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La guerra dei droni: un affare da 130 miliardi di dollari

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La guerra dei droni: un affare da 130 miliardi di dollari

Pubblicato il 20 novembre 2013 by redazione

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Piloti da terra, si preparano a guidare in remoto il caccia X-47B.

Su wikipedia si legge che un Drone è un aeromobile a pilotaggio remoto o APR Il suo volo è, quindi, controllato dal computer a bordo del velivolo, sotto il controllo remoto di un navigatore o pilota, sul terreno o in un altro veicolo.

Il loro utilizzo è molto diffuso in tutti i casi in cui tali sistemi possono consentire l’esecuzione di missioni “noiose, sporche e pericolose” (dull, dirty and dangerous) spesso con costi minori rispetto ai velivoli tradizionali.

Noiose, sporche e pericolose, dunque una vera manna dal cielo …

La velocità di diffusione di questi velivoli negli ultimi tempi ha visto schizzare le ordinazioni delle industrie militari, al punto che in alcune aziende si lavora giorno e notte per soddisfare le richieste. Un vero boom economico per il mercato aeromobile, civile e militare, soprattutto americano, cinese e israeliano. Ma la vera novità non è la nascita di un nuovo businnes, quanto piuttosto le implicazioni che un velivolo di questo tipo innescano.

X-47B è un drone americano, costruito per poter decollare e atterrare direttamente su una portaerei, quindi senza alcun vincolo di atterraggio o decollo subordinati alle autorizzazioni di altri Paesi per l’eventuale uso delle loro basi.

Questo drone è un aeromobile grande come un caccia, che viaggia senza pilota e, che grazie all’uso delle portaerei potrà dirigersi ovunque nel mondo, incrementando di molto il suo potenziale spazio aereo, oltre alle aumentate possibilità operative militari, soprattutto negli attacchi missilistici contro obiettivi terroristici in Iraq, Afghanistan, Pakistan e Yemen. Lo stesso ammiraglio Ted Branch, a capo delle forze navali nell’Atlantico, subito dopo il primo decollo di prova, dalle coste della Virginia, ha esclamato “Oggi è una giornata storica”.

L’unico vero problema è che un drone di questo tipo, al momento di un raid militare, anche se supportato da un pilota remoto, potrebbe mietere numerose vittime tra i civili, come è già stato ormai ribadito da più parti nel mondo e negli stessi Stati Uniti.

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Le industrie americane premono per facilitare l’esportazione di droni oltremare.

Le industrie americane costruttrici di guerra cercano, come è ovvio, di influenzare se possibile le scelte politiche del proprio Paese, contribuendo con fiumi di dollari alle diverse campagne elettorali.

Alcuni diplomatici hanno rivelato a WikiLeaks che ci sono regimi, come quelli degli Emirati Arabi Uniti e dell’Arabia Saudita, che hanno già chiesto di poter acquistare droni armati da fornitori americani, anche se finora pare non ci siano riusciti.

In realtà sia la General Atomics sia la Northrop Grumman e altre aziende costruttrici starebbero spingendo le lobby del Congresso a facilitare le attuali restrizioni che regolano l’esportazione di droni.

Attualmente, infatti, le leggi sono molto rigide e servono ad evitare che i droni venduti ad altri Paesi vengano poi utilizzati contro gli interessi americani, come ad esempio dall’Iran.

Queste nuove tecnologie belliche, in effetti, stanno già cambiando il modo di fare la guerra. Chi le possiede, grazie a loro, potrà risparmiare denaro, capitale umano, pattugliare meglio i confini dei propri territori e avere più garanzie di successo nelle azioni militari.

Nessuna meraviglia, quindi che i costruttori di droni militari premano per riuscire a facilitare le vendite oltremare, soprattutto se all’orizzonte intravedono un giro d’affari mondiale, che dagli attuali 7 miliardi di dollari è destinato a crescere entro il 2021 fino 130 miliardi di dollari.

Va sottolineato, infatti, che mentre il prezzo di un caccia F35 si aggira sui 130 milioni di euro, il prezzo di un drone militare oscilla al massimo fra 3,7 e 10 milioni di euro, in particolare per i Reaper di ultima generazione.
Va anche ricordato che negli Stati Uniti, solo negli ultimi 10 anni, il Pentagono è passato da un impiego di droni iniziale di poche decine di unità a un flotta di 7 mila Uav (Unmanned aerial vehicle). Senza contare tutto il mercato indotto delle semplici manutenzioni.

