Archivio Tag | "inquinamento"

Dieselgate e Ambiente: il caso Volkswagen

Tags: , , , , , , , ,

Dieselgate e Ambiente: il caso Volkswagen

Pubblicato il 15 dicembre 2015 by redazione

traffico smog

 

EPA denuncia Volkswagen

Venerdì 18 settembre 2015, è il giorno in cui l’agenzia federale per la protezione ambientale americana, la United States Environmental Protection Agency (EPA) comunica che la casa automobilistica Volkswagen ha illegalmente installato un software di manipolazione, progettato per aggirare le normative ambientali sulle emissioni di ossidi di azoto (NOx) e quindi di inquinamento da gasolio.

Il software, presente solo in alcuni modelli di automobili prodotte a partire dal 2009, avrebbe rilevato il momento in cui le vetture sarebbero state sottoposte ai test di emissioni, consentendo quindi di bypassare e superare pienamente le prove. In condizioni di guida normali, invece, le autovetture avrebbero superato di ben 40 volte il limite consentito dalla legge per quanto riguarda le emissioni che provocano l’inquinamento.

Negli USA il governo statunitense ordina, così, di recuperare, nel suo territorio, quasi 500.000 vetture con quattro cilindri TDI diesel. L’accusa dell’EPA è sostanzialmente quella di aver violato le norme del Clean Air Act, la prima legge anti-inquinamento atmosferico statunitense.

In EUROPA il problema ha comunque delle ricadute per le elevate emissioni di ossidi di azoto che queste automobili potrebbero aver contribuito ad elevare pericolosamente. Le stime ammonterebbero ad una cifra, ogni anno, di quasi un milione di tonnellate di gas tossici immessi nell’atmosfera in più rispetto a quanto stimato. Una tale quantità di inquinamento è paragonabile a quella che mediamente sviluppa una nazione europea, peggiorata dal fatto che i veicoli con motore diesel sfiorano il 50% del totale ripetto al solo 3% degli Stati Uniti.

 

EPA

 

Emissioni di Ossidi di Azoto

Cosa sono

Gli ossidi di azoto sono gas irritanti per le mucose. Tra i vari ossidi troviamo:

  • monossido di azoto (NO)
  • biossido di diazoto (N2O2)
  • ossido di diazoto (N2O)
  • biossido di azoto (NO2 )
  • triossido di azoto(N2O3 – anidride nitrosa)
  • pentossido di azoto(N2O5 – anidride nitrica)

 

Smog 

 

Cosa provocano

Le emissioni degli ossidi di azoto provocano diversi danni e in particolare:

– per l’uomo: specifiche patologie a carico dell’apparato respiratorio (bronchiti, allergie, irritazioni, asma), ma anche tosse, dolori al torace, irritazione agli occhi ed effetti nocivi per il sangue;

– per l’ambiente: la formazione del particolato secondario, il fenomeno delle piogge acide, la possibile alterazione degli equilibri ecologici ambientali, in particolare, necrosi delle foglie, e come danno maggiore, la debilitazione della fotosintesi clorofilliana.

 

Come vengono creati

Gli ossidi di azoto derivano da qualsiasi processo di combustione che avviene utilizzando aria. Il combustibile può essere uno qualsiasi.

 

Cause

Il maggiore responsabile dell’inquinamento antropico da ossidi di azoto è il traffico autoveicolare, che rappresenta quasi il 50% della produzione globale, e in particolare quello sviluppato dai motori diesel. La quantità delle emissioni provenienti dalla combustione che avviene nelle automobili, tuttavia, dipende dalle caratteristiche del motore e da altre variabili quali la velocità o l’accelerazione.

Gli ossidi di azoto vengono prodotti anche dalle centrali termoelettriche, così come dai camini a legna, dai vulcani e dagli incendi.

 

Combustione nelle automobili

Il motore degli autoveicoli produce ossidi di azoto a causa dell’elevate temperature che vengono raggiunte durante il processo di combustione del carburante. Le molecole di azoto presenti nell’atmosfera, che non sono reattive alle basse temperature, oltre i 1.200°C si separano in due atomi di azoto, che combinandosi con l’ossigeno presente in abbondanza nell’aria, danno origine ai diversi ossidi, soprattutto NO (monossido di azoto) e NO2 (diossido di azoto).

 

Test nelle automobili

In un motore a combustione interna ideale, i gas di scarico sarebbero composti solo da anidride carbonica (CO2) e acqua. In realtà dal tubo di scappamento escono anche l’ossido di carbonio (CO), gli idrocarburi incombusti (HC), gli ossidi di azoto (NOx), il particolato (PM) e altri inquinanti minori. Dato che queste sostanze hanno effetti negativi sulla salute e sull’ambiente, da molti anni sono stati fissati dei limiti sulle loro emissioni, continuamente abbassati nel corso del tempo: i primi limiti californiani risalgono al 1968, quelli europei al 1971. Per verificare che i nuovi modelli immessi in commercio rispettino le normative antinquinamento si utilizzano laboratori certificati. In tali siti, la vettura viene posta su dei rulli (appositamente frenati per riprodurre la resistenza all’avanzamento che si avrebbe sul manto stradale) e guidata seguendo uno schema specificatamente programmato con accelerazioni, rallentamenti, soste e tratti a velocità costante che riproducono l’impiego urbano ed extraurbano.

 

Ridurre le emissioni

Per ridurre le emissioni si dovrebbe reimmettere nel motore una parte dei gas di scarico prodotti, in questo modo la temperatura di combustione diminuirebbe, e si limiterebbero così la formazione di ossidi di azoto. Questo meccanismo non è però sufficiente per rispettare le attuali norme antinquinamento e pertanto è indispensabile ricorrere a dispositivi di trattamento dei gas di scarico, i catalizzatori e i filtri anti particolato, resi necessari, in particolare, per i veicoli diesel a partire dai modelli Euro 4.

Le norme antinquinamento Euro 6 prescrivono invece, per le auto a motore diesel, emissioni di ossidi di azoto pari a 0,08 g/km (contro lo 0,18 g/km delle Euro 5), rendendo di fatto obbligatorio uno specifico catalizzatore (il filtro particolato, infatti, non basta), usato negli USA sin dal 2007. I nuovi diesel Euro 6, oltre al filtro antiparticolato o Fap, reso necessario dalle Euro 5, sono dotati poi anche di trappole per gli ossidi di azoto o, nei casi dei motori più grandi, di un sistema di trattamento dei gas di scarico che utilizza un additivo a base di urea.

Uno studio tedesco, iniziato già nella primavera del 2014 e finito nell’ottobre dello stesso anno, condotto dall’International Council of Clean Transportation, paragonando le emissioni reali delle automobili che erano state omologate in Europa e quelle omologate negli Usa, dimostra che i produttori tedeschi, in realtà, rispettano i più severi standard americani, tuttavia continuano a inquinare i cieli europei grazie a una legislazione, la nostra, che si accontenta dei test in laboratorio e non pretende test in movimento. I dati raccolti per il momento sono inseriti nel report in forma anonima, e forse per questo, in Europa non se ne parla ancora molto.

 

International Council of Clean Transportation

 

Volendo confrontare solo Europa e Usa, noteremo come gli standard americani sulle emissioni di ossido di azoto (NOx) – caratteristiche dei motori diesel – siano più severi di quelli europei, tuttavia quelli relativi alle emissioni di biossido di carbonio (CO2) – e quindi ai consumi, che sono proporzionali – siano, invece, più rigidi in Europa dove dal 1° settembre è entrato in vigore lo standard Euro 6.

