Archivio Tag | "India"

Pechino città Ecologica

Tags: , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , ,

Pechino città Ecologica

Pubblicato il 12 gennaio 2020 by redazione

La Grande Muraglia Verde: il nuovo gigantesco polmone di Pechino

deserto del Gobi

Deserto del Gobi.

Pechino si è ritrovata a far fronte a due grandi problemi: il primo consiste nell’avanzamento del deserto del Gobi, con l’incalzante ritmo di 20-30 metri annui di sabbia e dune che avanzano a velocità tripla rispetto al secolo scorso (ogni anno in Cina si spendono l’equivalente di 10 miliardi di dollari per tentare di contrastare la desertificazione del territorio); il secondo problema, ormai tristemente noto a tutti, è l’inquinamento dell’aria e i conseguenti cambiamenti climatici che si fanno sentire con il clima che sembra impazzito. Catastrofiche siccità e precipitazioni annue diminuite dal 2001 ad oggi del 37%, aumento del vento e delle tempeste di sabbia, per non menzionare le polveri sottili e le emissioni inquinanti del carbone usato nell’industria e per il riscaldamento; tutti fattori che hanno causato danni economici incalcolabili. La terra ormai arida si rifiuta di produrre e ha spinto oltre 400 milioni di contadini eco-profughi a trovare lavoro altrove. Si tratta di una situazione che diventa sempre più estrema col passare degli anni, causata dall’avidità e dalla prepotenza dell’uomo a cui ora non resta altra scelta che correre ai ripari.

grande-muraglia-verde-cinese

La grande muraglia verde cinese.

Non volendo però spostare la capitale millenaria –come si farebbe normalmente fatto in una situazione simile e come è già accaduto altrove in passato- e non avendo i mezzi per contrastare i cambiamenti climatici, a Pechino hanno deciso di creare la cosiddetta “Grande Muraglia Verde”, ovvero di dar vita artificialmente alla più grande foresta asiatica con 300 milioni di alberi piantati nella regione di Hebei, a nord e ad ovest della capitale, per un totale di 250 mila kilometri quadrati. Si tratta senza alcun dubbio di un progetto ambizioso che sfida i limiti della natura e dell’uomo; un progetto senza precedenti. Come annunciato dal premier Wen Jiabao, saranno investiti circa 30 miliardi di dollari per la riforestazione di pioppi, faggi, abeti e betulle e saranno deviati ben 24 fiumi per garantire l’irrigazione dell’area. Nonostante la prudenza mostrata dagli scienziati nei confronti del progetto, i tremila membri del parlamento sono fiduciosi nella buona riuscita dell’operazione. Infatti ripongono nel progetto la speranza che la foresta possa portare umidità, respingendo così il deserto e inducendo la formazione di nuvole e lo scarico di piogge, oltreché la diminuzione dell’inquinamento. Il sindaco ha quindi chiamato tutta la popolazione ad agire: ognuno deve comprare e piantare lungo la Grande Muraglia, situata a pochi kilometri dalla periferia dalla capitale, almeno una pianta. Quest’area iniziale prenderà il nome di “Bosco del Millennio”. Il vice direttore dell’Amministrazione forestale dello Stato, Zhang Yongli, ha comunicato in una conferenza stampa che saranno mobilitate ogni anno 650 milioni di persone al fine di riuscire nell’opera di riforestazione per un totale di ben 26 miliardi di alberi nei prossimi dieci anni. Dal 2011 ad oggi 614 milioni di cinesi hanno già preso parte all’operazione di rimboschimento volontario in tutto il paese, piantando 2,51 miliardi di alberi e occupando un area di 6 milioni di ettari. Secondo le previsioni entro il 2020 si dovrà raggiungere la considerevole cifra di 50 milioni di ettari della neo area forestale, fino a coprire il 23 % della superficie totale delle foreste cinesi. Obiettivo che a questa velocità potrebbe essere raggiunto già entro il 2015. Questo dimostra che anche imprese titanicche come queste non sono poi così impossibili e che con costanza e sacrificio possiamo davvero migliorare il mondo in cui viviamo, e non solo distruggerlo.