L’Unione Europea pensa a droni Made in Europe: nasce un nuovo consorzio a sostegno del progetto Dassault.

Entro il 2016 Bruxelles dovrebbe aprire lo spazio aereo civile ai droni e la stessa Frontex, l’agenzia militare che controlla i confini europei, sta pensando di impiegare molto presto i velivoli a controllo remoto.

In un documento redatto a Settembre del 2012, dalla Commissione europea, l’UE invita le imprese a investire in questo nuovo mercato che promette miliardi di euro e molteplici applicazioni, non solo in ambito militare, ma anche civile, come ad esempio per il monitoraggio degli eventi di massa, delle calamità naturali o più semplicemente per la supervisione degli spostamenti di migranti in mare in direzione di Lampedusa.

Cassidian, del gruppo franco-tedesco-spagnolo Eads, la francese Dassault Aviation e l’italiana Alenia Aermacchi (Finmeccanica), hanno lanciato un’iniziativa congiunta, con cui chiedono ai rispettivi Paesi di partire nella produzione di un drone di sorveglianza (eventualmente armato) di classe MALE (Medium-Altitude Long-Endurance). Nella lettera comune si legge «Un programma europeo sarebbe in grado di rispondere ai nuovi requisiti delle forze armate e di ottimizzare nel contempo la difficile situazione dei budget della difesa». Assente in questa iniziativa, l’importante colosso inglesi Bae Systems.

In ogni caso l’Europa intende seriamente recuperare un gap di quasi 10 anni di ritardo sulle industrie americane e israeliane. Si tratta in parte di una scelta scontata, perché per poter armare questi nuovi velivoli occorre sempre richiedere l’autorizzazione ai loro produttori statunitensi. E’ già successo all’Italia, che dopo aver acquistato due Reaper americani, che intendeva usare in Afghanistan, attende da più di due anni l’autorizzazione Usa per poterli armare. Anche la Germania ha dovuto abbandonare il programma Euro Hawk perché si è accorta che per armare i vecchi Global Hawk americani e poterli usare in Europa, avrebbe dovuto spendere un sacco di soldi aggiuntivi a quelli già investiti per acquistarli. La Francia, infine, dopo aver comperato alcuni droni, sempre di fabbricazione statunitense, da impiegare in Mali, si è resa conto di poterli usare solo in condizioni di libertà operatività ridotta.

Guardare, perciò, a una produzione di droni europei non è poi così fuori luogo. L’argomento potrebbe già essere discusso questo dicembre, tra i temi dell’ultimo Consiglio Europeo del 2013.

Anche l’Italia si lancia nella progettazione e fabbricazione di droni.

Dopo la Gran Bretagna, l’Italia è stato il primo Paese europeo ad attrezzarsi con droni americani, non armati, a scopo ricognitivo e d’intelligence.

Questa nuova tecnologia, già testata nella guerra in Iraq, ha posto il nostro Paese al primo posto in Europa per competenza e capacità di impiego e anche per lo sviluppo di nuovi velivoli a controllo remoto.

Sono già molte le giovani aziende italiane, specializzate in robotica, che si sono attivate per progettare droni terrestri, aerei e marini, capeggiate dalle big company europee per la Difesa, tra cui Alenia Aermacchi.

L’Italia, quest’anno con Piaggio Aero Industries ha presentato il nuovo aereo Uav P.1HH Hammerhead, sempre per le missioni di sorveglianza, intelligence e ricognizione. Si sta progettando anche il drone killer Male – Medium Altitude Long Endurance – per bombardamenti a lunga gittata. Il progetto, ancora molto riservato, sembra essere già stato avviato da Finmeccanica.

Sigonella

L’Italia è candidata a diventare tra i più grandi Hub mondiali di droni.

Entro il 2017, faranno il loro ingresso, nel “parco macchine” Nato di Sigonella, i primi cinque droni dei 20 previsti, per potenziare il piano Nato Smart Defence (difesa satellitare intelligente), per un investimento di diverse centinaia di milioni di dollari.

