsi che la decisione dell’ICSID sia resa esecutiva.”

(Questo è quanto affermato dalla SUEZ nel suo comunicato stampa istituzionale diffuso subito dopo l’emissione della sentenza definitiva a 12 anni dall’inizio della vicenda.)

http://www.suez-environnement.fr/wp-content/uploads/2015/04/CP-SE_CIRDI_Arbitration-against-the-Argentine-Republic_VA.pdf

 

In realtà la vicenda, seppure di strettissima attualità, ha origini risalenti nel tempo, infatti per un’adeguata ricostruzione dei fatti si deve tornare al 1993 quando il governo argentino, guidato dal presidente Carlos Menem, nell’ambito di una delle più importanti opere di privatizzazione del settore pubblico che si siano mai viste, diede in concessione ad un consorzio guidato dalla multinazionale francese SUEZ, leader nei servizi di gestione di energia e acqua potabile, la gestione dell’area Metropolitana della capitale Buenos Aires. A quel tempo furono firmate da Menem concessioni riguardanti i settori della Sanità e della distribuzione e gestione delle Acque nel 28 % delle municipalità argentine, che consentì al settore privato di raggiungere una copertura del 60 % della popolazione totale.

 

consumo d'acqua nel mondo

Paesi in cui ci sono stati scontri per il controllo dell’acqua: 2010 – 2013.

Un recente studio dell’OMS ha mostrato che in Argentina il consumo di acqua potabile è oltre 10 volte superiore a quello consigliato (che ammonta a 50 litri al giorno per persona) e tra le cause, oltre ai consumi anomali si ritrovano le perdite della rete idrica; si capisce bene dunque la situazione in cui poteva vertere la popolazione nei decenni passati in cui le opere e le infrastrutture della rete non raggiungevano di certo gli standard attuali, o almeno questo è quanto potrebbe ipoteticamente affermare un difensore della SUEZ.

Nel periodo tra il 1993 e il 2006, infatti, la ricorrente dichiara che grazie a i suoi investimenti, quantificati in circa 200 milioni di dollari annui, contro i 25 della precedente gestione pubblica (naturalmente da rivalutare rispetto agli anni di cui si parla e all’allora potere d’acquisto), hanno ottenuto l’accesso alla rete idrica 2 milioni di abitanti, 1 milione dei quali sono stati collegati alla rete fognaria e nonostante l’assenza di una specifica previsione nel contratto che era relativo alle sole aree urbane centrali, oltre 100.000 abitanti della periferia e dei quartieri poveri sono stati connessi alla rete idrica nel solo biennio tra il 2003 e il 2005.

I problemi però cominciano con l’avvento del nuovo millennio, nel 2001, fino a divenire insormontabili quando la devastante crisi economica costrinse il presidente del Governo ad interim Rodríguez Saá a dichiarare lo stato di default su una parte di debito pubblico pari a 132 miliardi di dollari, quando ancora il dollaro era “La” valuta forte sul mercato internazionale: una cifra immensa!

 

Stabilimento depurazione acque.

 

Fu così che il governo, costretto dalla precaria situazione economica, dovette bloccare il prezzo delle tariffe per via amministrativa, col risultato (almeno secondo la versione della multinazionale) che gli obbiettivi sanciti nel contratto di concessione non poterono essere raggiunti in toto.
Il risultato di queste inadempienze, a seguito di un complesso tentativo di rinegoziazione del contratto, fu la rescissione dello stesso da parte del governo del Presidente Néstor Kirchner il quale inoltre addusse come cause della rescissione anche un alto livello di nitrato contenuto nell’acqua e altre lacune nell’erogazione delle prestazioni specifiche.

Si trattava evidentemente e primariamente di una misura d’urgenza per far fronte a una situazione di gravità eccezionale come era quella di insolvenza in cui era incappata la Nazione solo pochi anni prima, la cui naturale conseguenza fu la costituzione di una società pubblica, la Agua y Saneamientos Argentino (AySA) cui è stata data in concessione la gestione della rete idrica e fognaria e che appartiene per il 90% allo Stato e per il 10 % ai lavoratori. I risultati operativi di questa società poi, sono stati tali da rappresentare il miglior esempio di gestione pubblica raffrontata alla precedente gestione privata: la qualità della rete e dei servizi, grazie ai nuovi investimenti, è aumentata a tal punto da rendere l’Argentina (assieme alla Colombia) il Paese sudamericano con la maggiore copertura territoriale di acqua potabile, con il suo 96% contro una media del 91%.

E’ così che la portata di una sentenza che nella sostanza nega alla popolazione di uno Stato di riappropriarsi della gestione di un bene primario di capitale importanza come l’acqua, per giunta a fronte di una Crisi di dimensioni epocali come quella del 2001, continua a stimolare dibattiti a livello internazionale sulla opportunità e sulla giustizia di una tale decisione.
Nel mirino così è finito il sistema dell’ICSID (International Centre for Settlement of Investment Disputes).
Il Centro internazionale per il regolamento delle controversie (ICSID) relative ad investimenti è un’istituzione del Gruppo della Banca mondiale con sede a Washington; fondato nel 1966 nell’ambito della cosiddetta Convenzione di Washington esso ha sostanzialmente funzione di Tribunale arbitrale per la risoluzione di controversie tra Stati contraenti e cittadini di altri Stati contraenti in applicazione di un codice di regole da parte di una commissione giudicante che viene di volta in volta nominata per ogni differente giudizio.

L’ICSID non è che uno dei numerosi Tribunali Arbitrali previsti da varie Convenzioni internazionali e che sono deputati a giudicare controversie in altri settori, ma le modalità operative e le criticità del sistema adottato sono in vero del tutto simili.

Tali Corti Arbitrali infatti, sono istituite fondamentalmente perché possano essere adìte dagli investitori commerciali e mai dagli stati stessi e soprattutto, a discapito delle corti nazionali che possono fare riferimento, (perlomeno nella maggior parte degli stati avanzati) a corpose normative di rango costituzionale a tutela di diritti fondamentali quali la tutela della salute, dell’ambiente e ancor più di riflesso, dello sviluppo sostenibile; ciò non vale per le suddette corti, le quali devono fondare le loro decisioni non su leggi, bensì su trattati commerciali, i quali, come i BIT (Bilateral Investment Treaty) da cui si traggono le norme decisive per il caso “SUEZ c. Argentina”.

I BIT sono dei trattati bilaterali d’investimento istituiti tramite accordi di carattere commerciale che stabiliscono i termini e le condizioni per gli investimenti privati da parte di cittadini e aziende di uno stato nel territorio di un altro stato ed evidentemente sono studiati per tutelare fondamentalmente gli investitori e gli operatori commerciali e dunque prevedono tutele di carattere generale quali:

• l’eguaglianza di trattamento fra le società straniere e le società nazionali;
• garanzie di stabilità negli investimenti che non possono essere espropriati senza adeguato compenso;
• la libertà per l’impresa di trasferire il proprio capitale.

Ma nella maggior parte dei casi nulla prevedono relativamente a situazioni critiche e specificamente relative a diritti fondamentali dell’uomo come quella in oggetto permettendo così in un certo qual modo di scavalcare le normative nazionali.
Un tale status quo ha portato, negli ultimi anni, ad una vera e propria inflazione di queste cause arbitrali, al punto che dal 2003 al 2012 si è svolto l’80% dei ricorsi totali di questo genere, sebbene tale sistema risalga nel complesso agli anni ’50.

 

Fig 2 IIA issues note feb 2015

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Il risultato è stato che in Argentina sono stati depositati ben 53 ricorsi (record mondiale per distacco, col Venezuela che si classifica secondo con 36 denunce) e si può rilevare facilmente, andando a scorrere la lista dei Paesi maggiormente chiamati d’innanzi a queste Corti, che si tratta di Nazioni che hanno in comune il fatto di aver adottato politiche economiche tali da rompere con le logiche economico-finanziarie dominanti, magari soltanto per far fronte ad una urgenza, come nel caso argentino, e dunque senza particolari aspirazioni rivoluzionarie; mentre manco a dirlo i Paesi di origine degli investitori che hanno adito le Corti sono perlopiù quelli maggiormente industrializzati ed avanzati.

Questo sistema è lo stesso che verrebbe introdotto qualora fosse approvato il “TTIP” (TransatlanticTrade and Investment Partnership), con la clausola “ISDS” (Investor-state dispute settlement) fortemente avversata anche a causa delle risultanze di alcuni procedimenti apparsi particolarmente iniqui nella loro decisione come i casi “Vattenfall vs. Germania” e Philip Morris vs. Uruguay.

Per queste ragioni l’approvazione di tale Accordo mette di fronte ad una scelta chiara: una via che persegua la tutela degli investimenti e del loro profitto ad ogni costo, quand’anche siano in gioco beni universalmente riconosciuti come fondamentali; ed un’altra via, che riconsegni agli Stati quella Sovranità nazionale che consente (o almeno dovrebbe) una più attenta tutela delle libertà e dei diritti fondamentali, che sembrano essere messi fortemente in dubbio da una struttura giuridica e normativa siffatta.

di Alberto Corsaro

 