Negli Stati Uniti, inoltre, ogni stato ha la facoltà di imporre standard più rigidi di quelli federali; la California, per esempio, è nota per la sua severità. Non è un caso che sia stato proprio il California Air Resources Board (Carb) a denunciare Volkswagen.

Anche in Europa singoli stati, regioni e anche comuni impongono regole diverse.

La diversità di standard è un retaggio storico dovuto anche alla diversità del parco circolante: l’auto europea mediamente è più piccola e quindi consuma di meno.

Negli Usa i motori sono quasi esclusivamente a benzina ed è quindi più facile rispettare i limiti sugli ossidi di azoto. Per questi stessi motivi, uniformare gli standard a livello mondiale sarà un’impresa quasi impossibile.

Con Horizon 2020 tutti i paesi firmatari si sono impegnati a ridurre gli ossidi di azoto in tutti gli ambiti (industriale, energetico e delle acque piovane).

http://www.horizon2020news.it/argomenti/programma-horizon-2020

 

Stati uniti

L’Environment Protection Agency (EPA), l’agenzia federale americana per la Protezione dell’Ambiente, il 2 giugno 2014 lanciava la nuova proposta di politica ambientale dell’Amministrazione Obama. Approvata per decreto dal Presidente, sulla base del Clean Air Act degli anni ‘70, imponeva alle centrali elettriche di ridurre le emissioni di ossido di carbonio (CO2) del 30% rispetto ai livelli del 2005.

Entro il 2030, gli stati dovranno tagliare i livelli di CO2 prodotti dalle oltre 600 centrali attive nel Paese, responsabili oggi del 38% dei gas inquinanti. Insieme ai trasporti (32%), esse costituiscono le principali fonti di inquinamento negli Stati Uniti. Il tentativo di Obama di creare un mercato nazionale del “cap and trade” falliva dopo la bocciatura in Senato della Waxman-Markey Bill, nel giugno del 2009, la legge sulle emissioni che avrebbe avvicinato gli standard USA a quelli dell’UE.

Dopo i risultati deludenti del Summit di Copenhagen del 2009, la svolta decisiva di Obama avvicina gli Stati Uniti all’Europa e funge da traino per la Cina, e per la recente Conferenza di Parigi 2015, per raggiungere un accordo globale sul clima e l’occasione per gli USA di riaffermare la propria leadership anche sul versante dell’inquinamento ambientale, in cui è stata a lungo contestata.

 

Conferenza di Parigi

La ventunesima sessione della Conferenza delle Parti (COP 21) della Convenzione quadro delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici (UNFCCC) si è tenuta a Parigi dal 30 novembre all’11 dicembre del 2015.

La conferenza rappresenta una tappa decisiva nei negoziati del futuro accordo internazionale per il dopo 2020.

http://www.internazionale.it/scienza/2015/11/28/lconferenza-parigi-occasione

http://www.ambafrance-it.org/Parigi-2015-sul-Clima-COP21

 

filtro antiparticolato

Filtro antiparticolato.

 

Europa

Gli standard europei sulle emissioni inquinanti sono una serie di limitazioni imposte sulle emissioni dei veicoli venduti degli Stati membri dell’Unione europea, dalle caratteristiche sempre più restrittive, che riguardano le emissioni dei veicoli, misurate in g/kWh per i veicoli commerciali pesanti e in g/km per gli altri veicoli. Si indicano con numeri arabi (es. Euro 4) gli standard applicabili alle automobili e ai veicoli commerciali leggeri, e con numeri romani (es. Euro IV) gli standard applicabili ai veicoli industriali (autocarri, escavatori, ecc.)

Dal momento dell’entrata in vigore di uno di questi standard, le case automobilistiche devono terminare la vendita di nuovi veicoli con gli standard precedenti. I veicoli che rispettano un certo standard vengono gradualmente introdotti prima dell’entrata in vigore dello stesso.

Alcune città possono impedire la circolazione (sempre, o in determinati periodi dell’anno, o nei giorni di blocco della circolazione anti-inquinamento) ai veicoli al di sotto di un certo standard. Nel caso di blocco della circolazione, almeno in Italia, talvolta il fermo riguarda tutte le autovetture gasolio e benzina (indipendentemente dallo standard Euro-), con eccezione solo per i mezzi di servizio e le auto a combustibile alternativo (come metano, GPL ed auto elettriche). In altri casi le eccezioni ai blocchi permettono effettivamente la circolazione ai veicoli più recenti (benzina e diesel Euro 4, ma questi ultimi a volte solo a patto che siano dotati anche del filtro attivo anti-particolato).

Quello al momento in vigore è il Regolamento (CE) n. 715/2007 del Parlamento europeo e del Consiglio (del 20 giugno 2007), relativo all’omologazione dei veicoli a motore riguardo alle emissioni dai veicoli passeggeri e commerciali leggeri (Euro 5 ed Euro 6) e all’ottenimento di informazioni sulla riparazione e la manutenzione del veicolo. Il compito del regolamento è quello di armonizzare i requisiti tecnici di emissione (noti come omologazione CE), per i veicoli a motore e le parti di ricambio, in modo tale che siano gli stessi in tutta l’UE, evitando perturbazioni al mercato unico. Il regolamento, inoltre, pone obblighi ai costruttori di veicoli e permette di accedere alle informazioni per la riparazione e la manutenzione.

 

Punti chiave del Regolamento.

I costruttori devono:

  • dimostrare che tutti i veicoli nuovi venduti, immatricolati o messi in servizio rispettino le norme di emissione stabilite nel regolamento;
  • fornire agli acquirenti i dati relativi alle emissioni di CO2 e ai consumi di carburante quando il veicolo viene acquistato;
  • assicurarsi che i dispositivi di controllo dell’inquinamento montati in un veicolo possano durare 160 000 km e siano controllati dopo 5 anni o dopo 100 000 km, a seconda del caso che si verifica per primo;
  • fornire informazioni illimitate e standardizzate per la riparazione e la manutenzione del veicolo agli operatori indipendenti, attraverso i propri siti Internet. Essi possono fatturare spese ragionevoli per questo servizio.
  • Altro regolamento molto importante nell’attuale panorama europeo è il Regolamento (CE) n. 443/2009 del Parlamento europeo e del Consiglio, del 23 aprile 2009, che definisce i livelli di prestazione in materia di emissioni delle autovetture nuove nell’ambito dell’approccio comunitario integrato, finalizzato a ridurre le emissioni di CO2 dei veicoli leggeri. Esso Stabilisce dei livelli di emissione di anidride carbonica (CO2) per le nuove autovetture. Il limite attuale è fissato all’emissione di 130 grammi di CO2 per chilometro. Il limite verrà ridotto a 95 grammi di CO2 per chilometro entro l’anno 2021.

Il limite di 130 g/km è stato introdotto fra il 2012 e il 2015. Ogni anno di tale periodo la percentuale di autovetture prodotte che deve rispettare il limite aumenta. A partire dal 2015, il 100 % delle autovetture deve rispettarlo (rispetto al 75 % del 2013 e all’80 % del 2014).