Un nuovo sistema di misurazione delle emissioni di CO2?

Pare che il progetto non si limiti solo a rallentare l’avanzata del deserto o a ridurre l’inquinamento. Si tratta di un progetto ben più ampio in cui la foresta diventerà un vero e proprio sistema per monitorare con precisione le emissioni di gas serra, permettendo così l’ideazione e la realizzazione di progetti volti alla riduzione di queste emissioni.

Il vice-presidente dell’Accademia delle scienze della Cina, Ding Zhongli afferma inoltre che: “I ricercatori redigeranno delle liste di emissioni di gas serra per valutare quantitativamente le emissioni di anidride carbonica generate dalla natura o dalle attività umane. La Cina progetta anche di mettere in atto un sistema per sorvegliare il livello di CO2 in atmosfera attraverso l’analisi satellitare, la sorveglianza aerea e al suolo e la modellizzazione atmosferica. Questo processo di ricerca dovrebbe fornire alla Cina delle informazioni più solide per poter trattare i dossier legati al cambiamento climatico, in particolare la riduzione delle emissioni di carbonio ed i negoziati internazionali”.

Infatti grazie a questa mossa la Cina non dovrà più essere sottoposta alle stime internazionali sulle sue emissioni, ma sarà in grado di effettuarle autonomamente.

Ding ha anche comunicato all’agenzia ufficiale Xinhua che “La Comunità scientifica cinese si impegnerà sul sequestro del carbonio e gli impatti del cambiamento climatico nelle diverse regioni, al fine di preparare la Cina all’adattamento climatico ed allo sviluppo verde. A causa del riscaldamento climatico, il nord-est della Cina avrà probabilmente migliori condizioni per la coltura del riso, mentre il nord della Cina soffrirà della diminuzione delle precipitazioni e della siccità. Valuteremo gli impatti del riscaldamento climatico su un periodo più lungo in 5 regioni per fornire dei consigli per l’adattamento”.

Secondo un rapporto pubblicato a novembre del 2011 dalla seconda Assemblea nazionale cinese sul cambiamento climatico: “Aumentare i “pozzi di carbonio” del Paese, vale a dire l’utilizzo delle foreste e di altre risorse naturali e umane per catturare l’anidride carbonica dall’atmosfera, è molto importante per la riduzione del carbonio”. Esattamente come già sostenuto da Ding.

Auto, bus e taxi elettrici: la rivoluzione elettrica cinese

Quindici miliardi di dollari investiti per sviluppare entro il 2020 un industria che punti sulla green economy: stiamo parlando dei veicoli elettrici.

Già da alcuni anni in Cina è in corso la sperimentazione sull’utilizzo di taxi elettrici che colleghino Pechino ad Hangzhou e Shenzhen. Pare che il progetto abbia avuto un notevole successo sia tra la popolazione che tra le varie aziende al punto che anche Warren Buffett ha concesso un finanziamento alla maggiore casa produttrice di batterie elettriche al mondo, l’azienda cinese BYD. Azienda che si occupa già della produzione dei bus e taxi elettrici circolanti in Cina oltre che dell’organizzazione dei trasporti pubblici.

E proprio sui bus elettrici sembra aver voluto scommettere la BYD: a febbraio aveva incrementato con 1500 autobus elettrici la sua “flotta” di trasporti pubblici; già allora la più numerosa al mondo. Inoltre la città di Shenzhen è stata la prima in Cina a sovvenzionare i veicoli elettrici oltre che lanciare, sempre per prima, la vendita di auto elettriche a privati. Ovunque ci si volti, in Cina si vedono predominare i motorini elettrici, neo-sostituti delle vecchie biciclette. Complice anche la spinta del governo verso la nuova green-Era, il futuro della Cina è ormai deciso: la tecnologia deve essere ecocompatibile ed ecosostenibile così da poter offrire innovazione e nuovi posti di lavoro senza però “porre nuove barriere al commercio verde”, come affermato dal presidente HuJintao al lancio del dodicesimo piano quinquennale cinese all’insegna dello sviluppo verde. “ La Cina darà priorità assoluta al settore verde per attirare investimenti stranieri” questo afferma il presidente Hu Jintao, promettendo che la produzione totale annuale dell’industria ambientale cinese raggiungerà i 2mila miliardi di yuan entro il 2015, con un investimento tra il 2011 e il 2015 di oltre 3mila miliardi di yuan.