Linkografia:

http://investmentpolicyhub.unctad.org/Blog/Index/34

http://www.lanueva.com/sociedad/808666/en-argentina-se-consume-10-veces-mas-agua-por-persona-de-lo-que-aconseja-la-oms.html

http://finanza.lastampa.it/Notizie/0,700159/Buenos_Aires_dovr%EF%BF%BD_pagare_405_mln_$_a_Suez.aspx?refresh_ce

http://www.ieco.clarin.com/fallo-CIADI-Suez-Aguas_Argentinas-sentencia-privatizaciones_0_1336066677.html

http://www.bloomberg.com/news/articles/2015-04-09/suez-wins-405-million-arbitration-ruling-in-argentina-dispute

http://en.mercopress.com/2015/04/10/argentina-ordered-to-pay-405m-dollars-to-nationalized-suez-water-works

http://www.theguardian.com/global-development/2015/may/21/privatisation-public-services-sustainable-development-investor-state-dispute-settlement#img-1

http://www.infonodo.org/node/40370

https://www.monde-diplomatique.fr/cartes/differends-investissements

https://it.wikipedia.org/wiki/Crisi_economica_argentinahttps://es.wikipedia.org/wiki/Agua_y_Saneamientos_Argentinos#Empresa_estatal

https://en.wikipedia.org/wiki/Water_privatization_in_Argentina#cite_note-14

https://en.wikipedia.org/wiki/Water_supply_and_sanitation_in_Argentina#cite_note-16

https://icsid.worldbank.org/ICSID/StaticFiles/basicdoc/partA-chap04.htm

https://icsid.worldbank.org/apps/icsidweb/cases/Pages/casedetail.aspx?caseno=ARB/03/19&tab=PRD

http://www.suez-environnement.fr/wp-content/uploads/2015/04/CP-SE_CIRDI_Arbitration-against-the-Argentine-Republic_VA.pdf

http://www.italaw.com/sites/default/files/case-documents/italaw4365.pdf

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Acqua in città: crescono i consumi a spese dell’ambiente

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Acqua in città: crescono i consumi a spese dell’ambiente

Pubblicato il 28 settembre 2012 by redazione

via_simetoCon la crescita della popolazione, l’urbanizzazione e lo sviluppo economico, la domanda di acqua dolce nelle aree urbane di tutta Europa è in forte aumento. Allo stesso tempo il cambiamento climatico e l’inquinamento stanno influenzando anche la disponibilità di acqua pulita per chi abita nelle città. Come possono i grandi centri europei continuare a fornire di acqua dolce pulita i propri residenti?

Nel mese di luglio 2011 le intense piogge hanno allagato alcune zone di Copenaghen. I sistemi di drenaggio urbano non sono stati in grado di gestire la quantità d’acqua intensa, che in due ore superava 135 mm. E come se non bastasse, poco dopo le inondazioni, gran parte dell’acqua potabile della città è stata contaminata a causa delle riparazioni resesi necessarie lungo i viadotti principali. Problemi di questo tipo si verificano anche in altre città.

Più di tre quarti dei cittadini europei vive in aree urbane e necessita di acqua pulita. Circa un quinto del totale di acqua dolce estratta in Europa alimenta i sistemi d’acqua pubblica – acqua è destinata a famiglie, piccole imprese, alberghi, uffici, ospedali, scuole e anche industrie.

Garantire un rifornimento costante di acqua pubblica pulita non è un compito semplice. Il sistema idrico dipende da molti fattori, inclusi popolazione e dimensione del nucleo familiare, i cambiamenti delle caratteristiche fisiche delle superfici terrestri, il comportamento dei consumatori, le richieste dei settori produttivi (legati ad esempio alle attività turistiche), la composizione chimica dell’acqua e la stessa logistica di stoccaggio dell’acqua e il suo trasporto.

E poi ci sono le nuove sfide del cambiamento climatico che includono improvvise inondazioni, ondate di caldo, alternate a periodi di carenza idrica.

Per prevenire le crisi idriche urbane, abbiamo bisogno di gestire le risorse, in modo efficace, in ogni fase: dalla fornitura di acqua pulita, ai diversi impieghi che ne devono fare coloro che la consumano.

Ciò potrebbe comportare una ridotta disponibilità di acqua e la necessità di dover trovare nuovi sistemi di raccolta e un diverso modo di usarla. La gestione dell’acqua deve integrarsi maggiormente nella più ampia gestione urbana, tenendo conto delle caratteristiche del contesto locale.

Pagare per l’acqua che utilizziamo
I progressi tecnologici e i nuovi sistemi di tariffazione, hanno già dimostrato da soli di ridurre in modo significativo la quantità di acqua utilizzata da parte delle famiglie, che corrisponde al 60-80% dell’acqua pubblica destinata a tutta l’Europa. I miglioramenti tecnologici raggiunti negli elettrodomestici, come lavatrici e lavastoviglie, per esempio, hanno contribuito a ridurre l’utilizzo di acqua senza che fosse necessario cambiare i propri comportamenti o essere consapevoli delle questioni idriche aperte.

Miglioramenti più significativi si possono poi ottenere modificando le modalità d’uso dell’acqua destinata all’igiene personale, che rappresenta attualmente il 60% del consumo di acqua domestico. Dispositivi sostitutivi dei serbatoi delle toilette, per esempio, forniscono un modo economico e semplice per ridurre l’acqua utilizzata per ogni litro di scarico. Piccoli accorgimenti per i sistemi doccia, simili a quelli per gli scarichi, possono far risparmiare dell’altra acqua.

Come indicato nelle direttive europee, nel quadro acque, legando il prezzo dell’acqua al volume consumato se ne incentiva un uso più sostenibile. In Inghilterra e nel Galles, le persone che vivono in proprietà monitorate con questo rapporto utilizzano in media il 13% in meno di acqua di quelle che pagano un costo forfettario.

Accumulo-acqua-piovanaRiutilizzare le acque non potabili
Solo il 20% dell’acqua utilizzata nei settori commerciali, che si approvvigionano a un sistema idrico pubblico, viene effettivamente consumata. Il restante 80% viene restituito all’ambiente, soprattutto come acque reflue trattate.

Nelle città, le superfici sigillate dal cemento, in genere incanalano le precipitazioni alle reti fognarie dove si uniscono alle acque reflue. Questo impedisce alla pioggia di infiltrarsi nel terreno e di rimanere così a nostra disposizione per un uso diversificato nel tempo. Le acque piovane e quelle reflue, prima di essere restituite ai fiumi, spesso passano attraverso gli impianti di trattamento delle acque, di solito lontano dalle città. Con alcune modifiche ai sistemi idrici urbani, sia l’acqua piovana sia quella di scarico, meno inquinate, potrebbe essere restituite agli utenti urbani.

energie sostenibiliLe acque grigie.

Con il termine acque grigie si intendono tutte le acque reflue domestiche, tranne quelle del WC, provenienti da bagni, docce, lavabi e dalla cucina. Questa acqua può essere trattata direttamente in sito o lasciata così com’è per un uso di qualità inferiore a quella richiesta per l’acqua potabile, come per esempio per lo scarico dei servizi igienici.

Le città potrebbero anche raccogliere le acqua piovane che scorrono giù dai tetti, o in strada, in appositi contenitori di ricezione e poi ipiegarle, per usi non potabili, come sciacquoni, autolavaggi o giardinaggio oppure incanalarle direttamente in serbatoi di stoccaggio di acque sotterranee. Sistemi come questi possono essere installati nelle residenze domestiche o commerciali e non richiedono cambiamenti particolari nelle abitudini dei consumi quotidiani.

Tuttavia, vi sono altri accorgimenti che si possono attuare per migliorare gli approvvigionamenti d’acqua prima che questa raggiunga i locali domestici.

Trattenere l’acqua nelle fontane, facilitare la sua infiltrazione del terreno o l’accumulo nelle cisterne non è solo vantaggioso economicamente, ma offre anche degli spazio ricreativi per i residenti locali e un benefico effetto di raffreddamento nei periodi di calura estiva.

Ridurre “le perditae di rubinetto”
Le perdite di acqua causate di impianti inadeguati può essere anche considerevole. In Croazia, quasi il 40% della fornitura totale di acqua si perde nella rete di trasporto dell’acqua stessa.

Queste perdite possono essere prevenute attraverso il rinnovo delle reti stesse e con una costante manutenzione, ma anche attraverso l’uso di nuove tecnologie. Esistono sistemi che impiegano sensori in grado di riconoscere e localizzare il rumore causato da una perdita d’acqua o dispositivi che utilizzano segnali radio per rilevare la presenza di acqua corrente. Applicando queste tecnologie ai sistemi di acqua pubblica si riducono molto le perdite d’acqua e si riescono a coprire i fabisogni straodinari. L’unico problema aperto resta il costo economico, perché il rinovo delle reti idriche e delle infrastrutture, richiede investimenti significativi.

È tempo di agire

Il raggiungimento di un uso più sostenibile delle risorse idriche urbane pubbliche richiede non solo l’attuazione di misure come quelle sopra citate, ma anche la sensibilizzazione dell’opinione pubblica sui problemi di conservazione dell’acqua.

Gli strumenti disponibili per informare i consumatori sono diversi e includono siti web, programmi scolastici, opuscoli di enti locali e di mass media.

Il marchio di “qualità ecologica” stampigliato sugli elettrodomestici e le eco-certificazione degli alberghi, per esempio, può svolgere un ruolo importante nella sensibilizzazione, aiutando i consumatori a fare scelte informate finalizzate ad una maggior efficienza idrica e alla conservazione dell’acqua.

Un uso realmente sostenibile delle risorse d’acqua dolce non può essere raggiunto senza ulteriori miglioramenti per la sostenibilità dell’uso delle acque urbane.

(dal sito dell’Agenzia Europea per l’Ambiente – 13 Settembre 2012)

a cura di Adriana Paolini

 

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Sintesi del Rapporto Annuale 2012: La situazione del Paese Italia

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Sintesi del Rapporto Annuale 2012: La situazione del Paese Italia

Pubblicato il 02 giugno 2012 by redazione

Letta dal Presidente dell’Istat Enrico Giovannini, martedì 22 maggio 2012 a Roma nella Sala della Lupa, di Palazzo Montecitorio.

Signor Presidente della Camera dei Deputati, Rappresentanti del Governo, Autorità, Signore e Signori, oggi l’Istituto nazionale di statistica presenta il ventesimo Rapporto annuale sulla situazione del Paese, prodotto della elevata competenza e dell’assiduo impegno di tutto il suo personale. Il Rapporto, progettato per fornire uno strumento fondamentale di riflessione sulle condizioni sociali, economiche e ambientali del nostro Paese, e quest’anno profondamente rinnovato nella struttura e nella forma grafica, ha influenzato significativamente la storia dell’Istat e di molti dei suoi attuali dirigenti. Esso ha rappresentato non solo una straordinaria palestra per la formazione di tanti ricercatori, ma anche una continua fucina di nuove idee, che sono poi divenute parte della produzione corrente di informazioni statistiche e di analisi. Inoltre, se nel 1993 il Rapporto rafforzò la caratteristica di ente di ricerca dell’Istat (che la legge aveva già riconosciuto quattro anni prima), la sua presentazione, a partire dal 1998, presso la Camera dei Deputati rende evidente il ruolo di servizio a tutta la società italiana svolto dall’Istituto.