Sigonella si prepara così a diventare un grande hub mondiale per i droni.
Da qui Eurosur dell’Ue, proteggerà le frontiere europee, anche usando le moderne tecnologie Uav.
Tra la Puglia, la Sardegna, le basi di Sigonella e Trapani in Sicilia e l’isola di Pantelleria, il nostro ministero della Difesa ha anche creato speciali «corridoi di volo» per gestire al meglio la zona del Mediterraneo.

Dal 18 Ottobre, anche nel Canale di Sicilia, gli UAV sono già al lavoro e affiancano la nave anfibia San Marco, sorvegliando le rotte dei migranti, e la Frontex, deputata a gestire le frontiere esterne dell’UE.

Al momento il parco droni italiani include 6 Reaper (falciatori) e 6 Predator, assegnati al 32esimo stormo della Base di Amendola in Puglia. I 12 aerei teleguidati sono stati acquistati fra il 2001 e il 2008, per un importo complessivo di circa 380 milioni di dollari.

Mentre i Predator sono destinati a operazioni di pattugliamento dei territori, attraverso lo scatto di immagini fotografiche, i Reaper sono in grado anche di sganciare ordigni. Considerando che in Afghanistan ci sono circa 4 mila nostri uomini, oltre a mezzi aerei e terrestri da proteggere, i 6 Predator servono appunto per le ricognizioni e d’appoggio ai militari.

I droni d’attacco Reaper, sono invece impiegati dagli americani nei raid anti-qaedisti in Pakistan e Yemen – dove avrebbero intercettato jihadisti e sventato attacchi terroristici. In occasione della campagna Nato in Libia, del 2011, i Predator italiani sono partiti per aiutare gli analisti americani a identificare i targhet sensibili.

All’inizio di quest’anno, infine, l’Italia ha fornito il supporto logistico ai francesi per il loro intervento in Mali, contribuendo, poi, con i propri droni a rifornimenti e osservazione in volo.

Disposition Matrix e la guerra dei droni.

Da un’inchiesta del Washington Post del 2012, sembra che gli Stati Uniti abbiano creato un sistema, il disposition matrix, che in ogni angolo del mondo individua, cattura e uccide le persone sospettate di terrorismo, attraverso l’impiego anche di droni. Secondo il documento del Washington Post, si calcola che a partire da un primo drone usato per uccidere alcuni presunti membri di Al-Qaeda nello Yemen, le vittime degli ultimi 10 anni siano già più di 3000.

Da un punto di vista strettamente giuridico non esiste una legge specifica per casi come questi, salvo l’autorizzazione del Congresso, successiva ai fatti dell’11 settembre 2001, che consente l’uso della forza militare per fini antiterroristici e più in generale il diritto all’autodifesa. Così è lo stesso Presidente Obama, che sotto la sua personale responsabilità, esamina la lista dei presunti terroristi e ne autorizza l’attacco.

Giuristi di varie parti del mondo non ritengono sia legittimo autorizzare l’attacco a individui di identità ignota, le famose signature strikes, semplicemente sulla base di alcune attività, che siano assimilabili a 14 casi di riferimento specificati dal programma e analizzati da Kevin J. Heller dell’Universitá di Melbourne. Tra le attività indicate vi sono per esempio quelle di: pianificare un attacco; trasportare armi; maneggiare esplosivi; essere in un compound o in un campo di addestramento di Al-Qaeda, essere un uomo ‘in età militare’ in territori in cui sono in corso attività terroristiche, essere in compagnia di militari o muoversi armati nelle zone controllate da Al-Quaeda.

Secondo uno studio pubblicato dall’Università di Staford, il diritto internazionale umanitario (quello applicato in tempo di guerra) che permette l’uso intenzionale di forze letali, unicamente se assolutamente necessario e in proporzione alla situazione, non concorda con questi “omicidi intenzionali e premeditati”.

Anche nello Special Rapporteur dell’Onu, sulle esecuzioni extragiudiziali, si legge: “In base al diritto dei diritti umani, un omicidio mirato, nel senso di un omicidio intenzionale, premeditato e deliberato, eseguito da forze di polizia non può mai essere legale perché, a differenza che in un conflitto armato, non è mai permesso che il solo obiettivo dell’operazione sia l’uccisione”.