Inoltre il presidente ha dichiarato che “La forte domanda verde e l’ambiente d’investimento solido della Cina forniranno un mercato vasto e grandi opportunità di investimento per le imprese di tutti i paesi, in particolare quelli della nostra regione”. Infatti il dodicesimo piano quinquennale prevede ben 3 trilioni di yuan di investimento per la tutela dell’ambiente tra il 2011 e il 2015, con una crescita del settore pari al 15-20%  creando così oltre 10 milioni di posti di lavoro.

Per quanto riguarda il futuro nessuna brutta sorpresa. I progetti green proseguiranno e la continuazione della trasformazione economica sarà favorita, come ha comunicato Li Keqiang, probabile prossimo primo ministro cinese: “La Cina prenderà misure generali nei prossimi cinque anni per diminuire il consumo di energia per unità del prodotto interno lordo del 16% e aumenteremo il valore aggiunto del terziario di 4 punti percentuali, che promuoveranno vigorosamente la trasformazione economica”.

Ovviamente per riuscirci sarà necessario intensificare gli sforzi al fine di migliorare l’industria, rendendola più ecocompatibile e quindi a bassa emissione di carbonio, e  ridurre l’emissione di gas inquinanti. Come già affermato da Li, in futuro il governo continuerà a favorire “una politica differenziata e graduata sui consumi energetici in grado di spingere per la crescita verde”.

tianjinEcoCity

Tianjin Eco-City.

Tianjin Eco-City:di 30 kilometri quadrati e in grado di ospitare fino a 350 mila abitanti, è stata definita la prima città completamente ecologica.

Si trova a soli 150 km da Pechino e a 30 da Tianjin, in una zona precedentemente adibita a discarica. La sua costruzione è iniziata nel 2008, grazie ad un accordo tra il governo cinese e singaporiano, e se ne prevede l’inaugurazione nel 2020, anche se i primi abitanti si sono già insediati. Lo scopo della realizzazione di quest’opera è di dimostrare che qualsiasi luogo può essere rinnovato dandogli nuova vita, o come ha dichiarato Ho Tong Yen, “che è possibile ripulire un’area degradata e renderla utile e vivibile, senza privare il territorio di risorse invece utili e vivibili”.

Probabilmente grazie anche alla crescente attenzione sull’importanza dello sviluppo sostenibile questo progetto risulta efficace anche nella ricerca di soluzioni alternative alla rapida urbanizzazione e alla carenza di posti di lavoro a cui stiamo assistendo. E’ previsto inoltre, oltre alla creazione di posti di lavoro “in loco”, l’uso di trasporti ecologici e la progettazione di una pianta della città che favorisca la circolazione di pedoni e ciclisti.

tianjin-eco-city

Tianjin Eco-City.

“Una città fiorente, socialmente armonica, ecologica e a basso consumo di risorse”. Questa è la definizione data dagli allora primi ministri cinese e singaporiano Wen Jiabao e Lee Hsien Loong nel giorno dell’inaugurazione dei lavori di costruzione e di bonifica. Frase esemplificativa del valore del progetto e si spera di ispirazione nella realizzazione delle nuove opere in futuro.

Ma a livello internazionale cosa succede? Pechino è solo un esempio isolato o fa tutto parte di un grande progetto a livello mondiale?