Naturalmente, l’impegno dell’Istat va ben oltre la predisposizione del Rapporto annuale.

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Nel 2011 è stato realizzato, in modo fortemente innovativo e con l’ausilio delle tecnologie più avanzate (i questionari di oltre 21 milioni di persone sono stati compilati via Internet), il 15° Censimento generale della popolazione e delle abitazioni, i cui risultati preliminari sono stati diffusi qualche settimana fa. L’anno trascorso è stato anche quello in cui l’utilizzo delle statistiche prodotte dall’Istituto ha avuto una crescita senza precedenti: la quantità di Gigabyte scaricati dal sito www.istat.it è più che raddoppiata in due anni, così come la diffusione dei file di microdati per la ricerca. L’attenzione dei media classici per l’informazione statistica ha raggiunto il massimo storico e la presenza dell’Istat sui Social Network sta crescendo rapidamente, così come l’uso dei servizi on-line orientati ai cittadini e alle imprese. Nell’anno passato l’Istat ha anche operato una profonda riorganizzazione interna, realizzato diversi progetti innovativi di carattere sia statistico sia gestionale, avviato l’attività della Scuola Superiore di Statistica e Analisi Sociali ed Economiche. Secondo una rilevazione effettuata per nostro conto da un autorevole istituto privato, nell’aprile del 2012 il 76 per cento della popolazione ha dichiarato di avere fiducia nell’Istat, con un aumento di tre punti percentuali rispetto all’anno scorso. Questi risultati sono stati ottenuti nonostante la riduzione del finanziamento statale, il blocco delle assunzioni e il taglio alle spese di formazione. Ma proprio perché quello attuale è un momento di scelte difficili per il Paese, e la disponibilità di informazioni affidabili sul contesto economico e sociale su cui si va ad operare assume importanza cruciale, credo sia arrivato il momento che, pur tenendo conto delle difficoltà della finanza pubblica, si investano sull’Istat e sulla statistica ufficiale risorse adeguate e non la metà di quanto speso in altri paesi europei, come la Francia. Peraltro, le risorse rese disponibili, a legislazione vigente, per il 2013 non saranno in grado di assicurare il funzionamento dell’Istituto. Il caso della Grecia ha reso drammaticamente evidente cosa accade quando, nella società dell’informazione, un istituto nazionale di statistica non fornisce dati affidabili. Sono sicuro che il Governo e il Parlamento, anche alla luce dei risultati raggiunti in questi anni in termini di innovazione ed efficienza, che pongono l’Istat all’avanguardia sul piano internazionale, non consentiranno che il nostro Paese veda la propria credibilità ridursi a causa dell’impossibilità di produrre le informazioni statistiche richieste dalle normative comunitarie e nazionali.

 

La difficile situazione del Paese

Nell’estate del 2011 il carattere strutturale della crisi è stato percepito dall’opinione pubblica.

Il 2011 ha segnato il ritorno dell’instabilità finanziaria per l’area dell’euro, che mette tuttora a rischio i fondamenti stessi dell’Unione Monetaria Europea: in tale contesto, l’Italia ha affrontato una delle crisi più difficili della sua storia. Negli ultimi mesi si è verificato un netto cambiamento nella psicologia collettiva del Paese e nello scenario politico, con conseguente ridisegno della politica economica e sociale, fattori questi destinati a incidere significativamente sulle prospettive a breve e a medio termine. La presa di coscienza del carattere strutturale della crisi è stata per l’Italia improvvisa e, per molti, traumatica. Gli interventi di politica economica che si sono succeduti in modo convulso nell’estate del 2011 hanno cercato di fronteggiare una crescente sfiducia nei confronti della sostenibilità del debito pubblico italiano e della capacità del nostro Paese di soddisfare le condizioni per restare nell’Unione Monetaria. L’adozione di misure drastiche, volte ad accelerare il percorso verso l’azzeramento del deficit pubblico e così rendere più sostenibile il debito sovrano ha ridotto il rischio del collasso finanziario, dando tempo all’Italia di avviare riforme di natura strutturale, coerentemente con gli impegni assunti in sede europea. In effetti, il 2011 si era aperto nel segno della prosecuzione della fase di ripresa ciclica delle economie sviluppate e della intensa crescita di quelle emergenti. Nel nostro Paese, l’aumento delle esportazioni e la tenuta dei consumi era accompagnata da una timida ripresa degli investimenti. Anche se già a partire dalla seconda metà del 2010 la produzione industriale aveva mostrato segni di rallentamento, nel secondo trimestre dell’anno scorso il Prodotto interno lordo (Pil) era cresciuto dell’uno per cento su base tendenziale. Il recupero della domanda di lavoro, dopo aver condotto ad un aumento delle ore lavorate e a un parziale riassorbimento della Cassa integrazione guadagni (Cig), sembrava destinato a trasformarsi in una crescita occupazionale. Il tasso di disoccupazione si era stabilizzato a un livello inferiore a quello medio europeo e il clima di fiducia delle imprese e delle famiglie stava migliorando.

Nuova recessione a partire dal terzo trimestre …e rialzo della disoccupazione

Le difficoltà emerse sui mercati finanziari hanno indotto, a partire dall’estate, un brusco peggioramento delle prospettive, influenzando i comportamenti delle imprese e delle famiglie. Le prime hanno rivisto al ribasso i piani di produzione e di investimento. Le seconde hanno subito gli effetti immediati dei provvedimenti di natura fiscale, nonché quelli futuri legati alla riforma delle pensioni e del mercato del lavoro: alla riduzione del reddito disponibile attuale, già diminuito significativamente negli anni precedenti, si è aggiunta una contrazione di quello atteso per gli anni futuri. Il clima di fiducia è peggiorato e, analogamente a quanto avvenne nella crisi degli anni 1992-1993, la discesa dei consumi non si è fatta attendere, risentendo anche di un aumento del risparmio per fini precauzionali. A partire dal terzo trimestre del 2011 il prodotto ha ripreso a diminuire e la discesa si è accentuata nel trimestre successivo e nel primo di quest’anno. La domanda estera netta è stata l’unica componente che ha sostenuto, e tuttora sostiene, la dinamica del prodotto grazie alla buona performance delle esportazioni, soprattutto sui mercati extra-europei, in presenza di una forte contrazione delle importazioni. Si moltiplicano i segnali di difficoltà del mondo delle imprese, anche a causa del ritardo nei pagamenti da parte delle pubbliche amministrazioni e di fenomeni di credit crunch, i quali, in crescita nei primi mesi di quest’anno, hanno interessato di più le piccole imprese e coinvolto anche unità economicamente solide.

A fronte di un leggero aumento (0,4 per cento) dell’occupazione totale, nell’anno passato quella straniera è cresciuta dell’8,2 per cento (pur in presenza di una diminuzione del tasso di occupazione specifico) e quella italiana è calata dello 0,4 per cento. È aumentata l’occupazione femminile (+1,2 per cento) ed è rimasta sostanzialmente stabile quella maschile. Sono diminuite l’occupazione giovanile (-2,8 per cento) e quella dei 30-49enni (-0,5 per cento), mentre è aumentata (+4,3 per cento) quella degli ultracinquantenni, anche per effetto della modifica dei requisiti per accedere alla pensione. L’occupazione a tempo indeterminato e a tempo pieno è diminuita dello 0,6 per cento, a fronte di aumenti del 5,3 per cento di quella a termine (incluse le collaborazioni) e del due per cento di quella a tempo parziale, in gran parte “involontaria” (cioè accettata in mancanza di un impiego a tempo pieno). La disoccupazione ha ripreso a salire a partire dall’autunno, a seguito di una maggiore partecipazione al mercato del lavoro, soprattutto delle classi giovanili: oltre il 30 per cento dei giovani attivi risulta ora disoccupato. Anche il ricorso alla Cig è aumentato nei primi mesi di quest’anno.

Risale l’inflazione per energia e alimentari

L’inflazione è rimasta elevata per tutto il 2011, sospinta dall’aumento dei prezzi dei prodotti energetici e alimentari importati; nei primi mesi del 2012 risulta stabile al 3,3 per cento, con un allargamento del differenziale inflazionistico nei confronti dell’area dell’euro. L’aumento dei prezzi dei prodotti acquistati con maggior frequenza (4,7 per cento ad aprile) è stato nettamente più accentuato di quello medio. Peraltro, nel 2011 l’industria, il commercio e una parte consistente del terziario hanno reagito alla contrazione della domanda con una riduzione dei margini di profitto, mentre il settore finanziario e dei servizi alle imprese li hanno mantenuti invariati, dopo la forte diminuzione subita nel 2010.

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Le manovre hanno ridotto il deficit pubblico e contenuto la crescita del debito

Le diverse manovre volte al riequilibrio della finanza pubblica hanno determinato, nel 2011, un indebitamento netto delle pubbliche amministrazioni (3,9 per cento del Pil) inferiore di 0,7 punti percentuali a quello del 2010 e leggermente più basso (0,2 punti) di quello medio dell’area dell’euro; solo la Germania, tra i grandi paesi, ha conseguito un risultato migliore. Alla contrazione dell’indebitamento ha contribuito un contenimento dell’incidenza della spesa

pubblica sul Pil (dal 50,5 al 49,9 per cento), cui si è accompagnato un leggero aumento del rapporto tra entrate e prodotto (dal 46 al 46,1 per cento); la pressione fiscale complessiva è scesa leggermente (dal 42,6 al 42,5 per cento), mentre il carico fiscale e contributivo corrente sulle famiglie consumatrici è diminuito dal 29,6 al 29,3 per cento. Il rapporto debito pubblico/Pil è salito al 120,1 per cento, con un aumento di 1,5 punti percentuali rispetto ad un anno prima. Nel confronto con il periodo precrisi (cioè il 2007), tale rapporto è aumentato di 17 punti percentuali in Italia e di quasi 21 nella media dell’eurozona.