Se la media di emissioni di CO2 di un certo numero di autovetture di un determinato produttore supera il limite di emissione, verrà emessa una sanzione severa. Per ogni autovettura, il produttore deve pagare 5 euro per il primo g/km oltre il limite, 15 euro per il secondo, 25 euro per il terzo e 95 euro per ogni g/km dal quarto in poi. Dal 2019 ogni g/km oltre il limite sarà multato di 95 euro.

I piccoli produttori che immatricolano nell’UE meno di 1 000 autovetture all’anno sono esenti dal presente regolamento, mentre coloro che immatricolano fra 1 000 e 10 000 autovetture all’anno possono proporre obiettivi di riduzione delle emissioni personalizzati. Al contempo, i produttori che si attestano fra le 10 000 e le 300 000 autovetture all’anno possono richiedere un obiettivo di riduzione fisso.

Un sistema di crediti e supercrediti di emissione riconosce le innovazioni ecologiche attuate dai produttori di autovetture. I supercrediti sono incentivi riconosciuti ai produttori per l’immatricolazione di autovetture a basse emissioni. In questo modo, le autovetture che producono 50 g/km di CO2 o meno vengono contate come 1,5 autovetture fino al 2016. Ciò, d’altra parte, dà ai produttori più flessibilità in termini di produzione di un numero minore di autovetture efficienti.

L’Unione Europea, nel maggio scorso ha poi approvato un aggiornamento alle procedure di test (Nedc) destinato a entrare in vigore nel 2017. Le nuove procedure dovrebbero assicurare una maggiore coerenza fra i risultati dei test e quelli che poi gli acquirenti delle auto riscontrano nella guida reale.

di Roberta Zappalà

 

 

Linkografia:

http://www.wired.it/attualita/ambiente/2015/09/24/nox-scandalo-volkswagen/

http://www.quattroruote.it/news/tecnica/2015/09/23/emissioni_consumi_cicli_di_prova_tutto_quel_che_c_e_da_sapere.html

http://www.arpa.emr.it/cms3/documenti/_cerca_doc/aria/ossidi_azoto.pdf

http://bmjopen.bmj.com/content/5/5/e006946.full

http://www.ilfattoquotidiano.it/2015/09/24/volkswagen-ecco-perche-in-europa-i-diesel-inquinanti-sono-legali/2066138/

http://eur-lex.europa.eu/legal-content/IT/TXT/?uri=URISERV:l28186

http://eur-lex.europa.eu/legal-content/IT/TXT/?uri=uriserv:mi0046

http://www.ilsole24ore.com/art/commenti-e-idee/2015-09-22/la-babele-standard-071155.shtml?uuid=ACSoDD2

http://www.mentepolitica.it/articolo/la-politica-ambientale-di-obama/84

Commenti (0)

Corsa alla terra.. il Brasile tra “land grabbing” e sviluppo sostenibile.

Tags: , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , ,

Corsa alla terra.. il Brasile tra “land grabbing” e sviluppo sostenibile.

Pubblicato il 28 febbraio 2013 by redazione

amazzoniaIl Land Grabbing è un fenomeno che ha acquisito grande rilievo negli ultimi anni. È difficile stimarne le dimensioni e la portata. Altrettanto difficile è comprenderne le possibili conseguenze. Interessante, però, è provare ad approfondire la storia socio-economica e politica di un paese che ha visto da vicino l’emergere di questo fenomeno. Il caso a cui si fa riferimento è quello del Brasile, che ha attraversato diverse fasi politiche e ha alternato decisioni opposte nel modo di approcciarsi all’intervento degli investitori esteri in relazione alla vendita dei propri terreni.

Il caso brasiliano: contesto socio-politico ed economico.

Il caso brasilianorisulta essere particolarmente interessante per diverse motivazioni. Innanzitutto il paese sudamericano è un paese emergente, destinato, insieme a pochi altri, ad aumentare il proprio peso specifico nel palcoscenico socio-politico ed economico mondiale.

Il Brasile è la sesta più grande economia mondiale e il secondo più grande produttore agricolo[1]. Tuttavia la distribuzione appare notevolmente iniqua: l’1,5 % di proprietari terrieri occupa il 52,6 % di tutte le terre agricole[2].

Oltretutto, è necessariosottolineare che la maggior parte delle terre incoltivate del globo si trova nell’Africa Subsahariana e in America Latina[3].

Ad ogni modo, il Brasile, nel corso degli anni, ha vissutole pratiche di Land Grabbing in un ruoloduplice e, sotto alcuni aspetti, ambiguo.

Infatti, da un lato, ha accolto e/o ‘subito’ (e, in seguito, limitato) l’arrivo degli investitori esteri, i quali hanno acquistato terreni brasiliani, aumentando notevolmente la propria presenza nell’economia del paese.Dall’altro, ha esportato il proprio sistema di agricoltura in diverse zone dell’Africa, soprattutto in Mozambico, ma anche del Sud America.

Brazil.LulaDaSilva.02

Luiz Inàcio Da Silva.

Per quanto riguarda il ruolo di paese ‘ricevente’, nel giro di dieci anni, dal 1995 al 2005, il capitale internazionale nell’industria agricola del paese sudamericano è aumentato dal 16% al 57%[4]. Questo tipo di attività èfacilitato da una serie di modifiche al regolamento relativo alle terre e al rapporto con gli investitori stranieri. Anche l’AGU, Advocacia General da Uniao (Istituzione brasiliana responsabile per l’esercizio delle legge pubblica in ambito federale), ha riconosciuto che lo stato brasiliano, nel corso degli anni, ha perso il controllo sull’acquisizione e la concessione delle terre[5].

Con l’arrivo del presidente Luiz Inàcio Da Silva, conosciuto anche come ‘Lula’ e il cui mandato è durato dal 2003 al 2011, il Brasile intraprende, però, una progressiva limitazione all’acquisizione della terra da parte di investitori stranieri, attraverso la creazione di un’apposita commissione, nata nel 2007. Nell’agosto del 2010 l’approvazione di una nuova legislazione restringe le acquisizioni di appezzamenti di terra da parte di compagnie controllate per il 50 % (o più) da capitale straniero e limita l’ammontare di terra, disponibile per l’acquisto,ad un appezzamento non maggiore di un quarto della ‘municipal area’ totale. Ad ogni modo, sono ancora in corso valutazioni del governo brasiliano relative al rapporto da mantenere con gli investitori stranieri e alle modifiche legislative da effettuare.

Brasile come investitore.

Il Brasileassume, però,come detto, una duplicità di ruolo nel panorama mondiale dell’acquisizione dei terreni agricoli. Infatti, limitate le entrate di capitale straniero nella propria economia agricola, il governo brasiliano ha portato avanti politiche di ‘land deal’ in terre straniere. Emblematico come il Brasile abbia investito, ad esempio, inParaguay: su 31 milioni di ettari di terra arabile è stato concesso il 25% a investitori stranieri e il 15% ai soli brasiliani.

La duplicità del ruolo del governo brasiliano ha portato ad un concatenarsi di eventi che hanno interessato diverse regioni del Sud America. In particolare, la crescita della produzione di soia negli anni ’70-’80 è stata responsabile del dislocamento di 2,5 milioni di persone nello stato di Paranà e di 300.000 nel Rio Grande do Sol[6]. La maggior parte di queste persone, costrette a spostarsi dalle proprie abitazioni, sono poi emigrate in Paraguay, acquistando terre. Questi contadini, provenienti dal Brasile, si sono stabiliti ai confini tra Basile e Paraguay. Tuttavia, gli affaristi brasiliani hanno continuato a comprare anche queste terre paraguayane. La produzione di soia occupa ora il 29% di tutte le terre agricole paraguayane ed è causa dell’aumento di povertà di quei contadini costretti alla marginalizzazione e alla disoccupazione nelle aree urbane[7].