Sono passati 20 lunghi anni dall’ultima conferenza mondiale tenutasi a Rio de Janeiro. Lo scopo principale era quello di dare inizio ad una nuova politica internazionale volta al miglioramento dell’ambiente in cui viviamo. E ora con l’ incontro appena avvenuto dal 20 al 22 giugno, sempre in Brasile, dobbiamo ammettere che dei cambiamenti prospettati, i risultati sono stati ben inferiori alle aspettative. Dal 1992 ad oggi, su questo fronte almeno, nessun sostanziale passo avanti.

Come riportato sul “Corriere della Sera” il nuovo documento unitario finale sottoscritto da 193 stati “riafferma gli accordi firmati vent’anni fa su clima e biodiversità, avanza appena un po’ sul «sociale», ponendo subito la lotta alla miseria come priorità mondiale, e si impegna a lanciare non meglio definiti «obiettivi di sviluppo sostenibile». Si lascia alle future assemblee Onu la decisione se creare una vera e propria agenzia dell’ambiente, configurando un upgrade dell’attuale Unep (che è appena un programma). Non ci sono nuovi fondi per l’economia verde (come avevano chiesto i Paesi in via di sviluppo), né decisioni sulle divisioni di responsabilità tra i Paesi che più inquinano. Schiacciata tra la crisi finanziaria del Nord del mondo e le ambizioni di crescita del Sud, Rio+20 finisce per non decidere soprattutto che cosa significa lo sviluppo sostenibile. Chi lo deve finanziare e chi deve sostenere i costi di un mondo meno inquinato”.

Nonostante la penuria di risultati portati dal congresso, però, per fortuna c’è chi risulta essere più sensibile alle esigenze ambientali. Ci potrà anche stupire, ma si tratta proprio di tre paesi ex poveri che spinti probabilmente da interessi urgenti sono però in grado di tradurre in azioni concrete i loro progetti: si tratta di Brasile, India e Repubblica Popolare Cinese.

foreste mangrovie

Foreste Bangladesh.

Non si tratta di casi isolati. Anche altri Paesi in via di sviluppo stanno adottando interessanti misure di riforestazione e di miglioramento ambientale, come riportato da un recente rapporto della FAO. Tra questi spiccano i progetti per la conservazione delle mangrovie in Bangladesh, la prevenzione degli incendi boschivi a Samoa ed i programmi di rimboschimento ad Haiti, oltre alla piantumazione di verde in Bhutan, Filippine e Vietnam. Inoltre, come ha affermato Eduardo Rojas “Vorrei sottolineare quel che fa l’India che ha ancora una crescita importante della popolazione. Le foreste in India sono in crescita di 300.000 ettari l’anno”. Bisogna però ricordare che negli anni ’90 l’area Asia-Pacifico aveva una diminuzione della superficie forestale pari a 0,7 milioni di ettari l’anno – superficie totale di 740 milioni di ettari, ovvero il 18% di tutta la superficie forestale mondiale, dato risalente al 2010-. Fortunatamente questa tendenza si è invertita fino ad un picco di crescita pari a 1,4 milioni di ettari ogni dodici mesi nel periodo 2000-2010. Lo scopo dell’India è quello di raggiungere entro la fine del 2012 una superficie boschiva totale del 33% , anche se l’impresa si preannuncia impossibile visto che nel 2010 le foreste coprivano solo il 25% dell’intera India e che l’anno volge ormai al termine. Ciò non di meno si tratta di un progetto molto positivo che col tempo potrà essere sicuramente realizzato, anche se ovviamente non entro il 2012.

Anche in Brasile la popolazione si sta sensibilizzando sull’argomento. Dopo anni di brutale disboscamento i contadini hanno capito che è anche nel loro interesse proteggere la natura e gli alberi. Per questo motivo è nato un progetto che prevede la crescita di nuovi alberi proprio sui terreni coltivabili riportando così in primo piano anche la coltivazione del cacao. Ma come ha saggiamente commentato un agronomo brasiliano intervistato dal sito TMNews.it  “Non si può far rinascere una foresta dall’oggi al domani”. Per questo motivo, sono nate in contemporanea anche altre iniziative tra i contadini, come quella di ridurre, fino ad arrivare alla completa abolizione, l’uso di pesticidi riuscendo così ad eliminare le emissioni di carbone.