Il reddito reale delle famiglie cala per il quarto anno consecutivo, e la propensione al risparmio scende all’8,8 per cento

In questo quadro, e in presenza di una dinamica retributiva in ulteriore deciso rallentamento, il reddito disponibile delle famiglie in termini reali è diminuito nel 2011 (-0,6 per cento) per il quarto anno consecutivo, tornando sui livelli di dieci anni fa: in termini pro-capite esso è inferiore del quattro per cento al livello del 1992 e del sette per cento nei confronti del 2007. In quattro anni la perdita in termini reali (a prezzi 2011) è stata pari a 1.300 euro a testa e la propensione al risparmio delle famiglie consumatrici è passata dal 12,6 all’8,8 per cento.

 

1992 e 2011: due crisi a confronto, due Italie a confronto

Le difficoltà dell’Italia derivano anche da fragilità del suo sistema socio-economico

Guardando all’attuale situazione economica dell’Italia e riandando con la memoria al biennio 1992-93, non si può non provare un senso di déjà vu. Allora, l’instabilità dei mercati finanziari europei fu originata dalla mancata ratifica del Trattato di Maastricht da parte della Danimarca e dalle ombre che essa gettava sull’avvio dell’Unione Monetaria; oggi, dalla scoperta dei trucchi contabili della Grecia e dalla lenta e insufficiente reazione dei paesi che quell’Unione hanno, nel frattempo, realizzato. Venti anni fa si discuteva dei compiti della futura Banca Centrale Europea (BCE), nonché dei vincoli da imporre ai vari paesi per assicurare la stabilità del sistema; oggi, si discute della necessità di completare il quadro istituzionale esistente e di assicurare la sostenibilità a lungo termine della finanza pubblica procedendo alla modifica delle Costituzioni nazionali. Ma non si può non sottolineare come la debolezza dell’Italia abbia, ora come allora, forti origini interne, derivanti dall’elevato debito pubblico e da evidenti fragilità del sistema socio-economico e di quello politico, che ne mettono a rischio la solvibilità e la credibilità internazionale, oltre che il benessere economico dei suoi cittadini. Qualcuno potrebbe pensare che nulla sia cambiato in questi venti anni. Ma non è così. In questo arco temporale la società e l’economia hanno subito, più la prima della seconda, trasformazioni importanti, ma evidentemente insufficienti per evitare il ripetersi della storia, anche se sotto forme diverse, o per ridurre strutturalmente le forti differenze sociali, territoriali, generazionali e di genere che continuano a caratterizzare l’Italia.

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Aumenta la popolazione, grazie alla componente straniera, triplicata negli ultimi dieci anni

I primi risultati del recente Censimento evidenziano un aumento della popolazione residente rispetto al 1991 del 4,7 per cento: si tratta di 2,7 milioni di persone in più, quasi tutte straniere. Dal 2001 la popolazione straniera in Italia è quasi triplicata e, a fronte della sostanziale stabilità di quella italiana, rappresenta ora il 6,3 per cento del totale. Per molti stranieri, se non per tutti, si è realizzato un significativo processo di integrazione e di radicamento: quasi la metà degli immigrati non comunitari ha un permesso di soggiorno a tempo indeterminato e se nel 1992 si erano avute circa 4 mila acquisizioni di cittadinanza italiana per matrimonio e naturalizzazione, nel 2010 queste sono state oltre 40 mila. 78 mila bambini nati in tale anno (il 13,9 per cento del totale) hanno entrambi i genitori stranieri, cui si sommano i quasi 27 mila nati da coppie miste. Al 1° gennaio 2011 i minori extracomunitari regolarmente soggiornanti nel nostro Paese erano 760 mila: di questi, circa 420 mila sono nati in Italia. In complesso, i minori stranieri iscritti in anagrafe sono quasi un milione.

Si vive più a lungo, si fanno meno figli, sale la quota della popolazione anziana …aumentano le famiglie, ma sono sempre più piccole

I miglioramenti della sopravvivenza che abbiamo vissuto negli ultimi venti anni sono stati straordinari: la speranza di vita delle donne è passata da 80,6 a 84,5 anni, quella degli uomini da 74 a 79,4 anni. Resta bassa la fecondità: dopo il minimo raggiunto nel 1995 (1,2 figli per donna) il relativo tasso è risalito fino al 2008, quando si è stabilizzato a 1,4 figli per donna, grazie al contributo delle straniere, i cui comportamenti si stanno, però, avvicinando a quelli delle italiane. La combinazione tra l’aumento della sopravvivenza e il calo della fecondità ha reso l’Italia uno dei paesi con il più elevato livello di invecchiamento: attualmente, si contano 144 persone di 65 anni e oltre per ogni 100 persone con meno di 15 anni; nel 1992 questa proporzione era di 97 a 100.

Anche la struttura delle famiglie italiane è cambiata: si è ridotto il numero dei componenti e sono aumentate le persone sole, le coppie senza figli e quelle monogenitore. È diminuita dal 45,2 al 33,7 per cento la quota delle coppie coniugate con figli e sono aumentate le nuove forme familiari. La famiglia tradizionale non è più il modello prevalente, nemmeno nel Mezzogiorno: le libere unioni sono quadruplicate e la quota di nati da genitori non coniugati (pari al 20 per cento) è più che raddoppiata. Si esce dalla famiglia più tardi e si assiste ad uno spostamento in avanti di tutte le fasi della vita, ivi compresa quella in cui si diventa genitore. La quota di giovani tra i 25 e i 34 anni che vive ancora nella famiglia di origine è cresciuta di quasi nove punti e ora è pari a circa il 42 per cento.

Negli ultimi venti anni, l’occupazione cresce solo grazie alla componente femminile …ma è aumentata molto la precarietà per i giovani e le donne

Anche il mercato del lavoro è cambiato. Tra il 1993 e il 2011 le unità di lavoro sono aumentate di quasi 1,3 milioni (+5,7 per cento), ma il tasso di occupazione è cresciuto solo di poco più di tre punti percentuali (dal 53,7 al 56,9 per cento). In tale periodo l’occupazione maschile, nonostante il contributo degli immigrati, è scesa di 40 mila unità (-0,3 per cento); quella femminile è aumentata di 1,7 milioni (+22,2 per cento), quasi tutta nel Centro-Nord, grazie alla diffusione del parttime, che spiega due terzi di tale crescita. Ciononostante, il tasso di occupazione femminile continua ad essere nettamente più basso di quello medio europeo.

A fronte di un incremento generale dell’occupazione dipendente del 13,8 per cento, l’introduzione di nuove tipologie contrattuali, realizzato per accrescere la flessibilità in ingresso dell’occupazione, ha fatto sì che gli occupati a tempo determinato siano cresciuti del 48,4 per cento. Oggi, oltre un terzo dei 18-29enni ha un lavoro a tempo determinato, contro un valore medio del 13,4 per cento. Il divario tra il tasso di occupazione totale e quello dei giovani, che nel 1993 era di 3,8 punti percentuali, nel 2011 è salito a quasi 16 punti; quello calcolato sul tasso di disoccupazione è ora di quasi dodici punti percentuali. Vent’anni fa la disoccupazione giovanile era prevalentemente connessa ad una fase di passaggio verso il lavoro stabile, oggi è caratterizzata dall’alternanza con il lavoro precario. Se nei primi anni ’90 un terzo dei giovani con un lavoro atipico ne trovava uno stabile a distanza di un anno, ora questa situazione interessa solo il 18,6 per cento di loro. Se a questo si aggiungono i circa 2,1 milioni di Neet, cioè di giovani tra 15 e 29 anni che non stanno ricevendo un’istruzione e non hanno un impiego, si coglie appieno la drammaticità della condizione giovanile odierna.

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Le donne più scolarizzate degli uomini, ma i divari sul mercato del lavoro sono ancora molto ampi

La partecipazione scolastica delle donne è ora superiore a quella degli uomini (93 e 91,5 per cento, rispettivamente) e le prime concludono il percorso formativo più frequentemente dei secondi (il 78 per cento delle ragazze ottiene il diploma, contro soltanto il 69 per cento dei ragazzi). Nel mondo del lavoro, però, permangono forti differenze e l’incremento occupazionale che ha riguardato le donne si è concentrato in quei settori professionali in cui la presenza femminile era già relativamente più elevata e negli impieghi ad orario ridotto. Nel 2010 due terzi delle donne impiegate part-time vorrebbero avere un lavoro a tempo pieno (era un terzo sei anni prima). Più in generale, le donne subiscono ancora un significativo svantaggio nel caso di una gravidanza: l’avere un figlio, infatti, è l’elemento fondamentale che spiega, insieme alla precarietà, la probabilità di perdere il lavoro a distanza di 10 anni, soprattutto a causa dell’impossibilità di bilanciare il ruolo di madre e di lavoratrice. Peraltro, la crisi del 2008-2009 ha accentuato le difficoltà delle donne: in particolare, nell’industria in senso stretto il calo occupazionale femminile è stato doppio rispetto a quello maschile e per le donne il rischio di perdere il posto di lavoro è risultato, a parità di altre condizioni, superiore del 40 per cento a quello degli uomini.

Globalizzazione, nuove tecnologie ed euro hanno cambiato l’economia italiana, ma i risultati sono stati deludenti

Negli ultimi venti anni l’intensificarsi delle relazioni commerciali, produttive e finanziarie tra paesi e la rivoluzione tecnologica hanno determinato grandi trasformazioni nell’economia mondiale. L’Italia ha partecipato a questo processo con modalità solo in parte simili a quelle dei principali paesi avanzati. In tale periodo, infatti, l’economia italiana è cresciuta in termini reali ad un tasso medio annuo dello 0,9 per cento, con un significativo divario rispetto ai partner europei, che si è ulteriormente allargato nel periodo più recente. L’euro ha protetto l’economia italiana dalle instabilità tipiche degli anni ’70 e ’80, segnando la fine di episodi inflazionistici gravi e prolungati, ma negli anni Duemila, cioè quando l’avvio dell’Unione Monetaria avrebbe dovuto spingere ad una più rapida riconversione del sistema economico, l’intensità della riallocazione produttiva tra settori è stata inferiore a quella del decennio precedente. D’altra parte, la moneta unica sembra aver migliorato le performance delle imprese esportatrici già presenti sui mercati dell’area dell’euro diversi da quelli della core Europe (Germania e paesi limitrofi).