La questione è stata, recentemente, di nuovo sollevata alle Nazioni Unite dalla Francia, attraverso un’interpellanza scritta in cui si chiede di aprire un formale dibattito. Jean-Hugues Simon-Michel, durante la Conferenza del Disarmo a Ginevra, ha sottolineato la questione dell’arbitrio degli uomini nel decidere se utilizzare la forza letale. Anche il rappresentante egiziano si è mostrato preoccupato e ha fatto un’altra interpellanza scritta per la messa al bando a priori di questo tipo di armi.

Amnesty International a Human Rights Watch, hanno già dato il via a una campagna di sensibilizzazione dell’opinione pubblica mondiale,  la Campagna “Stop Killer Robots”.

Nel sito della campagna si legge: “Diverse nazioni con eserciti hi-tech, tra cui Cina, Israele, Russia, Gran Bretagna e Stati Uniti si stanno muovendo verso sistemi che danno sempre più autonomia alle macchine nei combattimenti. Se uno o più di loro decidesse di impiegare armi pienamente autonome, un passo ancora più in là rispetto ai droni armati e controllati da remoto, altri potrebbero sentirsi obbligati ad abbandonare le loro politiche restrittive in materia, e tutto ciò porterebbe a una corsa alle armi robotiche. Per cui è necessario ora un accordo per stabilire dei controlli prima che gli investimenti, la spinta tecnologica e nuove dottrine militari rendano difficile cambiare il corso delle cose”.

Nel documento Will I be next? US drone strikes in Pakistan, “Sarò io il prossimo? Gli attacchi con i droni USA in Pakistan”, preparato da Amnesty International negli ultimi mesi, sugli omicidi eseguiti dagli Stati Uniti attraverso i droni nel nord-ovest del Pakistan, Amnesty accusa gli americani di assassinio di civili, terrore, mancata trasparenza e crimini contro l’umanità.

Di recente il segretario di Stato John Kerry ha reso noto che gli attacchi negli ultimi tempi sono diminuiti e che la Casa Bianca starebbe anche pensando di chiudere il programma.

Il terzo millennio sarà quello della guerra dei droni

Secondo un rapporto del Governo di Washington i paesi dotati di droni sono 76. Più di 50 Paesi stanno progettando e costruendo almeno un centinaio di tipi di droni. Di tutti questi Paesi, però, solo Israele, Gran Bretagna e Stati Uniti utilizzano droni armati. I modelli più noti sono i Reaper e i Predator.

Americani e israeliani sono anche i più grandi esportatori di droni. Tra il 2005 e il 2010 gli americani hanno autorizzato il trasferimento di tecnologia a quindici Paesi alleati, tra cui anche Italia, Danimarca, Lituania, Australia, Colombia e Singapore. A maggio del 2012 sul Wall Street Journal si leggeva che gli USA avevano accettato di armare i droni dell’aeronautica militare italiana, ma a Roma l’autorizzazione del Congresso non è ancora arrivata.

Il mercato israeliano delle Elbit Systems e della Israel Aerospace Industries, promuove l’80% delle sue esportazioni verso Gran Bretagna, Asia, America Latina (Colombia, Ecuador, Brasile, Cile, Perù, Venezuela) e recentemente anche India.

Gli americani di General Atomics, invece, con l’autorizzazione governativa firmata, hanno già concluso un accordo con gli Emirati Arabi Uniti per una fornitura non armata di Predator, per un totale di circa 200 milioni di dollari. L’Arabia Saudita ha poi chiesto al Governo di Washington, di poter acquistare droni armati, ma naturalmente la risposta è stata negativa.

Resta l’esercito britannico, la Royal Air Force, con al suo attivo 500 droni, ma l’obiettivo di avere, entro il 2030, un terzo della flotta aerea completamente comandata a distanza. Per questo progetto è anche già stato stabilito il punto di raccolta nella città di Waddington, nel Lincolnshire.

E arriviamo infine alla Cina. Pechino in ritardo, come tutti, rispetto a Stati Uniti e Israele, sta sviluppando i suoi droni, molto simili ai Reaper americani, e che intende utilizzare per sorvegliare i confini con Giappone, India, Vietnam e Filippine e le zone del Pacifico di influenza americana.