L’acquisizione di terre estere da parte del Brasile non si è limitata ai confini continentali, come dimostra il caso del Mozambico in Africa.

Il Mozambico èil 184esimo paese più impoverito del mondo, su 187 paesi[8]. Nel 2009, il 55% della popolazione totale vive sotto la soglia di povertà, con meno di mezzo dollaro al giorno. Gli scambi commerciali tra i due paesi si sono intensificati nell’ultimo decennio e nel 2011 sono aumentati del 101,2 % rispetto all’anno precedente, raggiungendo un ammontare di 85,3 milioni di $[9]. Questi scambi, però, appaiono del tutto asimmetrici: infatti, 81,2 milioni di $ sono relativi alle importazioni dal Brasile al Mozambico e solo 4,1 milioni di $ riguardano le esportazioni dal Mozambico al Brasile.

Il Mozambico possiede circa 36 milioni di ettari di terra arabile e l’80% della popolazione lavora nel settore agricolo[10]. Con l’intensificarsi dei rapporti tra i due paesi, diversi imprenditori brasiliani hanno avanzato proposte per poter essere produttivi in Mozambico prima del 2015, in settori come quello della soia, della canna da zucchero, dell’etanolo. Esperienze di questo tipo si sono già viste in Mozambico, ad esempio, nel 2007, quando il gruppo minerario brasiliano denominato Vale ha acquistato 23,780 ettari di terra africana, costringendo 1313 famiglie – circa 5000 persone – a riallocarsi in altre zone e lasciare le proprie abitazioni[11].

L’intenzione da parte del governo del Mozambico pare confermarsi nella volontà di concedere al Brasile sei milioni di ettari per 50 anni, con eventuale diritto di prolungare di altrettanti anni, una volta terminato il primo mezzo secolo di acquisizione[12].

DisboscamentoConseguenze ambientali.

Di certo l’accaparramento della terra, prima, e lo sfruttamento della stessa, poi, provocanoconseguenze di diversa portata. Se da una parte accresce la dimensione della protesta per la violazione dei diritti umani e per i diritti dei popoli, dall’altra, sorgono alcune riflessioni anche in relazione al degrado ambientale e al consumo del suolo.

La zona amazzonica, ad esempio, subisce da anni un processo di disboscamento.

Le politiche del governo Lula sembrano aver dato alcuni frutti nella lotta al disboscamento, tuttavia, come si è visto, sono in corso alcune valutazioni della legislazione che potrebbero portare al modificarsi dello status quo e all’evolversi di uno scenario differente. Inoltre, bisogna sottolineare che, sebbene stia diminuendo, il disboscamento è ancora in atto e, sommato alle stime degli anni precedenti, la situazione appare ancora preoccupante.

Il modello agricolo brasiliano prevede che la maggior parte dell’area forestale trasformata in zona agricola diventi area destinata al pascolo e agli allevamenti. Nel 2002, ad esempio, l’area per la produzione di soia risulta di 4,9 milioni di ettari. Per il pascolo si stimano valori che superano di 10 volte quelli della coltivazione di soia[13]. Inoltre, dal 1990 al 2010 il numero di bestiame in Brasile è quasi triplicato (da 26 milioni a 70 milioni) e, di questo, l’80% è in Amazzonia[14]. Facilmente si comprendono gli effetti legati alle esternalità degli allevamenti: inquinamento, consumo di risorse, gas nocivi, etc.

La crescita della ‘produzione’ di carne ha portato alla perdita di oltre 700.000 kmq di foresta[15],senza contare i dati relativi agli incendi illegali spesso correlati al successivo utilizzo del suolo per attività di pascolo.

Oltre all’aspetto relativo alle aree destinate al pascolo, di particolare importanza è anche l’impatto della monocoltura di soia, spesso utilizzata come cibo per il bestiame. Infatti, è stato dimostrato[16]come il disboscamento della foresta amazzonica sia correlata all’espansione di questo cereale.

Tra il 2003 e il 2008, tra l’altro, vi è stata un incremento di 39.000 km quadrati dell’area destinata alla produzione di soia. Cambiando modalità e tipo di coltura la deforestazione nell’area in considerazione si ridurrebbe di 26.000 km2(40% in meno).

Questi sono alcuni dei dati conseguenti dal modello brasiliano di agricoltura degli ultimi decenni.

9 passi dentro e fuori dal Land Grabbing

ANNO Evento – Dato
Anni ’70-‘80 Grazie a finanziamenti del Giappone e delle Banche private accresce esponenzialmente la produzione industriale estensiva di soia.
Anni ’80-‘90 Brasile diventa uno dei maggiori produttori di soia, suscitando l’interesse di corporations come ADM, Cargill, Monsanto, Dupont.
1992 2,6 milioni di ettari di terreno sono gestiti da corporations straniere.
1995 Modifiche al regolamento relativo al rapporto tra terre e investimenti stranieri (in particolare, relativamente all’articolo 171 dalla Costituzione) facilitano l’ingresso di questi ultimi negli affari legati all’agricoltura del Brasile.
1995-2005 Capitale internazionale nell’industria agricola aumenta dal 16% al 57%.
1998 L’allora Presidente brasiliano Cardoso decide di far rinunciare al governo federale ad ogni controllo effetto sull’acquisto di terra da parte di compagnie straniere in Brasile.
2007 Una commissione, controllata direttamente dal Presidente Lula, è incaricata di ristabilire limiti alle forme di Land Deal.
2010 Viene approvata una nuova legislazioneche restringe le acquisizioni di appezzamenti di terra da parte di compagnie controllate per il 50% o più da capitale straniero e limita l’ammontare di terra disponibile per l’acquisto.
Luglio ‘12 Viene approvato il Report del deputato Marcos Montes per tutelare la libertà degli investimenti stranieri. È tuttora in corso una considerazione del governo per un’eventuale modifica legislativa.

Un modello da rivedere

La domanda riguardante la vendita di terra – e cioè se essa sia da considerare una possibilità di progresso per i paesi più poveri o un disastro ecologico e sociale per le popolazioni – difficilmente porterà ad una risposta univoca.

L’intervento da parte di investitori stranieri può certamente essere visto come risorsa per i paesi interessati (soprattutto africani e sudamericani) sia a livello economico, sia per il miglioramento della produttività agricola.

Ciò che si può notare, però, è che il modello proposto dal Brasile – che lo stato federale sudamericano intende esportare anche in Mozambico – appare non privo di problematiche: risulta contraddittorio che le stesse prassi che il Brasile ha affrontato in politica interna e risolto limitando il libero accesso degli investitori stranieri, siano poi riproposte a favore del Brasile stesso nell’approccio con uno stato estero.

Poiché il paese sudamericano, con la sua abbondanza di risorse, continuerà senza dubbio adessere un importante fornitore alimentare ed implementerà il proprio ruolo nello scenario socio-politico, sarebbe necessario che il modello di sviluppo proposto – interno ed esterno – si affermi in modo maggiormente sensibile alle tematiche ambientali.

Come si è detto, rimangono, inoltre, molte perplessità circa il rispetto dei diritti umani e dei diritti dei popoli autoctoni. Di certo, questoargomento non può essere tralasciato e merita un approfondimento più accurato.

di Tomaso Cimino

 


[1]  Inman, P. (2012) Brazil’s Economy Overtakes UK to Become World’s Sixth Largest, The Guardian: 6 March 2012.