La specializzazione manifatturiera è cambiata poco, ma ci sono meno grandi imprese

Lo spostamento verso attività terziarie ha fatto emergere, da un lato, i settori legati alle nuove tecnologie dell’informazione e della comunicazione; dall’altro, quelli volti al soddisfacimento di bisogni di cura e assistenza, e di bisogni immateriali. La struttura economica italiana appare ora più simile a quella dei partner europei rispetto a venti anni fa, ma la specializzazione manifatturiera del nostro Paese rimane fondamentalmente quella degli anni ’70 e la sua diversificazione simile a quella del 1992, in un contesto di progressiva riduzione del peso delle grandi imprese.

Prezzi al consumo italiani allo stesso livello di quelli tedeschi

Il risultato di questo processo è stato una diminuzione continua del rapporto tra valore aggiunto e produzione del settore manifatturiero, una crescita della produttività nettamente inferiore a quella dei partner europei e un’inflazione maggiore, anche dopo l’avvio dell’Unione Monetaria. Se nel 2000 il livello dei prezzi italiani era pari a circa il 95 per cento di quello medio dell’Unione Europea, e quello dei prezzi tedeschi superava quest’ultimo di circa il 10 per cento, nel 2010 i prezzi in ambedue i paesi erano superiori al livello medio di circa il quattro per cento. In dieci anni i prezzi al consumo italiani sono aumentati del 25,5 per cento, quelli tedeschi del 18,1 per cento: solo nei settori esposti ai processi di liberalizzazione la dinamica relativa dei prezzi è stata favorevole al nostro Paese, il quale ha invece sperimentato forti aumenti dei prezzi relativi di molti servizi (ricreativi, assicurativi, finanziari, trasporti) e di alcuni beni (alimentari non lavorati e abbigliamento).

Finanza pubblica: dilapidato negli anni Duemila il “dividendo dell’euro”

Il “rilassamento” del sistema economico e della politica economica italiana dopo l’entrata nell’Unione Monetaria appare ancora più evidente osservando le tendenze della finanza pubblica. Dopo la crisi del 1992-1993 l’Italia aveva prodotto uno sforzo eccezionale (per molti, compresi i partner europei, inatteso) pur di rispettare i parametri di Maastricht. Alla fine degli anni ’90 l’avanzo primario era di circa il cinque per cento del Pil e l’indebitamento netto vicino al due per cento; la pressione fiscale era pari a circa il 42 per cento del prodotto e la spesa pubblica (al netto degli interessi) al 41 per cento; il rapporto debito/Pil risultava in costante discesa (nel 2000 era pari al 108,5 per cento, dopo il picco del 121,2 per cento del 1994). A metà degli anni Duemila, però, l’indebitamento era nuovamente superiore al quattro per cento del Pil, l’avanzo primario quasi annullato, la tendenza alla riduzione del rapporto debito/Pil interrotta: dopo un nuovo contenuto miglioramento, la situazione è poi tornata a peggiorare a causa della crisi, cosicché nel 2011 l’indebitamento è stato vicino al quattro per cento del Pil, il saldo primario è tornato leggermente positivo, la pressione fiscale si è attestata al 42,5 per cento e la spesa pubblica (al netto degli interessi) al 45,6 per cento.

Scende la quota del reddito da lavoro sul Pil e cambia la composizione del reddito disponibile delle famiglie: aumenta il ruolo delle prestazioni sociali

Negli anni 1992-93 la quota del reddito da lavoro dipendente sul totale del valore aggiunto era vicina al 47 per cento. Dopo essere scesa di circa cinque punti percentuali fino ai primi anni Duemila, è poi gradualmente risalita, assestandosi negli ultimi tre anni intorno ad un valore del 45 per cento. Tra il 1993 e il 2011 le retribuzioni contrattuali sono rimaste immutate in termini reali, quelle di fatto sono aumentate dello 0,4 per cento all’anno. In tale periodo il carico fiscale e contributivo corrente sulle famiglie è aumentato dal 28,5 al 29,3 per cento, ma anche la composizione del reddito disponibile è mutata: è aumentata la quota delle retribuzioni (dal 39,4 al 42,8 per cento), mentre sono diminuite quelle dei redditi da lavoro autonomo (dal 28,5 al 25,3 per cento) e del reddito da capitale (dal 16,6 al 6,8 per cento), quest’ultima ridottasi soprattutto nel corso degli anni Duemila. È aumentata molto, invece, la quota delle prestazioni sociali (dal 25,4 al 32 per cento) e non solo a causa della crisi degli ultimi anni.

La povertà relativa resta stabile perché la spesa è stata sostenuta dalla riduzione della propensione al risparmio

Grazie alla riduzione della propensione al risparmio, oltre 13 punti tra il 1992 e il 2011, e al supporto proveniente dai trasferimenti pubblici alle famiglie, gli indicatori di povertà relativa basati sulla spesa sono rimasti stazionari negli ultimi quindici anni intorno al 10-11 per cento. Invariato è rimasto anche il forte divario tra Nord e Sud: nelle regioni settentrionali l’incidenza della povertà era pari, nel 2010, al 4,9 per cento, in quelle meridionali al 23 per cento. Al contrario, la composizione dei consumi delle famiglie è mutata significativamente: tra il 1997 e il 2010 è aumentata di molto la quota destinata all’abitazione (oltre sei punti percentuali), meno quella per l’energia, mentre tutte le altre voci hanno visto una riduzione della propria importanza. Le famiglie più povere hanno accresciuto i consumi del 44 per cento, riducendo drasticamente le spese non necessarie e la qualità dei prodotti acquistati (il 20 per cento di esse si rivolge agli hard discount). Gli acquisti del ceto medio sono aumentati del 25 per cento e sono ora maggiormente orientati verso prodotti non alimentari, con un forte incremento delle spese per l’abitazione (affitto, utenze, ecc.). Infine, le famiglie più ricche spendono nel 2010 solo il 14 per cento in più del 1997, con un peso maggiore, oltre che dell’abitazione, degli altri beni e servizi, la cui quota aumenta di mezzo punto percentuale: in particolare, sono cresciute in termini relativi le spese per assicurazione vita, onorari dei professionisti, articoli personali e per l’infanzia, pasti e consumazioni fuori casa. Sulla base delle analisi del Rapporto emerge come l’Italia abbia utilizzato male, in questi vent’anni di rafforzamento dell’integrazione europea, l’opportunità di risolvere alcuni dei suoi problemi storici, dagli squilibri di finanza pubblica, al divario Nord-Sud, alle differenze di genere, al sottoutilizzo delle risorse umane, soprattutto giovanili, al disagio delle famiglie numerose o maggiormente vulnerabili. D’altra parte, guardando agli elementi che preoccupano maggiormente la popolazione, si vede come, al di là delle fluttuazioni cicliche, tra il 1998 e il 2010 disoccupazione e criminalità siano rimaste stabilmente in testa alla graduatoria, distaccando nettamente tutti gli altri problemi (ambiente, immigrazione, debito pubblico, ecc.).

Gli indicatori della criminalità sono migliori di quelli medi europei, al contrario degli anni Ottanta

Per ciò che concerne la criminalità, a fronte di una stabilità dei delitti complessivamente denunciati, va notata la forte riduzione rispetto al 1992 dell’incidenza di omicidi, tranne quelli ai danni delle donne, di associazioni a delinquere e di furti, mentre appaiono in netto aumento le truffe, le estorsioni e le violenze sessuali denunciate. Complessivamente, nel 2010 l’Italia presenta indicatori di criminalità migliori di quelli medi europei, al contrario di quanto accadeva negli anni ’80. La quota di stranieri denunciati per reati è aumentata notevolmente nel tempo, in parallelo con la crescita della presenza straniera, ma il 20 per cento di essi ha commesso, come reato più grave, un’infrazione alle norme sulla regolare presenza sul territorio nazionale. Per ciò che concerne, invece, la disoccupazione, se nel 1993 il tasso complessivo era pari al 9,7 per cento, negli anni immediatamente successivi esso superò l’11 per cento, per poi ridursi in misura notevole nel corso degli anni Duemila (sino al 6,1 per cento nel 2007) e risalire negli anni della crisi. Nonostante l’ampiezza di quest’ultima e l’aumento dell’offerta di lavoro, nel 2011 la disoccupazione è stata pari all’8,4 per cento, inferiore al valore medio europeo.