Questo dovrebbe dimostrarci che grazie alla collaborazione tra industria, politica e non ultima l’agricoltura –anche se tutti e tre spinti ciascuno dai propri interessi- è davvero possibile intervenire efficacemente con progetti anche a lungo termine. Inoltre grazie alle iniziative portate avanti in Cina, Brasile ed India abbiamo l’occasione di scoprire che ci sono Paesi che avvertono la forte necessità di salvare il proprio patrimonio forestale, aiutando in questo modo, anche se solo come effetto secondario probabilmente, tutto il pianeta.

di Mariacristina Carboni

Fonti:

Fonte: http://www.greenreport.it/_archivio/index.php?lang=it&page=default&id=8815

Fonte: http://www.unric.org/it/attualita/27276-fao-si-apre-lanno-internazionale-delle-foreste

Fonte: http://www.fao.org/docrep/013/i2000e/i2000e00.htm

Fonte: http://www.corriere.it/ambiente/12_giugno_20/rio-ambiente-piu-venti_a3c4c99e-baa0-11e1-9945-4e6ccb7afcb5.shtml

Fonte: http://life.wired.it/electricroad/2012/08/03/cina-auto-elettrica-byd-hu-jintao-green-economy.html?page=1#content

Fonte: http://www.mentalitasportiva.it/home/mentalita-sostenibile/brasile-cina-e-india-i-nuovi-grandi-si-incontrano-sul-rimboschimento.html?print=1&tmpl=component

Fonte: http://greenreport.it/_new/index.php?page=default&id=13676

Fonte: http://www.tianjinecocity.gov.sg/

Fonte: http://62.77.46.214/cgi-bin/ricerca/search.php?s=Non+si+pu%C3%B2+far+rinascere+una+foresta+dall%27oggi+al+domani&x=0&y=0 (l’articolo che ho utilizzato come fonte non è al momento disponibile, vi lascio comunque questo link nel caso dovesse tornare fruibile in futuro)

Per approfondire e avere qualche dato in più (non solo riguardo alla Cina):

–         http://greenreport.it/_new/index.php?page=default&id=13436

–         http://www.greenreport.it/_new/index.php?page=default&id=13405

–         http://www.greenreport.it/_new/index.php?page=default&id=14630&cat=Energia (USA)

 

Commenti (1)

Land Grabbing: lo sviluppo “tossico” del mondo

Tags: , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , ,

Land Grabbing: lo sviluppo “tossico” del mondo

Pubblicato il 31 gennaio 2013 by redazione

congoNell’ultimo decennio è emerso con decisione un fenomeno conosciuto col nome di ‘landgrabbing’. Con tale termine s’intende l’acquisto (o l’acquisizione in concessione per molti anni) di vaste aree e appezzamenti di terreno, principalmente africane e sudamericane, da parte di pochi paesi ‘sviluppati’ o poche grandi aziende, corporations o soggetti economici multinazionali.

Il termine ‘grabbing’, che letteralmente significa ‘accaparramento’, ha assunto un’accezione negativa. Infatti, se da una parte i governi degli Stati venditori affermano che la vendita di parte della propria terra è un’eccellente possibilità di sviluppo per tutti, molte sono le preoccupazioni – sollevate soprattutto dalle ONG che lavorano nelle zone toccate dal fenomeno – relative all’uso dei terreni in questione.

original_BMZgraphLand-GrabPressioni commerciali per l’acquisto della Terra

La ricerca di terreni fertili attraverso i quali i paesi occidentali e i paesi in via di sviluppo – come ad esempio, i paesi denominati BRICS e/o BASIC: Brasile, India, Cina, Russia, Sud Africa) – possano garantire una risorsa agricola per soddisfare l’alimentazione della propria popolazione ha portato alle sopra citate pressioni commerciali sull’acquisto della terra.