Barbosa, J. (2011), Brazil: Senate Loosens Amazon Protections, Associated Press. 7 December 2011, in Clements E.A. e Fernandes B.M. (2012).

Clements E.A. e Fernandes B.M. (2012), Land Grabbing, Agribusiness and the Peasantry in Brazil and Mozambique, Paper presented at the International Conference on Global Land Grabbing II October 17‐19, 2012, Organized by the Land Deals Politics Initiative (LDPI) and hosted by the Department of Development Sociology at Cornell University, Ithaca, NY.

[2]DATALUTA – Banco de Dados da Luta pela Terra (2011) Brasil – Relatorio DATALUTA 2011. Presidente Prudente: NERA – Núcleo de Estudos, Pesquisas e Projetos de Reforma Agrária – FCT/ UNESP. in Clements E.A. e Fernandes B.M. (2012).

[3] Deininger K. e Byerlee D. (2011), Rising Global Interest in Farmland. Can It Yeld Sustainable and Equitable Benefits?, The International Bank for Reconstruction and Development/The World Bank (Report).

[4]Sauer S. and S. P. Leite. 2012. Agrarian Structure, Foreign Investment in Land, and Land Prices in Brazil, Journal of Peasant Studies, 39(3-4), 873-898 in Clements E.A. e Fernandes B.M. (2012).

[5] Vaz, L. (2010), Parecer determina maior controle sobre aquisições de terras por estrangeiros. Correio Braziliense: 24 August 2010.

[6] Altieri, M. A. and E. Bravo (2009), The Ecological and Social Tragedy of Crop-Based Biofuel Production in the Americas, In: Jonasse, R. (ed.) Agrofuels in the Americas. Food First Books, Oakland: CA, 15-24.

[7] Carmo, M. (2012), Brasileiros terão que provar que terras no Paraguai são legais, diz ministro, BBC Brasil: 13 February 2012, in Clements E.A. e Fernandes B.M. (2012).

[8]United Nation’s Human Development Index (2011), Human Development Report 2011 Sustainability and Equity: A Better Future for All.

[9]MRE – Ministerio das Relações Exteriores do Brasil (2012) Visita ao Brasil do Primeiro-Ministro de Moçambique, Aires Bonifácio Baptista Ali – 13 a 18 de abril 2012. Press Release, n. 103, 16 April. in Clements E.A. e Fernandes B.M. (2012).

[10] Republic of Mozambique. 2009. Estratégia para Reflorestamento. Minísterio da Agricultura e Direcção Nacional de Terras e Florestas, Maputo, July 2009. in Clements E.A. e Fernandes B.M. (2012)

[11] Mosca, J and T. Selemane (2011). El dorado Tete: os mega projectos de mineração. Centro de Integridade Pública, Maputo, November 2011 in Clements E.A. e Fernandes B.M. (2012).

[12] Groppo P. (2011), T come Terra: Mozambico e i sei milioni di ettari offerti ai brasiliani, Scirocco News. Articolo del 28-08-2011 di Paolo Groppo

Riva A. (2011), Brasile – Mozambico: la soia brasiliana emigra in Africa, L’osservatore Carioca: 14 agosto 2011

[13]United States Department of Agriculture (13 Gennaio 2004), The Amazon:  Brazil’s Final Soybean Frontier, Production Estimates and Crop Assessment Division
Foreign Agricultural Service.

[14]Instituto Brasileiro de Geografia e Estatistica Brazilian Institute of Geography and Statistics—IBGE (dati 2010), Sistema IBGE de Recuperacao Automatica (SIDRA).

[15]Instituto Brasileiro de Geografia e Estatistica Brazilian Institute of Geography and Statistics—IBGE (dati 2010), Sistema IBGE de Recuperacao Automatica (SIDRA).

[16]Arima E., Richards P., Walker R., Caldas M. (2011), Statistical Confirmation of Indirect Land Use Change in the Brazilian Amazon, IOP Science – Environmental Research Letters.

Commenti (0)

Land Grabbing: lo sviluppo “tossico” del mondo

Tags: , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , ,

Land Grabbing: lo sviluppo “tossico” del mondo

Pubblicato il 31 gennaio 2013 by redazione

congoNell’ultimo decennio è emerso con decisione un fenomeno conosciuto col nome di ‘landgrabbing’. Con tale termine s’intende l’acquisto (o l’acquisizione in concessione per molti anni) di vaste aree e appezzamenti di terreno, principalmente africane e sudamericane, da parte di pochi paesi ‘sviluppati’ o poche grandi aziende, corporations o soggetti economici multinazionali.

Il termine ‘grabbing’, che letteralmente significa ‘accaparramento’, ha assunto un’accezione negativa. Infatti, se da una parte i governi degli Stati venditori affermano che la vendita di parte della propria terra è un’eccellente possibilità di sviluppo per tutti, molte sono le preoccupazioni – sollevate soprattutto dalle ONG che lavorano nelle zone toccate dal fenomeno – relative all’uso dei terreni in questione.

original_BMZgraphLand-GrabPressioni commerciali per l’acquisto della Terra

La ricerca di terreni fertili attraverso i quali i paesi occidentali e i paesi in via di sviluppo – come ad esempio, i paesi denominati BRICS e/o BASIC: Brasile, India, Cina, Russia, Sud Africa) – possano garantire una risorsa agricola per soddisfare l’alimentazione della propria popolazione ha portato alle sopra citate pressioni commerciali sull’acquisto della terra.

D’altra parte, nel 2050, secondo i dati delle Nazioni Unite, gli abitanti del pianeta Terra saranno 9 miliardi e il rischio (e la preoccupazione degli esperti) è quello di un numero sempre maggiore di persone con scarsa possibilità di accedere alle risorse alimentari.

Oltre a ciò, la volontà dei paesi acquirenti di trarre guadagno e profitto dall’accesso a terre non disponibili nel paese di provenienza e/o accessibili solo a costi estremamente più alti, ha portato all’introduzione di monocolture, all’uso del terreno per ottenere qualsiasi materia prima in quantità utili a produrre carburanti biologici e allo sfruttamento delle zone caratterizzate da una discreta presenza di acqua, elemento definito da molti ‘oro blu’, tanto preziosa, ma, altresì, non infinita.

08.09 s01 Bodenschätze Afrika Rieger 2Gli effetti dell’arrivo degli investitori stranieri in terre come quelle africane e sudamericane sono stati diversi e particolari, di caso in caso. Di certo, però, conseguenze comuni del landgrabbing sono: l’impoverimento dei terreni a causa delle monocolture, che li privano della biodiversità necessaria per restare fertili e, alla lunga, li rendono aridi; l’allontanamento dei contadini dalla loro unica risorsa di sussistenza, cioè da terreni considerati di proprietà per consuetudine e non per diritto legale, che, invece, li attribuisce agli Stati. E ancora, il landgrabbing può contribuire all’iniqua distribuzione delle risorse alimentari prodotte dalla coltivazione dei terreni acquisiti, all’inquinamento e al danno ambientale che ha visto, per esempio, un disboscamento continuo e inesorabile della foresta amazzonica a favore dei pascoli per gli animali destinati alla produzione di carne, o finalizzato alla produzione di soia e di altre risorse per i biofuel.