 

Rigore, crescita ed equità

 

La modifica della Costituzione per assicurare il pareggio di bilancio

L’agenda politica italiana, in analogia a quanto avviene nel resto d’Europa, si basa su tre pilastri fondamentali: rigore, crescita ed equità. Se su tali obiettivi sembra essersi formato un consenso, anche mediatico, la discussione pubblica ha chiarito come la loro realizzazione preveda tempistiche molto diverse: rigore nel breve termine, crescita nel medio, equità in ambedue le fasi. La decisione più importante assunta nel 2011 sul piano del rigore, al di là delle misure concrete per realizzare il consolidamento fiscale, è stata quella di inserire nella Costituzione italiana l’impegno a realizzare il pareggio strutturale di bilancio. Poiché, come accadde con la ratifica del Trattato di Maastricht, l’opinione pubblica non sembra aver percepito appieno le implicazioni di una tale scelta, vale la pena ricordare che essa impone, dati gli elevati livelli di debito pubblico e di spesa per interessi su quest’ultimo, di raggiungere e mantenere per vari anni, al di là delle fluttuazioni cicliche, un avanzo primario molto consistente. Secondo le previsioni del Governo, il saldo primario corretto per il ciclo e le una tantum dovrà salire dall’1,3 per cento del Pil del 2011 al 4,9 per cento nel 2012 e al 6,1 per cento nel 2013, per poi restare invariato. Considerando che gli investimenti fissi lordi pubblici sono pari a circa il due per cento del Pil, e a meno di non volerne ridurre la già contenuta consistenza, al fine di realizzare quanto previsto sarà necessario mantenere l’avanzo primario di parte corrente corretto per il ciclo all’otto per cento circa del prodotto, un livello mai raggiunto nella storia italiana. Naturalmente, un tale risultato può essere ottenuto attraverso diverse combinazioni di entrate e di spese, con effetti differenti sulla crescita, a sua volta ingrediente indispensabile per evitare l’insostenibilità del debito: in ogni caso, lo sforzo derivante dall’impegno assunto resta formidabile. In presenza di vincoli di finanza pubblica come quelli appena ricordati, di minori spazi per un’espansione della domanda di consumo dovuti alla insoddisfacente dinamica del reddito disponibile e all’erosione della propensione al risparmio, di elevate incertezze sul futuro dell’economia europea e delle maggiori opportunità offerte dall’espansione delle economie emergenti e in via di sviluppo, la crescita di medio termine dell’economia italiana appare fortemente legata, oggi più di ieri, alle interrelazioni con il resto del mondo. Come mostrato nel terzo capitolo del Rapporto, queste dipendono da tre fattori cruciali, strettamente interconnessi: competitività, produttività, dotazione di capitale, specialmente di quello immateriale.

Cruciale il ruolo delle esportazioni per la crescita …… ma il posizionamento internazionale dell’Italia resta insoddisfacente

La buona performance mostrata dalle imprese esportatrici dopo la crisi del biennio 2008-2009 è stata realizzata soprattutto sui mercati extra-europei, mentre su quelli europei l’espansione è stata nettamente inferiore, circa la metà della prima. Negli ultimi tre anni le esportazioni delle grandi imprese sono cresciute, per tutte le tipologie di prodotti, più di quelle delle medio-piccole, maggiormente presenti sul mercato europeo. Questo vantaggio relativo segnala la necessità di affrontare con decisione il problema della struttura dimensionale dell’industria manifatturiera, che, pur presentando alcuni vantaggi, rischia di penalizzare nel medio termine l’economia italiana in termini di capacità di penetrazione sui mercati emergenti. La specializzazione internazionale del nostro Paese è ancora basata sulle produzioni tipiche del Made in Italy e della meccanica strumentale, con minime differenze rispetto a dieci anni fa, nonostante gli intensi processi di riposizionamento “interno” al modello di specializzazione e l’aumento del livello qualitativo delle esportazioni. L’internazionalizzazione dell’industria italiana ha prodotto anche un aumento del commercio intra-industriale (cioè all’interno dello stesso settore o della stessa filiera produttiva), soprattutto nei confronti della Germania, della Romania, dell’India e della Cina, ma una crescita limitata degli investimenti diretti verso e dall’estero. A confronto con i partner europei (soprattutto Francia e Germania), livelli e dinamiche di tali flussi appaiono molto contenuti, segno evidente di una scarsa attrattività del nostro Paese e di strategie imprenditoriali poco aggressive su questo piano, cosicché l’Italia presenta una quota di multinazionali estere sul territorio nazionale e un’attività estera delle multinazionali italiane nettamente inferiori a quelle dei principali concorrenti.

L’attivazione della produzione nazionale da parte delle esportazioni si va riducendo

Non va poi trascurato il fatto che la profonda trasformazione in corso delle filiere produttive globali sta influenzando negativamente la performance economica italiana: l’aumento della dipendenza energetica dall’estero, pur in presenza di una riduzione delle quantità importate, condiziona in modo strutturale il saldo della bilancia commerciale, fenomeno questo destinato presumibilmente a proseguire nel futuro, vista la crescita attesa nel medio termine dei prezzi dell’energia. Inoltre, l’internazionalizzazione dell’economia italiana sta producendo, a parità di altre condizioni, un aumento del contenuto di importazioni per unità di prodotto: ciò vuol dire che un’espansione delle esportazioni di merci attiva una quota sempre minore di produzione nazionale. Se, ad esempio, nel 1995 un aumento del 10 per cento delle prime produceva una crescita della seconda pari all’8,3 per cento, nel 2010 tale attivazione è scesa al 7,5 per cento. Il fabbisogno totale di input intermedi esteri nell’industria è aumentato di oltre il 35 per cento, quello di input intermedi interni si è ridotto di quasi il 10 per cento. Questo fenomeno riguarda soprattutto le produzioni a medio-bassa tecnologia e compensa l’aumento dell’attivazione derivante dalla crescita della domanda estera di servizi, settore nel quale la produzione nazionale presidia gran parte del mercato e in cui l’Italia presenta un forte deficit con l’estero. Se, quindi, il futuro dell’economia italiana dipende dalla domanda estera, le evidenze ora richiamate dimostrano l’urgenza di una scelta strategica sul posizionamento internazionale del nostro Paese, che modifichi le tendenze emerse nell’ultimo decennio, puntando ad un approccio sistemico all’internazionalizzazione. Stesso discorso vale per la produttività, la cui diminuzione osservata negli anni Duemila rappresenta un caso unico a livello europeo. A tale proposito giova ricordare che, per i paesi europei, la produttività del lavoro appare correlata positivamente con la natalità d’impresa, indicatore che in Italia assume valori relativamente modesti, nonostante l’altissima quota di piccole imprese.

Il ruolo dei “beni immateriali” per la competitività e la crescita della produttività

Inoltre, dall’analisi dei contributi dei diversi fattori alla dinamica della produttività nel decennio precedente la crisi del 2008-2009 l’Italia si caratterizza per il basso ruolo svolto dai cosiddetti “beni immateriali”, cioè l’investimento in ricerca e sviluppo, nuove tecnologie, innovazione organizzativa e capitale umano. In altri termini, il Paese non sembra aver colto le opportunità offerte dalla trasformazione in atto verso l’economia della “conoscenza”, con conseguente perdita di efficienza di sistema, misurata dal declino della total factor productivity. In particolare, è mancato l’effetto propulsivo dell’adozione delle tecnologie dell’informazione e della comunicazione (Ict) che si è riscontrato in molti altri paesi europei. Le analisi svolte nel terzo capitolo del Rapporto delineano una sorta di agenda per trasformare la speranza di una crescita significativa e duratura in un risultato concreto, cui tutte le componenti del “Sistema Italia” devono contribuire: favorire la ridefinizione dell’assetto dimensionale dell’economia italiana e il suo posizionamento internazionale, attraendo capitali dall’estero e rafforzando la presenza italiana sul mercato internazionale di servizi. Aumentare la flessibilità dei mercati dei prodotti e dei fattori, così da elevare il tasso di natalità di imprese innovative. Recuperare il terreno perduto in termini di efficienza complessiva del sistema economico, attraverso investimenti, anche pubblici, in beni immateriali e in capitale umano. Migliorare il sistema logistico e dei trasporti, dove l’Italia presenta evidenti inefficienze (in parte legate ad una ridotta dimensione aziendale) e perdite di posizione competitiva, nonché un peso eccessivo del trasporto su gomma. Aumentare l’efficienza della giustizia civile (i cui ritardi scoraggiano gli investimenti dall’estero e penalizzano le imprese nazionali), principalmente attraverso una riduzione dell’elevata “litigiosità” consentita dal sistema normativo italiano, aumentando le economie di scala non sfruttate negli uffici giudiziari (per esempio “specializzando” i singoli magistrati) e rivedendo la distribuzione territoriale di questi ultimi. Infine, ma non meno importante, ridurre l’economia sommersa e l’evasione fiscale, ai cui effetti negativi sul piano dell’equità nella distribuzione del suo carico si sommano quelli derivanti dalla permanenza sul mercato di imprese chiaramente inefficienti, che costituiscono un freno alla necessaria accelerazione dell’ammodernamento produttivo e dell’aumento di efficienza di cui il Paese ha disperatamente bisogno.

L’equità svolge un ruolo fondamentale, insieme al consolidamento fiscale e al rilancio della crescita

Anche una realizzazione completa di tale agenda, come unanimemente riconosciuto, non produrrebbe, però, effetti consistenti che nel medio termine. Ecco perché l’equità, cioè una distribuzione economicamente e socialmente sostenibile dei vantaggi e degli svantaggi derivanti, anche in un’ottica intertemporale, dall’ipotizzato percorso di rigore e crescita, non può rappresentare un’appendice della strategia di rilancio del Paese, ma un suo ingrediente fondamentale. Equità, si badi bene, intesa non come necessaria equidistribuzione dei risultati socio-economici, ma come parità di opportunità indipendentemente dal luogo di residenza, dal genere e dalle condizioni della famiglia di origine, come bilanciamento nei rapporti intergenerazionali, come uniformità nel modo in cui il sistema normativo viene applicato in concreto. Su molti di questi aspetti il Rapporto evidenzia elementi che devono integrare l’agenda prima ricordata, analizzando situazioni che incidono significativamente sul senso di equità, di opportunità e di “futuro” offerte dal nostro Paese, quali la mobilità sociale tra generazioni, la distribuzione del reddito, le diverse prospettive occupazionali a seconda della tipologia del primo lavoro, le condizioni eterogenee di uomini e donne, di italiani e stranieri, di residenti nelle regioni del Nord e di chi vive in quelle del Mezzogiorno. Nei momenti di difficoltà come quello presente, la coesione sociale si basa non tanto sui risultati che si conseguono oggi, ma su quelli che possono essere ragionevolmente raggiunti in una prospettiva pluriennale, cioè sul modello di società che si intende realizzare in futuro.