D’altra parte, nel 2050, secondo i dati delle Nazioni Unite, gli abitanti del pianeta Terra saranno 9 miliardi e il rischio (e la preoccupazione degli esperti) è quello di un numero sempre maggiore di persone con scarsa possibilità di accedere alle risorse alimentari.

Oltre a ciò, la volontà dei paesi acquirenti di trarre guadagno e profitto dall’accesso a terre non disponibili nel paese di provenienza e/o accessibili solo a costi estremamente più alti, ha portato all’introduzione di monocolture, all’uso del terreno per ottenere qualsiasi materia prima in quantità utili a produrre carburanti biologici e allo sfruttamento delle zone caratterizzate da una discreta presenza di acqua, elemento definito da molti ‘oro blu’, tanto preziosa, ma, altresì, non infinita.

08.09 s01 Bodenschätze Afrika Rieger 2Gli effetti dell’arrivo degli investitori stranieri in terre come quelle africane e sudamericane sono stati diversi e particolari, di caso in caso. Di certo, però, conseguenze comuni del landgrabbing sono: l’impoverimento dei terreni a causa delle monocolture, che li privano della biodiversità necessaria per restare fertili e, alla lunga, li rendono aridi; l’allontanamento dei contadini dalla loro unica risorsa di sussistenza, cioè da terreni considerati di proprietà per consuetudine e non per diritto legale, che, invece, li attribuisce agli Stati. E ancora, il landgrabbing può contribuire all’iniqua distribuzione delle risorse alimentari prodotte dalla coltivazione dei terreni acquisiti, all’inquinamento e al danno ambientale che ha visto, per esempio, un disboscamento continuo e inesorabile della foresta amazzonica a favore dei pascoli per gli animali destinati alla produzione di carne, o finalizzato alla produzione di soia e di altre risorse per i biofuel.

Certo è che, nell’ottica delle istituzioni locali che sovente hanno la proprietà di diritto sui terreni, l’arrivo di investitori stranieri può portare a diversi aspetti positivi: dall’ingresso di capitale straniero nelle casse di economie spesso in difficoltà, all’aiuto che i paesi più ‘sviluppati’ possono apportare, in termini di esperienza, tecnologia e fondi, a sistemi considerati ‘arretrati’.

viso alberoUna concezione ambigua di progresso

Tuttavia, quello che sembra emergere è uno scenario ambiguo che può derivare da una discutibile concezione di progresso. Appare necessario non giustificare azioni dannose sia per le popolazioni locali, che per l’ambiente, sotto il ‘termine ombrello’ di sviluppo, concetto legato alla parzialità dell’Occidente, come ci ricordano le riflessioni dell’antropologo Latouche. Quest’ultimo, infatti, ha più volte sottolineato come l’idea di sviluppo, impensabile per altre popolazioni e spesso non traducibile nella lingua di queste ultime, possa diventare un termine ‘tossico’, soprattutto se in nome di questa idea si portano avanti azioni contrarie alla cura dell’ambiente e al benessere degli abitanti delle zone interessate.

D’altro canto, appaiono necessarie precise politiche mirate ad evitare che le preoccupazioni e le denunce delle ONG presenti in loco abbiano ulteriori conferme e conseguenze a livello socio-politico ed ambientale.

Occorre, probabilmente, un’ulteriore riflessione circa i diritti di autodeterminazione di quei popoli che vivono una terra appartenente a Stati troppo spesso frettolosi nel concedere ad altri il diritto di usarla.

Inaridire i terreni, sfruttarne malamente le risorse, incrementare i tassi di povertà e fame nel mondo, per combattere il problema relativo alla ‘scarsità alimentare’ di alcuni, rischia di portareal circolo vizioso di uno sviluppo non sostenibile per tutti.

di Tomaso Cimino

Commenti (0)

Il primo frigorifero senza corrente? È nigeriano e risale a due decenni fa.

Tags: , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , ,

Il primo frigorifero senza corrente? È nigeriano e risale a due decenni fa.

Pubblicato il 30 settembre 2012 by redazione

Caterina Falleni_frigor

Il frigorifero di Caterina Falleni.