Certo è che, nell’ottica delle istituzioni locali che sovente hanno la proprietà di diritto sui terreni, l’arrivo di investitori stranieri può portare a diversi aspetti positivi: dall’ingresso di capitale straniero nelle casse di economie spesso in difficoltà, all’aiuto che i paesi più ‘sviluppati’ possono apportare, in termini di esperienza, tecnologia e fondi, a sistemi considerati ‘arretrati’.

viso alberoUna concezione ambigua di progresso

Tuttavia, quello che sembra emergere è uno scenario ambiguo che può derivare da una discutibile concezione di progresso. Appare necessario non giustificare azioni dannose sia per le popolazioni locali, che per l’ambiente, sotto il ‘termine ombrello’ di sviluppo, concetto legato alla parzialità dell’Occidente, come ci ricordano le riflessioni dell’antropologo Latouche. Quest’ultimo, infatti, ha più volte sottolineato come l’idea di sviluppo, impensabile per altre popolazioni e spesso non traducibile nella lingua di queste ultime, possa diventare un termine ‘tossico’, soprattutto se in nome di questa idea si portano avanti azioni contrarie alla cura dell’ambiente e al benessere degli abitanti delle zone interessate.

D’altro canto, appaiono necessarie precise politiche mirate ad evitare che le preoccupazioni e le denunce delle ONG presenti in loco abbiano ulteriori conferme e conseguenze a livello socio-politico ed ambientale.

Occorre, probabilmente, un’ulteriore riflessione circa i diritti di autodeterminazione di quei popoli che vivono una terra appartenente a Stati troppo spesso frettolosi nel concedere ad altri il diritto di usarla.

Inaridire i terreni, sfruttarne malamente le risorse, incrementare i tassi di povertà e fame nel mondo, per combattere il problema relativo alla ‘scarsità alimentare’ di alcuni, rischia di portareal circolo vizioso di uno sviluppo non sostenibile per tutti.

di Tomaso Cimino

Commenti (0)

Retrofit: la vecchia cara 500 si “fa” elettrica

Tags: , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , ,

Retrofit: la vecchia cara 500 si “fa” elettrica

Pubblicato il 20 ottobre 2012 by redazione

500 retrofitQualche volta vi è forse capitato di voler riesumare una vecchia auto storica. Troppo piena di ricordi per essere abbandonata. Tuttavia non è così facile, soprattutto nelle grandi città dove l’inquinamento è un problema quotidiano, e regole severe che ne limitano l’utilizzo. Anche una scampagnata fuoriporta con la famiglia non è più possibile. Ma a fronte dei nuovi incentivi, che riguarderanno l’acquisto di nuove auto elettriche, la cui entrata in vigore è prevista per l’anno 2013, una domanda inquietante incombe: che fine faranno questi veicoli storici? Finiranno dallo sfasciacarrozze? Andranno ad aumentare le montagne di rifiuti che già ci sommergono? E allora che fare?

Qualcuno c’ha pensato: è nato il retrofit elettrico. É un procedimento tecnologico grazie al quale è possibile convertire un’auto in una macchina elettrica, una e-car.

Lo scopo finale è quello di non distruggere le auto storiche ma candidarle a una lunga e nuova giovinezza , trasformandole . Una fine sicuramente migliore dell’abbandono, dello smontaggio o della rottamazione, che causerebbero più danni che altro. Inoltre queste auto, quando sopravvivono, spesso vengono spedite nei mercati dell’Est dove continuano a emettere gas inquinanti.

Ma come si realizza un buon retrofit ? Girovagando per internet mi sono imbattuta in una simpatica associazione che c’è riuscita con il vecchio amato cinquino: Eurozev.

Ma prendiamola un pò più alla larga e torniamo all’inizio, alla nascita del motore. Prima dello sviluppo sfrenato delle auto, costruite così come noi tutti le conosciamo, i motori erano due: quello a scoppio e quello elettrico. Inizialmente viaggiavano di pari passo ed erano in stretta concorrenza tra loro. Ben presto però fu chiaro che il motore endotermico era il più conveniente, sia per i costi che per le capacità stesse del motore. Quello elettrico fu quindi dimenticato dalle grandi case automobilistiche e solo alcune piccole aziende ne continuarono la produzione. Queste, prive di sostegni economici adeguati per la ricerca, necessari ad abbattere i costi di produzione, relegarono il motore elettrico ad un mercato decisamente ristretto.

Recentemente però le vetture elettriche sono state rivalutate soprattutto nelle grandi città, come veicoli ecologici, non inquinanti e silenziosi.

azionamento_500Realizzare un retrofit usando la beneamata 500.

Il procedimento è molto più semplice di quanto si possa immaginare e può essere usato con qualsiasi macchina senza particolari vincoli di età. Il veicolo viene trasformato sostituendo il vecchio motore con un motore elettrico, converter, batterie, etc: nuova tecnologia tipica delle moderne auto elettriche. Alla fine di originale resterà solo il telaio con le funzionalità di base.

Il veicolo modificato manterrà le stesse prestazioni della 500 originale, risulterà più prestante di molte altre vetture elettriche già presenti sul mercato e sarà particolarmente adatta a un uso cittadino.

Naturalmente il nuovo veicolo, derivato da una vettura storica precedente al 1993, deve per legge essere rimmatricolato. Si tratta di una procedura lunga e penosa che non garantisce sempre la buona riuscita del progetto. Sul sito http://www.eurozev.org/Notizie.htm si possono trovare molte informazioni utili. come questa: “Si può realizzare il proprio cinquino elettrico e farlo omologare alla sede Italiana del TUV (Ente di certificazione tedesco) per poi immatricolarlo con targa tedesca ed infine ri-importarlo in Italia, il tutto ad un costo di alcune migliaia di euro. Oppure, come ho deciso di fare io, creare una associazione ad hoc, per la realizzazione, il collaudo e la sperimentazione nel settore dei veicoli elettrici, farsi rilasciare una targa di prova, assicurarla (costosamente) e circolare in via del tutto provvisoria, facendo tutto il possibile perché il legislatore ci aiuti a trovare una soluzione.”

Posso crearmi da solo un veicolo retrofit, anche se non sono un esperto di motori e quanto mi può costare?

L’ideale sarebbe avere almeno una discreta conoscenza nel settore elettrotecnico in quanto gli altri eventuali ostacoli sono tutti facilmente superabili grazie anche all’aiuto di molte aziende che eseguono i diversi adattamenti meccanici.

Per quanto riguarda il costo dipende molto dal tempo che saremo in grado di dedicare al nostro progetto e alla bravura nella ricerca dei pezzi necessari alla conversione. Diciamo che si parte da un minimo di 1500/2000 euro per un retrofit prevalentemente riciclato, fino ad un massimo di 12000/15000 euro nel caso si decida di usare le componenti migliori presenti sul mercato. Ovviamente stiamo parlando di un lavoro home made. Mancano le spese di un eventuale assemblatore. In ogni caso da quando l’Eurozev ha aperto la strada, creando il primo prototipo, è possibile che i costi siano nel frattempo diminuiti.

Quali sono i vantaggi e le differenze con il vecchio cinquino?