Mobilità sociale bassa e minore che nel passato …… rende più difficile per i giovani migliorare la propria posizione

Per ciò che concerne la mobilità sociale, misurata dal passaggio, nell’arco di una generazione, da una classe sociale ad un’altra, risulta come nel 2009 il 62,6 per cento degli occupati si trovi in una classe sociale diversa da quella dei loro padri, una percentuale simile a quella registrata nel 1998. A migliorare la propria posizione sono soprattutto i figli di chi lavorava nel settore agricolo, profondamente mutato in questo arco temporale, mentre per la classe operaia urbana e quella media impiegatizia la mobilità è nettamente minore. Se poi analizziamo la “mobilità relativa”, cioè consideriamo la situazione al netto dei cambiamenti della struttura occupazionale, la possibilità di cambiare classe sociale è abbastanza bassa e questo tende a cristallizzare le disuguaglianze nel tempo. Osservando questi fenomeni in un’ottica temporale ampia, appare evidente come la mobilità “ascendente”, che aveva caratterizzato i giovani ventenni di tutte le generazioni entrate nel mercato del lavoro fino a quelli nati negli anni ’50, si è ridotta per i giovani delle generazioni successive. Parallelamente, è aumentata la probabilità di sperimentare una mobilità “discendente”: ad esempio, guardando all’ingresso nel mondo del lavoro, gli occupati delle generazioni più recenti, se provenienti dalla classe media impiegatizia o dalla borghesia, retrocedono più spesso dei giovani delle precedenti generazioni e i figli di operai salgono in misura minore rispetto ai loro predecessori degli ultimi 30 anni.

Istruzione fattore decisivo per la mobilità, ma restano forti i condizionamenti della situazione di partenza

L’istruzione è un fattore chiave per alimentare la mobilità sociale e stimolare la crescita economica attraverso un migliore capitale umano, ma anche questa risente della classe sociale della famiglia di origine: per la generazione più recente, solo il 12,5 per cento dei figli della classe operaia raggiunge la laurea, contro più del 40 per cento dei figli della borghesia. Anche l’abbandono scolastico è più ampio nelle classi meno elevate: il 37 per cento dei figli di operai nati negli anni ’70 ha abbandonato la scuola superiore, contro l’8,7 per cento di quelli della classe sociale più elevata. Tra questi ultimi oltre la metà si iscrive all’università, contro il 14,1 per cento dei figli della classe operaia, e la situazione non cambia significativamente per i nati negli anni ’80.

Se il primo impegno è atipico aumenta la probabilità di rimanere precario o perdere il lavoro

Forte appare anche l’influenza della tipologia del primo impiego sulle prospettive di carriera a lungo termine: tra i nati a partire dal 1980 la quota di chi entra nel mercato del lavoro con un impiego atipico è quasi del 45 per cento, a fronte di incidenze del 31,1 per cento per i nati negli anni ’70 e del 23,2 per cento per chi è nato negli anni ’60. Tra le persone entrate nel mondo del lavoro con un contratto atipico, a dieci anni dal primo impiego il 29,3 per cento è ancora in una situazione di precarietà, circa il 10 per cento non è più occupato e una quota consistente ha sperimentato una mobilità “discendente”. Quando il primo lavoro è a tempo indeterminato, dopo dieci anni si è ancora occupati stabili in una percentuale elevata. Tra i nati negli anni ’60, su 21,7 anni di presenza media sul mercato del lavoro, i lavoratori “sempre standard” hanno lavorato per 21 anni; quelli che hanno avuto almeno un contratto atipico, solo per 19 anni, otto dei quali passati in condizione di precarietà. Per i nati negli anni ’70, a fronte di 12,5 anni di presenza sul mercato del lavoro, i “sempre standard” hanno lavorato per circa 12 anni, gli altri solo per 10,7 anni, metà dei quali in condizioni di precarietà. Naturalmente, questi divari sono tanto più forti quanto più bassa è la classe sociale di partenza e tutto questo, soprattutto in periodi di crisi prolungata come l’attuale, produce effetti significativi sulle scelte di vita e sulle prospettive reddituali a medio e lungo termine.

Cambia la “geografia della povertà”: peggiora la condizione delle famiglie con minori e di quelle del Sud; migliora la situazione delle famiglie di anziani

Dopo il forte peggioramento dei primi anni ’90, la disuguaglianza nella distribuzione del reddito è rimasta sostanzialmente stabile, ad un livello comunque superiore a quello medio dei paesi OCSE. Tra il 1997 e il 2010 si è deteriorata la situazione delle famiglie di maggiori dimensioni e di quelle con minori: complessivamente, sono quasi due milioni (il 18,2 per cento) i minori che vivono in famiglie relativamente povere, il 70 per cento dei quali è residente al Sud. L’incidenza della povertà è aumentata tra le famiglie di lavoratori in proprio e di operai, nonché (di circa otto punti percentuali) per quelle in cui convivono più generazioni: le famiglie con minori in cui si realizza tale convivenza sono quasi raddoppiate rispetto al 1997 (oggi sono il 14,5 per cento); tra di esse, l’incidenza della povertà è passata dal 18,8 al 30,3 per cento. Complessivamente, sono le famiglie di anziani soli o in coppia a vedere diminuire l’incidenza della povertà (di sette e di quattro punti percentuali, rispettivamente), anche grazie ad una storia contributiva migliore della precedente generazione di anziani, eccetto che nel caso in cui si tratti di donne sole ultra sessantacinquenni, con basso livello di istruzione e vita lavorativa assente o molto limitata.

Lotta all’evasione e revisione del sistema fiscale per conseguire una maggiore equità

Ribadendo ancora una volta come l’ampiezza dell’evasione produca effetti redistributivi perversi e distorsioni nel sistema economico, va notato come gli interventi operati nell’ultimo ventennio sul sistema delle aliquote, delle detrazioni e delle deduzioni che determinano il pagamento dell’imposta sul reddito delle persone fisiche (Irpef) abbiano prodotto un sistema che non è sempre in linea con l’obiettivo dell’equità. La diversità di carico fiscale, a parità di reddito, a seconda della fonte di quest’ultimo e le differenti possibilità a disposizione delle varie categorie di contribuenti di ridurre la base imponibile grazie ad agevolazioni e all’evasione fiscale sono esempi di questi squilibri. Vi è anche il problema dei cosiddetti “incapienti”, cioè di coloro i quali non possono utilizzare pienamente le detrazioni a fini Irpef: si tratta di più di quattro milioni di persone, il 64 per cento delle quali sono ritirati dal lavoro o non occupati, e la perdita di potenziali benefici è pari a circa 2,6 miliardi all’anno (594 euro pro capite). Analogamente, il principio della progressività è applicato a livello individuale e determina, a parità di reddito familiare, un significativo svantaggio per le famiglie con un solo percettore di reddito rispetto a quelle con due o più percettori. Infine, essendo differenti le detrazioni per reddito da lavoro dipendente e autonomo, le famiglie con un solo percettore di reddito autonomo inferiore a 15 mila euro pagano più Irpef a parità di reddito rispetto alle altre. Per contro, grazie alle maggiori opportunità di ridurre la base imponibile, le famiglie con soli redditi autonomi superiori ai 25 mila euro pagano, a parità di reddito, meno Irpef rispetto a quelle con soli redditi da lavoro dipendente. La discussione sul disegno di legge delega per la riforma fiscale e sugli atti successivi da essa derivanti rappresenta un’importante occasione per rivedere il sistema attuale in funzione di una maggiore equità.

Restano forti gli squilibri di genere, anche all’interno della coppia, e questo incide sulle opportunità lavorative delle donne

Un ulteriore fattore di disuguaglianza è legato al genere: mentre le donne hanno colmato antichi divari in termini di istruzione, permane ancora uno squilibrio nel rapporto con il mercato del lavoro, nei redditi e nella distribuzione di ruoli all’interno della coppia, elementi tra loro strettamente connessi. Il divario retributivo fra lavoratori e lavoratrici cresce all’aumentare del reddito ed è molto elevato per i livelli reddituali più alti. Inoltre, insieme a Malta, l’Italia è il paese con la maggiore diffusione di coppie in cui una donna adulta (25-54 anni) non percepisce redditi (33,7 per cento). In un terzo delle coppie la donna si fa carico di quasi tutto il lavoro domestico e di cura, e spesso tale asimmetria è associata con un più limitato accesso al conto corrente della famiglia, basse quote di proprietà dell’abitazione, scarsa libertà di spesa per se stessa, poco coinvolgimento nelle scelte importanti che riguardano il nucleo familiare. Solo nel sei per cento delle coppie esiste simmetria nel contributo economico e di cura tra i due partner. La vulnerabilità economica della donna all’interno della famiglia si riflette anche nella condizione dei coniugi dopo una separazione o un divorzio: tra le donne che hanno sperimentato questi eventi, il rischio di povertà è del 24 per cento, quello analogo rilevato per gli uomini è del 15,3 per cento, ma se la donna è occupata a tempo pieno, caso relativamente meno probabile che per l’uomo, questo differenziale si annulla.

Le famiglie straniere hanno un reddito medio pari alla metà di quello delle italiane

Nonostante i complessivi miglioramenti della condizione di vita degli stranieri, permane una chiara disuguaglianza con gli italiani. A fronte di un tasso di occupazione più elevato (62,3 per cento contro il 56,4 per cento degli italiani), il reddito medio di una famiglia composta da soli stranieri è ancora pari a circa la metà di quello di una famiglia italiana. Quasi il 42 per cento dei minori stranieri vive in famiglie in condizioni di deprivazione materiale, contro il 15 per cento rilevato per gli italiani. Oltre il nove per cento degli studenti stranieri risulta ripetente (per gli italiani la quota è del quattro per cento) e il 48 per cento appare in ritardo rispetto al corso di studi (8,5 per cento per gli italiani). Il tasso di abbandono scolastico è del 43,6 per cento per gli studenti stranieri effettivamente presenti sul territorio (cioè al netto di quelli che hanno abbandonato il Paese) e del 15,5 per cento per quelli italiani. L’incidenza dei Neet è del 32,8 per cento per gli stranieri, a fronte di un valore del 21,5 per cento per gli italiani.