Questo mese sarete tutti rimasti sicuramente affascinati dalla storia della livornese Caterina Falleni, designer del prodotto che a soli 23 anni ha ideato Frejiis, un sistema frigorifero che funziona senza corrente e che le ha permesso di vincere una borsa di studio da 30 000 euro, nonché un volo diretto per il centro di ricerca NASA della Silicon Valley.

Il principio di funzionamento? Ce l’ha spiegato lei stessa.

Freijis è un apparato refrigerante che non utilizza energia elettrica, ma si avvale di semplicissime tecnologie: una si chiama evaporating cooling, un principio che utilizzano i paesi emergenti come l’Africa e l’India, paesi dove sono stata e dove ho studiato questo sistema direttamente con i miei occhi. È lo stesso principio per il quale la sudorazione abbassa la temperatura del nostro corpo. Ho associato questa tecnologia, che si affida ad un principio base della termodinamica, con dei materiali che si chiamano PCM e sono smart materials. Sono materiali a cambiamento di fase, come la cera che può cambiare stato, e passare da quello solido a quello liquido, senza perdere le proprie qualità. Questi due principi hanno generato il sistema di refrigerazione che ho chiamato Freijis“.

Caterina Falleni_frigor_funzionamentoNon si tratta quindi di una teconologia nuova, anzi chi ha viaggiato in Africa avrà sicuramente già visto qualcosa di molto simile in molte zone rurali del continente. Infatti è proprio qui che ha inizio la storia di Mohammed Bah Abba e del primissimo frigorifero senza corrente.

Nel 1995 Mohammed Bah Abba era un giovane diplomato in economia, che ancora ventenne divenne insegnante presso un college a Jigawa in Nigeria ed anche consulente al Programma di Sviluppo delle Nazioni Unite.

Nato nel 1964 in Nigeria da una famiglia di vasai, Abba crebbe con la convinzione di dover in qualche modo migliorare le condizioni di vita delle comunità rurali del suo Paese.

Fu proprio l’arte di creare vasi tramandata dai nonni a suggerirgli una brillante idea: il cosiddetto pot-in-pot refrigerator, ovvero il primo modello di frigorifero senza corrente che conserva i cibi ponendoli in due vasi, uno dentro l’altro.

Dopo due anni di ricerca e studi approfonditi per trovare il miglior materiale isolante da impiegare, Bah Abba si mise in contatto con la Intermediate Technology Development Group (oggi conosciuta come Practical Action, un’organizzazione britannica che promuove tecnologie sostenibili e a basso costo nei Paesi in via di sviluppo) la quale, colpita dalla semplice, ma rivoluzionaria invenzione, organizzò immediatamente una serie di esperimenti in laboratorio per misurare l’effettiva capacità del pot-in-pot refrigerator di conservare i cibi.

PotInPot_big

Mohammed Bah Abba

Bah Abba partecipò attivamente alla promozione del suo frigorifero organizzando delle vere e proprie lezioni sul funzionamento del suo sistema di refrigerazione.

Il frigorifero di Bah Abba superò egregiamente i test arrivando a conservare verdure come carote e pomodori per più di 20 giorni, e anche la carne (che normalmente comincia a deteriorarsi anche dopo un solo giorno) dopo due settimane era ancora perfettamente commestibile. Questo clamoroso successo spinse il giovane insegnante nigeriano a distribuire gratuitamente a proprie spese più di 5.000 vasi nei villaggi del nord Nigeria.

Dopodiché organizzò una vera e propria campagna pubblicitaria che di lì a poco avrebbe permesso a circa il 70% delle famiglie in quell’area di usare il suo frigorifero, acquistato a poco più di un

dollaro statunitense.

Ma come funziona esattamente il frigorifero di Bah Abba?