A una certa distanza sembra lo scacchiere di un banale Risiko. Di certo l”economia americana ha trovato una via per un suo nuovo e redditizio sviluppo economico, ma anche un modo per mantenere attivo e onnipresente il suo ruolo e la sua supremazia militare nel mondo.

La Guerra dei Mondi, racconta da Herbert George Wells sembra proprio dispiegarsi sopra le nostre teste.

di Adriana Paolini

Linkografia:

– Articolo apparso su Daily Mail “Killer Robot”:

http://www.dailymail.co.uk/news/article-2324571/U-S-Navys-X-47B-stealth-drone-launches-aircraft-carrier-time–critics-warn-heralds-rise-killer-robots.html

– Articolo apparso su The New American:

http://thenewamerican.com/

– Documento redatto a Settembre del 2012, dalla Commissione europea:

http://www.google.it/url?sa=t&rct=j&q=&esrc=s&source=web&cd=1&ved=0CDEQFjAA&url=http%3A%2F%2Fdronewarsuk.files.wordpress.com%2F2012%2F09%2Fec-swd_civilrpas.pdf&ei=a0mJUuj6M4i47Qam9oCYBA&usg=AFQjCNGGv-ftxKARiYjA_6cMyHsJPwgONg&sig2=2s0cfLiU947rIZ39FJBMuw&bvm=bv.56643336,d.bGE&cad=rja

Piano Nato Smart Defence:

http://www.nato.int/cps/en/natolive/topics_84268.htm?

http://www.nato.int/cps/en/natolive/official_texts_87594.htm

– Inchiesta Washington Post:

http://www.washingtonpost.com/world/national-security/plan-for-hunting-terrorists-signals-us-intends-to-keep-adding-names-to-kill-lists/2012/10/23/4789b2ae-18b3-11e2-a55c-39408fbe6a4b_story.html

– Kevin J. Heller:

https://papers.ssrn.com/sol3/papers.cfm?abstract_id=2169089

– Studio dell’Università di Stanford:

http://blogs.law.stanford.edu/newsfeed/2012/09/25/living-under-drones%E2%80%9D-new-report-issued-by-the-international-human-rights-and-conflict-resolution-clinic/

– Special Rapporteur dell’Onu:

http://unispal.un.org/UNISPAL.NSF/0/69633D6116C53C898525773D004E8C13

Interpellanza della Francia durante la Conferenza del Disarmo a Ginevra:

http://www.reachingcriticalwill.org/images/documents/Disarmament-fora/1com/1com13/statements/8Oct_France.pdf

– Interpellanza del rappresentante egiziano durante la Conferenza del Disarmo a Ginevra:

http://www.reachingcriticalwill.org/images/documents/Disarmament-fora/1com/1com13/statements/8Oct_Egypt.pdf

– Campagna “Stop Killer Robots”:

http://www.stopkillerrobots.org/

http://www.unog.ch/80256EE600585943/%28httpPages%29/4F0DEF093B4860B4C1257180004B1B30?OpenDocument

 

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Land Grabbing: lo sviluppo “tossico” del mondo

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Land Grabbing: lo sviluppo “tossico” del mondo

Pubblicato il 31 gennaio 2013 by redazione

congoNell’ultimo decennio è emerso con decisione un fenomeno conosciuto col nome di ‘landgrabbing’. Con tale termine s’intende l’acquisto (o l’acquisizione in concessione per molti anni) di vaste aree e appezzamenti di terreno, principalmente africane e sudamericane, da parte di pochi paesi ‘sviluppati’ o poche grandi aziende, corporations o soggetti economici multinazionali.

Il termine ‘grabbing’, che letteralmente significa ‘accaparramento’, ha assunto un’accezione negativa. Infatti, se da una parte i governi degli Stati venditori affermano che la vendita di parte della propria terra è un’eccellente possibilità di sviluppo per tutti, molte sono le preoccupazioni – sollevate soprattutto dalle ONG che lavorano nelle zone toccate dal fenomeno – relative all’uso dei terreni in questione.

original_BMZgraphLand-GrabPressioni commerciali per l’acquisto della Terra

La ricerca di terreni fertili attraverso i quali i paesi occidentali e i paesi in via di sviluppo – come ad esempio, i paesi denominati BRICS e/o BASIC: Brasile, India, Cina, Russia, Sud Africa) – possano garantire una risorsa agricola per soddisfare l’alimentazione della propria popolazione ha portato alle sopra citate pressioni commerciali sull’acquisto della terra.