La prima grande differenza consiste nella revisione che deve essere effettuata dopo molte migliaia di chilometri e consiste nella semplice sostituzione dei cuscinetti del motore. Non saranno più necessari tagliandi, filtri dell’olio, candele, iniettori, radiatori, marmitte catalitiche, etc. etc. (manutenzione ridotta dell’85%) Non servirà più nemmeno il bollo e l’assicurazione RCA costa 50% in meno. Per non menzionare il costo di un pieno che si aggira intorno ai 2 euro. Stiamo parlando di un risparmio notevole che andrà ad ammortizzare rapidamente il costo della conversione effettuata. Inoltre il nuovo veicolo sarà tre volte più efficiente della nostra vecchia 500 a motore, dettaglio interessante per tutti coloro che ostinatamente, e nonostante i divieti, usano l’auto tutti i giorni per andare al lavoro.

Scheda tecnica del nuovo 500-retrofit

* Motore elettrico Agni 135, 13kW.

* Batterie al litio polimeri: 96 Volts 100 Ah, per un totale di circa 9,6 kWh di energia

* Controller Phoenix 600 Ampere con capacità di recupero energetico in rilascio (fino a 3kW)

* Trasformatore DC/DC elektrosistem SPC500m (necessario per alimentare l’impianto a 12 volts, luci, frecce, stops e tergicristalli)

* Charger Zivan due da 20 Ah

* Fili, magnetotermici, fusibili, cavi etc.etc.

Qual’è l’autonomia di una 500 elettrica?

L’autonomia del cinquino realizzato dalla Eurozev è di 100 km, ma esistono diverse altre batterie sul mercato in grado di raggiungere anche 200-300 o addirittura 400 km. Ovviamente si tratta di batterie molto più grandi, ma la ricerca sta elaborando nuove batterie in grado di superare quelle al litio o addirittura quelle al litio-titano.

Rapporto velocità-autonomia nel nuovo cinquino.

Il gruppo di Eurozev ha scelto di mantenere le stesse caratteristiche della 500 originale grazie a delle batterie a litio-polimeri, ma in generale un veicolo elettrico ha batterie con un rapporto peso/energia abbastanza basso rispetto agli altri carburanti in circolazione. Anche questo problema è però aggirabile se, al momento della conversione, si tiene conto delle limitazioni energetiche della batteria.

Quanto durano le batterie?

Dipende dalla batteria che sceglieremo di montare. Quelle al piombo hanno una durata di circa un centinaio di cicli. Mentre quelle a litio-polimeri possono arrivare anche fino a migliaia di cicli di carica/scarica.

Cosa aspettarsi in futuro: batterie alla Schiuma di Grafene

Il futuro delle auto elettriche potrebbe dipendere, almeno parzialmente, da questa scoperta. Alcuni ricercatori cinesi (Li Na, Chen Zongping, Ren Wencai, Li Feng e Cheng Hui-Ming) hanno descritto nell’edizione dell’8 Ottobre 2012, della rivista PNAS (Proceedings of the National Academy of Sciences of the United States of America), una batteria flessibile, creata proprio grazie alla schiuma di grafene, in grado di ricaricarsi in soli 15 minuti.

Ricordiamo che il grafene è un materiale costituito da uno strato monoatomico di atomi di carbonio altamente legati e disposti in ordine esagonale. La sua alta conducibilità lo rende quindi un soggetto ideale per la creazione di una batteria elettrica; esso infatti può caricarsi e scaricarsi alla stessa velocità di un condensatore – scarica completa in 20 secondi -, senza rinunciare alla flessibilità che risulta duratura anche quando viene piegato più volte.

Facendo crescere dei filamenti tridimensionali di grafene su di una speciale spugna metallica si ottiene la nostra schiuma di grafene, dotata anch’essa di grande flessibilità, resistenza e conducibilità elettrica.

Il lavoro svolto dai ricercatori cinesi prevede la creazione di un composto litio-titanio da collocarsi sulla nostra schiuma; questa ha dimostrato di avere la capacità di migliorare visibilmente le prestazioni dell’elettrodo creato. Le qualità di questo materiale hanno spinto gli autori a creare una batteria sperimentale in cui il composto litio-titano era l’anodo, e il catodo era costituito da un insieme di litio-ferro-fosfato e schiuma di grafene. Il risultato è stato una batteria capace di caricarsi in meno di 15 minuti, mantenendo una densità energetica e un peso pari a quelli delle altre batterie agli ioni di litio. I ricercatori sostengono che la densità energetica sarebbe ulteriormente migliorabile.

Comunque la batteria sarebbe già commercializzabile con le sue attuali capacità, il vero problema è il costo della produzione della schiuma di grafene e i tempi richiesti per la sua produzione che al momento sono lunghi. Prima di diffondere su larga scala la nuova batteria è quindi assolutamente necessario trovare una soluzione per i costi di produzione che la renderebbero altrimenti inaccessibile. La  possibilità di un’alternativa alle comuni batterie per le auto elettriche è stata però finalmente trovata. Non ci resta che aspettare che questa nuova batteria entri in commercio a prezzi accessibili.

Vorrei concludere lasciandovi un commento di Marchionne sulla possibilità da parte di Fiat di produrre nuove 500 elettriche, esemplificativo del pensiero che a quanto pare va per la maggiore. Credo che le sue parole possano farci riflettere molto sull’attuale pensiero comune. Forse dovremmo imparare ad essere un po’ più aperti alle nuove possibilità anche se richiedono un minimo di sacrificio e impegno iniziale. Dopotutto se scegliamo con giudizio verremo ripagati per le nostre scelte.

“Capisco che entusiasti politici e amministratori pubblici vedano questa trazione come rimedio per tutti i mali di inquinamento e rumore ed emissioni, ma oggi si tratta di una tecnologia che non è alla portata delle tasche normali, è una mobilità poco sostenibile in termini di diffusione di massa. Non sto dicendo che sia una tecnologia da abbandonare, tutt’altro, ma indirizzare tutto lo sforzo normativo per promuovere questo tipo di trazione porterebbe solo ad un aumento di costi senza nessun beneficio immediato e concreto. Sembra più saggio concentrarsi su motori tradizionali e carburanti alternativi”.

di Mariacristina Carboni

 

Fonti

Per maggiori informazioni consiglio la lettura dell’articolo originale: http://www.pnas.org/content/early/2012/10/05/1210072109.full.pdf+html?sid=6fa2572f-ca5e-4f8c-91e7-3c04538bbf45e in alternativa, l’articolo pubblicato su arstechnica:

http://arstechnica.com/science/2012/10/the-fast-and-the-flexible-graphene-foam-batteries-charge-quickly/

Altre informazioni sul grafene e le emissioni inquinanti:

http://www.nextme.it/scienza/natura-e-ambiente/4452-grafene-cambiamenti-climatici

Altre fonti:

http://it.ibtimes.com/articles/33051/20120710/retrofil-elettrico-fiat-500-auto-elettrica.htm

 

Commenti (1)

Acqua in città: crescono i consumi a spese dell’ambiente

Tags: , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , ,

Acqua in città: crescono i consumi a spese dell’ambiente

Pubblicato il 28 settembre 2012 by redazione

via_simetoCon la crescita della popolazione, l’urbanizzazione e lo sviluppo economico, la domanda di acqua dolce nelle aree urbane di tutta Europa è in forte aumento. Allo stesso tempo il cambiamento climatico e l’inquinamento stanno influenzando anche la disponibilità di acqua pulita per chi abita nelle città. Come possono i grandi centri europei continuare a fornire di acqua dolce pulita i propri residenti?