Esso consiste di due recipienti di terracotta, uno dentro l’altro, separati da uno strato di sabbia umida. La termodinamica insegna che affinché l’acqua evapori è necessario fornirle in qualche modo energia. Quindi quando i vasi, coperti con un panno umido, vengono posti in una zona ben ventilata, l’acqua proveniente dallo strato di sabbia umida trasuda dal vaso esterno evaporando rapidamente nell’aria e per fare ciò sottrae calore dal vaso più interno che si raffredda e mantiene i cibi freschi per molti giorni. Inoltre se il vaso interno è impermeabile è anche possibile usare acqua non potabile (ad esempio acqua del mare) per il processo di raffreddamento senza contaminare i cibi. Questo aspetto diventa particolarmente importante, se non essenziale, nelle zone desertiche vicine all’oceano dove l’acqua potabile è praticamente un lusso.

Il progetto Freijiis di Caterina Fellani presenta esattamente lo stesso principio costruttivo e di funzionamento con la differenza che sono stati impiegati materiali tecnologicamente più avanzati, il tutto reso più sofisticato da un design moderno e accattivante che strizza l’occhio al gusto estetico occidentale. Per ora Freijis è soltanto un prototipo che sta però già suscitando l’interesse di alcune aziende italiane. Teoricamente una diffusione di questo dispositivo nei Peasi industrializzati sarebbe come manna dal cielo visti i consumi incalzanti di energia elettrica ai quali l’Occidente non sembra voler rinunciare. Rispetto al frigorifero tradizionale non vi sarebbero inoltre problematiche ambientali relative allo smaltimento di fluidi refrigeranti come i CFC (clorofluorocarburi) dannosi per lo strato di ozono stratosferico.

In Nigeria, nel frattempo, l’impatto del semplice frigorifero di Bah Abba, dagli anni Novanta ad oggi, è stato più che concreto. Esso è andato oltre la semplice conservazione del cibo ed ha avuto implicazioni sulla salute del popolo nigeriano, nonché risvolti economici e sociali. Negli ultimi venti anni nelle aree rurali si è infatti assistito a un incremento dei profitti dalla vendita dei cibi: prima era necessario vendere i prodotti appena raccolti, ma grazie al dispositivo refrigerante i contadini possono vendere i prodotti su richiesta e osare anche un relativo aumento dei prezzi. Molte giovani ragazze nelle famiglie, che giornalmente dovevano trasportare e vendere i cibi al mercato, possono ora avere molto più tempo per frequentare la scuola. Le donne sposate, che per tradizione non possono lasciare il villaggio senza essere accompagnate dal marito, possono vendere i cibi direttamente da casa diminuendo la propria dipendenza dai coniugi. Infine il piccolo frigorifero ha permesso a molte famiglie di avere una dieta molto più varia dal momento che i cibi possono essere conservati per un tempo più lungo durante l’anno.

Mohammed Bah Abba_frigor

Un pot-in-pot refrigerator serve anche a mantenere le bevande fresche.

Intanto nel  2005 le vendite del frigorifero senza corrente sono arrivate a 91.795 unità e già si pensa a nuovi modi di farne uso: un nuovo progetto prevede di adattare il sistema di raffreddamento per applicazioni mediche, ad esempio la conservazione di fiale di insulina per pazienti diabetici che vivono in aree rurali remote in Eritrea, India, Haiti e Honduras.

Per la sua intuizione, nel 200, Mohammed Bah Abba ha ricevuto il premio Rolex Award for Enterprise da 75000 $ mentre nel 2001 è stata la volta del World Shell Award for Sustainable Development.

“Mohammed Bah Abba ha ricevuto il Rolex Award non soltanto per aver inventato il sistema pot-in-pot. E’ riuscito a superare numerosi ostacoli per produrlo e distribuirlo, assicurandosi, inoltre, che potesse essere acquistato da tutti ad un prezzo accessibile”, così Rebecca Irvin, presidentessa del comitato per l’assegnazione del Rolex Award ha elogiato l’ingegno e, soprattutto, il grande impegno sociale di Bah Abba.

di Corinne Nsangwe Businge

 

Commenti (1)

Advertise Here

Foto da Flickr

Guarda tutte le foto

Advertise Here

LINK