D’altra parte, nel 2050, secondo i dati delle Nazioni Unite, gli abitanti del pianeta Terra saranno 9 miliardi e il rischio (e la preoccupazione degli esperti) è quello di un numero sempre maggiore di persone con scarsa possibilità di accedere alle risorse alimentari.

Oltre a ciò, la volontà dei paesi acquirenti di trarre guadagno e profitto dall’accesso a terre non disponibili nel paese di provenienza e/o accessibili solo a costi estremamente più alti, ha portato all’introduzione di monocolture, all’uso del terreno per ottenere qualsiasi materia prima in quantità utili a produrre carburanti biologici e allo sfruttamento delle zone caratterizzate da una discreta presenza di acqua, elemento definito da molti ‘oro blu’, tanto preziosa, ma, altresì, non infinita.

08.09 s01 Bodenschätze Afrika Rieger 2Gli effetti dell’arrivo degli investitori stranieri in terre come quelle africane e sudamericane sono stati diversi e particolari, di caso in caso. Di certo, però, conseguenze comuni del landgrabbing sono: l’impoverimento dei terreni a causa delle monocolture, che li privano della biodiversità necessaria per restare fertili e, alla lunga, li rendono aridi; l’allontanamento dei contadini dalla loro unica risorsa di sussistenza, cioè da terreni considerati di proprietà per consuetudine e non per diritto legale, che, invece, li attribuisce agli Stati. E ancora, il landgrabbing può contribuire all’iniqua distribuzione delle risorse alimentari prodotte dalla coltivazione dei terreni acquisiti, all’inquinamento e al danno ambientale che ha visto, per esempio, un disboscamento continuo e inesorabile della foresta amazzonica a favore dei pascoli per gli animali destinati alla produzione di carne, o finalizzato alla produzione di soia e di altre risorse per i biofuel.

Certo è che, nell’ottica delle istituzioni locali che sovente hanno la proprietà di diritto sui terreni, l’arrivo di investitori stranieri può portare a diversi aspetti positivi: dall’ingresso di capitale straniero nelle casse di economie spesso in difficoltà, all’aiuto che i paesi più ‘sviluppati’ possono apportare, in termini di esperienza, tecnologia e fondi, a sistemi considerati ‘arretrati’.

viso alberoUna concezione ambigua di progresso

Tuttavia, quello che sembra emergere è uno scenario ambiguo che può derivare da una discutibile concezione di progresso. Appare necessario non giustificare azioni dannose sia per le popolazioni locali, che per l’ambiente, sotto il ‘termine ombrello’ di sviluppo, concetto legato alla parzialità dell’Occidente, come ci ricordano le riflessioni dell’antropologo Latouche. Quest’ultimo, infatti, ha più volte sottolineato come l’idea di sviluppo, impensabile per altre popolazioni e spesso non traducibile nella lingua di queste ultime, possa diventare un termine ‘tossico’, soprattutto se in nome di questa idea si portano avanti azioni contrarie alla cura dell’ambiente e al benessere degli abitanti delle zone interessate.

D’altro canto, appaiono necessarie precise politiche mirate ad evitare che le preoccupazioni e le denunce delle ONG presenti in loco abbiano ulteriori conferme e conseguenze a livello socio-politico ed ambientale.

Occorre, probabilmente, un’ulteriore riflessione circa i diritti di autodeterminazione di quei popoli che vivono una terra appartenente a Stati troppo spesso frettolosi nel concedere ad altri il diritto di usarla.

Inaridire i terreni, sfruttarne malamente le risorse, incrementare i tassi di povertà e fame nel mondo, per combattere il problema relativo alla ‘scarsità alimentare’ di alcuni, rischia di portareal circolo vizioso di uno sviluppo non sostenibile per tutti.

di Tomaso Cimino

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