Nel mese di luglio 2011 le intense piogge hanno allagato alcune zone di Copenaghen. I sistemi di drenaggio urbano non sono stati in grado di gestire la quantità d’acqua intensa, che in due ore superava 135 mm. E come se non bastasse, poco dopo le inondazioni, gran parte dell’acqua potabile della città è stata contaminata a causa delle riparazioni resesi necessarie lungo i viadotti principali. Problemi di questo tipo si verificano anche in altre città.

Più di tre quarti dei cittadini europei vive in aree urbane e necessita di acqua pulita. Circa un quinto del totale di acqua dolce estratta in Europa alimenta i sistemi d’acqua pubblica – acqua è destinata a famiglie, piccole imprese, alberghi, uffici, ospedali, scuole e anche industrie.

Garantire un rifornimento costante di acqua pubblica pulita non è un compito semplice. Il sistema idrico dipende da molti fattori, inclusi popolazione e dimensione del nucleo familiare, i cambiamenti delle caratteristiche fisiche delle superfici terrestri, il comportamento dei consumatori, le richieste dei settori produttivi (legati ad esempio alle attività turistiche), la composizione chimica dell’acqua e la stessa logistica di stoccaggio dell’acqua e il suo trasporto.

E poi ci sono le nuove sfide del cambiamento climatico che includono improvvise inondazioni, ondate di caldo, alternate a periodi di carenza idrica.

Per prevenire le crisi idriche urbane, abbiamo bisogno di gestire le risorse, in modo efficace, in ogni fase: dalla fornitura di acqua pulita, ai diversi impieghi che ne devono fare coloro che la consumano.

Ciò potrebbe comportare una ridotta disponibilità di acqua e la necessità di dover trovare nuovi sistemi di raccolta e un diverso modo di usarla. La gestione dell’acqua deve integrarsi maggiormente nella più ampia gestione urbana, tenendo conto delle caratteristiche del contesto locale.

Pagare per l’acqua che utilizziamo
I progressi tecnologici e i nuovi sistemi di tariffazione, hanno già dimostrato da soli di ridurre in modo significativo la quantità di acqua utilizzata da parte delle famiglie, che corrisponde al 60-80% dell’acqua pubblica destinata a tutta l’Europa. I miglioramenti tecnologici raggiunti negli elettrodomestici, come lavatrici e lavastoviglie, per esempio, hanno contribuito a ridurre l’utilizzo di acqua senza che fosse necessario cambiare i propri comportamenti o essere consapevoli delle questioni idriche aperte.

Miglioramenti più significativi si possono poi ottenere modificando le modalità d’uso dell’acqua destinata all’igiene personale, che rappresenta attualmente il 60% del consumo di acqua domestico. Dispositivi sostitutivi dei serbatoi delle toilette, per esempio, forniscono un modo economico e semplice per ridurre l’acqua utilizzata per ogni litro di scarico. Piccoli accorgimenti per i sistemi doccia, simili a quelli per gli scarichi, possono far risparmiare dell’altra acqua.

Come indicato nelle direttive europee, nel quadro acque, legando il prezzo dell’acqua al volume consumato se ne incentiva un uso più sostenibile. In Inghilterra e nel Galles, le persone che vivono in proprietà monitorate con questo rapporto utilizzano in media il 13% in meno di acqua di quelle che pagano un costo forfettario.

Accumulo-acqua-piovanaRiutilizzare le acque non potabili
Solo il 20% dell’acqua utilizzata nei settori commerciali, che si approvvigionano a un sistema idrico pubblico, viene effettivamente consumata. Il restante 80% viene restituito all’ambiente, soprattutto come acque reflue trattate.

Nelle città, le superfici sigillate dal cemento, in genere incanalano le precipitazioni alle reti fognarie dove si uniscono alle acque reflue. Questo impedisce alla pioggia di infiltrarsi nel terreno e di rimanere così a nostra disposizione per un uso diversificato nel tempo. Le acque piovane e quelle reflue, prima di essere restituite ai fiumi, spesso passano attraverso gli impianti di trattamento delle acque, di solito lontano dalle città. Con alcune modifiche ai sistemi idrici urbani, sia l’acqua piovana sia quella di scarico, meno inquinate, potrebbe essere restituite agli utenti urbani.

energie sostenibiliLe acque grigie.

Con il termine acque grigie si intendono tutte le acque reflue domestiche, tranne quelle del WC, provenienti da bagni, docce, lavabi e dalla cucina. Questa acqua può essere trattata direttamente in sito o lasciata così com’è per un uso di qualità inferiore a quella richiesta per l’acqua potabile, come per esempio per lo scarico dei servizi igienici.

Le città potrebbero anche raccogliere le acqua piovane che scorrono giù dai tetti, o in strada, in appositi contenitori di ricezione e poi ipiegarle, per usi non potabili, come sciacquoni, autolavaggi o giardinaggio oppure incanalarle direttamente in serbatoi di stoccaggio di acque sotterranee. Sistemi come questi possono essere installati nelle residenze domestiche o commerciali e non richiedono cambiamenti particolari nelle abitudini dei consumi quotidiani.

Tuttavia, vi sono altri accorgimenti che si possono attuare per migliorare gli approvvigionamenti d’acqua prima che questa raggiunga i locali domestici.

Trattenere l’acqua nelle fontane, facilitare la sua infiltrazione del terreno o l’accumulo nelle cisterne non è solo vantaggioso economicamente, ma offre anche degli spazio ricreativi per i residenti locali e un benefico effetto di raffreddamento nei periodi di calura estiva.

Ridurre “le perditae di rubinetto”
Le perdite di acqua causate di impianti inadeguati può essere anche considerevole. In Croazia, quasi il 40% della fornitura totale di acqua si perde nella rete di trasporto dell’acqua stessa.

Queste perdite possono essere prevenute attraverso il rinnovo delle reti stesse e con una costante manutenzione, ma anche attraverso l’uso di nuove tecnologie. Esistono sistemi che impiegano sensori in grado di riconoscere e localizzare il rumore causato da una perdita d’acqua o dispositivi che utilizzano segnali radio per rilevare la presenza di acqua corrente. Applicando queste tecnologie ai sistemi di acqua pubblica si riducono molto le perdite d’acqua e si riescono a coprire i fabisogni straodinari. L’unico problema aperto resta il costo economico, perché il rinovo delle reti idriche e delle infrastrutture, richiede investimenti significativi.

È tempo di agire

Il raggiungimento di un uso più sostenibile delle risorse idriche urbane pubbliche richiede non solo l’attuazione di misure come quelle sopra citate, ma anche la sensibilizzazione dell’opinione pubblica sui problemi di conservazione dell’acqua.

Gli strumenti disponibili per informare i consumatori sono diversi e includono siti web, programmi scolastici, opuscoli di enti locali e di mass media.

Il marchio di “qualità ecologica” stampigliato sugli elettrodomestici e le eco-certificazione degli alberghi, per esempio, può svolgere un ruolo importante nella sensibilizzazione, aiutando i consumatori a fare scelte informate finalizzate ad una maggior efficienza idrica e alla conservazione dell’acqua.

Un uso realmente sostenibile delle risorse d’acqua dolce non può essere raggiunto senza ulteriori miglioramenti per la sostenibilità dell’uso delle acque urbane.

(dal sito dell’Agenzia Europea per l’Ambiente – 13 Settembre 2012)

a cura di Adriana Paolini

 

Commenti (0)

Advertise Here

Foto da Flickr

Guarda tutte le foto

Advertise Here

LINK