Resta forte il divario Nord-Sud anche nei servizi pubblici …nonostante alcuni casi di successo di amministrazioni del Mezzogiorno

Infine, ma questo elemento rappresenta una costante di molte delle analisi svolte, alle quali si rinvia, permane, e si aggrava negli anni della recente crisi (il calo dell’occupazione è iniziato prima ed è stato più intenso), il forte differenziale Nord-Sud. Nel Mezzogiorno le opportunità delle donne dal punto di vista lavorativo sono minori, così come quelle dei giovani. Forti differenziali si rilevano ancora nella dotazione di servizi sociali erogati dai comuni (dagli asili-nido all’assistenza agli anziani e ai disabili) e nella relativa spesa. La qualità dei servizi sanitari è peggiore, così come quella di servizi ambientali come la fornitura di acqua potabile (con rilevanti dispersioni della rete di distribuzione) e la raccolta dei rifiuti (la discarica è ancora la modalità prevalente di smaltimento e quella differenziata copre appena il 20 per cento). Anche l’offerta e la qualità del trasporto pubblico locale sono le più basse del Paese. Sarebbe però un errore non riconoscere importanti casi di successo, come quello della raccolta differenziata, per la quale la distanza Nord-Sud si va riducendo, in molti comuni del Mezzogiorno, della spesa sociale per disabili dei comuni in Sardegna, o dell’efficienza nella distribuzione dell’acqua potabile in Basilicata e Calabria. Questo vuol dire che le amministrazioni pubbliche locali possono conseguire notevoli miglioramenti ovunque esse operino e l’opinione pubblica deve prenderne atto con soddisfazione, superando fastidiosi stereotipi. Peraltro, si registra una maggiore convergenza territoriale per quei servizi per i quali sono stati definiti standard di erogazione o “livelli obiettivo” da raggiungere.

Aumenta il consumo del suolo, soprattutto nelle regioni meridionali

Va poi segnalato come negli ultimi dieci anni il Mezzogiorno abbia visto realizzare un consumo di suolo nettamente superiore a quello rilevato nel resto d’Italia. Se, nel complesso del Paese, tale consumo è cresciuto dell’8,8 per cento rispetto al 2001, corrispondente ad un territorio pari a quello di una ipotetica nuova provincia di Milano completamente costruita (1.639 km2), nel Sud e nelle Isole l’aumento è stato ancora maggiore (circa il 10 per cento). Tra le province del Mezzogiorno che presentavano già livelli elevati di superficie edificata, sono Caserta (+18,4 per cento), Taranto e Catania (entrambe più dell’11 per cento) a presentare gli aumenti maggiori. Quella appena descritta è una tendenza preoccupante, in quanto una cattiva programmazione delle forme di urbanizzazione si può rivelare poco sostenibile da un punto di vista ambientale ed economico. Ad esempio, la dispersione di abitazioni e fabbricati destinati alle attività economiche sottrae territori ad altri usi e vocazioni, depaupera le valenze paesaggistiche, riduce il radicamento culturale delle persone rispetto ai luoghi di vita, limita l’accessibilità individuale ai servizi, incide negativamente sulla complessiva qualità della vita dei cittadini. Anche questo ha a che fare con l’equità e nel momento in cui il Paese si interroga sul modello di sviluppo da adottare per il futuro, è importante che si operi una scelta chiara anche sul tema del consumo del suolo.

 

Conclusioni

L’anno scorso, concludendo la lettura della Sintesi del Rapporto annuale, sottolineavo la vulnerabilità del “Sistema Italia”, sia delle imprese che delle famiglie, la necessità per il nostro Paese di prendere coscienza dei propri problemi, ma anche dei punti di forza, e la scarsa importanza che la società italiana sembrava attribuire al fattore “tempo”, in un mondo in forte accelerazione. Un anno dopo, amaramente, si può dire che il 2011 abbia obbligato, in modo traumatico, il Paese a comprendere appieno la gravità della situazione, a scoprirsi effettivamente più vulnerabile di quanto pensava e a mettere mano a numerose questioni irrisolte, con una accelerazione dei processi decisionali che ha pochi precedenti. Il 2012 sarà ricordato come un anno molto difficile sul piano economico e sociale. Le previsioni che oggi l’Istat diffonde per la prima volta dopo il trasferimento ad esso dei compiti precedentemente svolti dal disciolto Istituto di Studi e Analisi Economica (ISAE), indicano per quest’anno una contrazione del Pil dell’1,5 per cento. I consumi delle famiglie e, soprattutto, gli investimenti subiranno forti riduzioni (-2,1 per cento e -5,7 per cento, rispettivamente), mentre la domanda estera netta fornirà un contributo positivo, grazie all’aumento delle esportazioni (+1,2 per cento) e alla forte caduta delle importazioni (-4,8 per cento). La prevista riduzione dell’occupazione (associata ad un aumento della disoccupazione) e la contenuta dinamica retributiva contribuiranno all’ulteriore contrazione del reddito reale delle famiglie, in presenza di un’inflazione ancora elevata. Nel 2013, invece, il Pil dovrebbe aumentare dello 0,5 per cento, trainato dalla crescita delle esportazioni (+4,0 per cento), mentre la domanda interna resterebbe costante nella media dell’anno. La lieve ripresa occupazionale non sarebbe sufficiente a ridurre il tasso di disoccupazione, mentre la crescita dei prezzi rallenterebbe. Il quadro delineato per i prossimi 18 mesi, che per molti versi conferma le analisi formulate da altri centri di ricerca nazionali e internazionali, segnala la necessità di mantenere elevata l’attenzione sul fronte della politica fiscale e sottolinea l’importanza delle evidenze presentate nel Rapporto sui temi della crescita e dell’equità. In vista dell’avvio di una nuova legislatura, le forze politiche e sociali sono chiamate nei prossimi mesi a definire e proporre ai cittadini una prospettiva di medio termine per il Paese, rispettosa degli impegni di risanamento della finanza pubblica, ma anche convincente e in grado di mettere in moto le migliori risorse, e non sono poche, di cui disponiamo. Pensiamo alle donne, che negli ultimi venti anni hanno mostrato una dinamicità notevole sul piano dell’istruzione e del lavoro, e sperano di vedere riconosciute appieno le proprie capacità. Pensiamo ai giovani, che rappresentano un potenziale innovativo che trova enormi diffi coltà ad esprimersi. Pensiamo agli stranieri, desiderosi di integrarsi maggiormente nella società italiana, anche sul piano dell’imprenditorialità. Pensiamo alle imprese innovative che quotidianamente competono sui mercati nazionali ed esteri, che richiedono strutture efficienti di sostegno ad una internazionalizzazione moderna. Pensiamo alle imprese multinazionali disponibili a contribuire all’economia italiana se solo alcune condizioni socio-economiche non le penalizzassero, così come fanno anche nei confronti delle unità italiane. Pensiamo al capitale sociale di cui dispongono i nostri territori, che anche nella attuale crisi forniscono straordinari segnali di vitalità e attenzione alle situazioni di difficoltà. Pensiamo alle eccellenze esistenti nella tanto criticata Pubblica Amministrazione, le cui buone pratiche (e non sono poche) vanno consolidate e diffuse, così da ridare fiducia al contribuente onesto che si aspetta di usufruire di servizi efficienti in cambio delle tasse pagate. Pensiamo al “terzo settore”, nel quale solidarietà e impegno per lo sviluppo economico si incontrano in una sintesi che altri paesi ci invidiano. Pensiamo ai centri di eccellenza nella ricerca e nella formazione presenti in Italia, pienamente inseriti nei circuiti internazionali ai massimi livelli, che vorrebbero trovare nuove forme di collaborazione con il mondo produttivo. In questa prospettiva, mi piace pensare che anche l’Istat e il Sistema statistico nazionale possano essere considerati come punti di forza del nostro Paese, cioè come strumenti fondamentali per rappresentare i fenomeni rilevanti, per realizzare analisi utili alle politiche e alle decisioni individuali, per consentire la valutazione delle alternative possibili e dei risultati ottenuti, per informare i cittadini, anche in un’ottica di confronto internazionale e a scala territoriale dettagliata. La pubblicazione a fine anno del primo rapporto sul Benessere Equo e Sostenibile (Bes), che conterrà indicatori e analisi relative ai fenomeni che le parti sociali hanno identificato come le più importanti per valutare lo stato del nostro Paese, rappresenterà un’altra occasione di condivisione del quadro di riferimento economico, sociale e ambientale, da cui partire per progettare il futuro. Se rigore, crescita ed equità costituiscono il trinomio su cui costruire il futuro del nostro Paese, non si può non dire che il cambiamento avverrà con gradualità. E che in questo “tempo di mezzo”, non breve e non facile, è indispensabile il massimo sforzo da parte di tutte le componenti della società, in nome di questo obiettivo comune, per rendere sostenibile sul piano sociale il percorso che ci attende. In tale prospettiva i “beni comuni” e i “beni immateriali” sono altrettanto, e forse più, importanti di quelli individuali e materiali: chiarezza negli obiettivi e negli strumenti da adottare, impegno e responsabilità individuale e collettiva per la loro realizzazione, trasparenza e integrità da parte di tutti coloro i quali sono chiamati ad assumere le decisioni rilevanti, correttezza nei comportamenti e nei rapporti pubblici e privati. Anche questi sono ingredienti fondamentali di una ricetta che, per funzionare, deve ricostruire un clima di fiducia reciproca tra gli attori della società, della politica e dell’economia. Per realizzare gli obiettivi di benessere duraturo a cui vogliamo tendere è indispensabile superare le attuali diffidenze e difficoltà, pur comprensibili, che serpeggiano nei paesi europei. Se, forse, nel 1992, quando l’Italia aderì al progetto di creazione dell’Unione Europea e della moneta unica, le implicazioni di una tale scelta non furono appieno comprese nella società e nel tessuto economico, a venti anni di distanza non si può non ribadire la irrinunciabilità della prospettiva europea per fronteggiare con successo l’attuale processo di globalizzazione e assicurare un futuro prospero alle nuove generazioni. Gli effetti economici e sociali di soluzioni alternative sarebbero devastanti per il nostro Paese e, al suo interno, per i soggetti più vulnerabili. Ecco perché a tutti noi, e specialmente a noi che siamo in questa sala, spetta impegnarci al massimo, qui e ora, per il futuro dell’Italia e dei suoi cittadini, di oggi e di domani.

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