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Burt Rutan

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Burt Rutan

Pubblicato il 15 febbraio 2013 by redazione

Burt_Rutan1° parte

Elbert Leander Rutan, per gli amici ed estimatori, semplicemente Burt: un nome abbastanza anonimo per uno degli ingengneri areonautici più eclettici e prolifici della storia.

Nato il 17 giugno 1943 nello stato americano dell’Oregon, ad Estacada, pochi chilometri da Portland, cresce in California, a Dinuba, dove sin da piccolo si appassiona a veivoli aerei.

Pare che già a 10 anni disegnasse macchine volanti e, nel 1959, a soli 16 anni riuscì persino a prendere il brevetto di volo. Naturalmente si iscrisse alla facoltà di ingegneria aeronautica alla California Polytechnich State University, da cui brillantemente uscì laureato nel 1965, terzo di tutto il suo corso.

Forse sarà stato il fatto di esser nato nello stesso giorno in cui un altro genio dell’aeronautica, Clarence “Kelly” Johnson fondava gli “shunk works”, i laboratori segreti dell’industria Lockheed, fucina di progetti ed esperienze rivoluzionarie sia in campo militare sia civile, a partire dai bollenti giorni della Seconda Guerra Mondiale fino a quelli degli anni della guerra fredda.

O forse fu la fortuna di crescere in uno degli stati più effervescenti della ricerca aeronautica e sede di alcune tra le maggiori industrie del “più pesante dell’aria” di tutto il mondo.

Fino al 1972 lavorò per l’aeronautica Statunitense, la U.S. Air Force, nella Edwards Air Force Base, dove tutta la sua ecletticità e il suo modo controcorrente di pensare aerei e materiali ebbe la possibilità di svilupparsi al massimo. Venne, infatti, coinvolto assieme alla compagnia  Ling-Temco-Vought nello sviluppo dell’XC142, una velivolo VSTOL, ovvero Vertical Short Take Off and Landing, cioè un aereo che, grazie all’ala rotante sul proprio asse, poteva rapidamente divenire simile a un elicottero, permettendo l’atterraggio e il decollo in verticale, in uno spazio di pochi metri. In realtà le difficoltà tecniche portarono all’abbandono del progetto, che rinacque però anni dopo e portò alla realizzazione del V22 Osprey, attualmente in linea con le forze armate statunitensi.

L’esperienza su progetti del genere non fecero che aumentare la convinzione che si potessero progettare macchine volanti usando materiali e formule ben diverse dai “canoni classici” che si insegnavano nelle facoltà universitarie o si seguivano nelle industrie aerospaziali.

Conclusa l’esperienza con l’USAF, assunse fino al 1974 la carica di responsabile collaudi per la Bede Aircraft in Kansas, dove maturò anche la decisione di mettersi in proprio e investire nelle idee che stava sviluppando. Si trasferisce così nel bel mezzo del deserto del Mojave, dove fonda la Rutan Aircraft Factory, assieme ad alcuni altri ‘pazzi visionari’.

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Il Rutan VariEze nella galleria del vento del centro di ricerca aeronautica della Nasa a Langley.

Model 27VariViggen

La prima realizzazione fu il Rutan Model 27VariViggen: già nell’aspetto questo piccolo velivolo manifestava tutto l’approccio alternativo della progettazione Rutan. Nato già negli anni successivi all’università, il primo prototipo (ispirato al caccia supersonico svedese SAAB J 37 Viggen) iniziò ad essere assemblato nel garage di casa Rutan nel 1968, nel più classico stile ‘do it yourself’ americano, ma Burt ci stava lavorando sin dal 1963, mentre studiava ancora ingegneria.

L’idea era di fornire al mercato un velivolo semplice da diporto, facile da costruire e mantenere, dalle prestazioni estremamente avanzate. Rutan credeva nell’idea di un’aviazione per tutti, una “motorizzazione” dell’aria facile ed economica.

Lungo solo 5,12 metri, con un’apertura alare di 5,79 metri, per una superficie di soli 11,40 metri quadri e un peso di 772 chili in ordine di volo, questo biposto era sostenuto da un piccolo motore a scoppio Lycoming, con elica spingente: praticamente un’alternativa all’auto, “parcheggiabile agevolmente nel garage di una casa di periferia”. Il motore era posizionato in fusoliera dietro all’abitacolo e non davanti come si è soliti vedere… questa scelta implicava però la rinuncia ai comandi classici di coda, timoni di direzione e profondità sdoppiati, per far posto all’elica e in parte compresi nell’ala a delta, ovvero dal disegno in pianta che ricorda la metà di un triangolo. Parte sono invece posti in un’aletta davanti all’abitacolo, secondo una soluzione detta ‘Canard’ (anatra in francese) oggi piuttosto comune anche nei velivoli militari ad alte prestazioni, ma allora… questo rendeva un aereo sicuro per il turismo e il diporto, difficile da far entrare in stallo (cioè perdere la portanza, il sostegno del flusso di aria che spinge verso l’alto il velivolo) e nelle cadute a vite, le più pericolose. Ma soprattutto sono i materiali: esteso l’uso del legno ma soprattutto delle fibre di vetro. Rutan sin da allora ha sempre mostrato fiducia nei materiali alternativi, una visione lungimirante come vedremo in seguito.

Il prototipo del VariViggen oggi è conservato nel Ventura Air Museum. Ne furono costruiti solo 5 esemplari, ma il VariEze da cui fu sviluppato venne estesamente costruito e venduto fin al 1985, anche come kit montabile in casa.

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Un esemplare di Model 33 VariEze in volo mostra le dimensioni compatte e le linee anticonvenzionali del progetto di Burt Rutan.

Model 33 VariEze

Lo stesso Rutan dimostrò le possibilità della sua formula impegna dosi con il Model 33 VariEze, evoluzione del VariViggen in produzione dal 1976,  a polverizzare vari record , tra cui quello stabilito al raduno areonautico di Oshkosh, con una distanza coperta di ben 2.636 chilometri di volo! E con un consumo di carburante irrisorio, meno di un’automobile… Niente male per un aereo appartenente alla classe di peso inferiore ai 500 chili… il pilota Gary Hertzler vinse con un VariEze il premio CAFE (Challenge Aircraft Efficiency Prize) per la sicurezza. In effetti, di tutte le varianti del variEze (seguito dal più grande Long-Eze) furono costruiti più di 2000 esemplari, venduti in tutto il mondo addirittura in scatola di montaggio … gli incidenti registrati per questo velivolo, tra il 1976 e il 2005, furono solo 130, 46 dei quali con vittime, a fronte di un incalcolabile monte di ore di volo. Praticamente molto più sicuro di una qualsiasi automobile utilitaria. Al 2005 risultavano solo negli States ancora 800 VariEze iscritti al registro areonautico e in condizioni di volo. Per un piccolo produttore indipendente è assolutamente un miracolo.

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Il Model 54 Quickie e le sue evoluzioni hanno segnato forse il vero primo successo dell’industria fondata da Burt Rutan e delle sue convinzioni. Nella foto, un biposto Quickie Q2 ripreso ad Arlington nel 2003.

Model 54 Quickie

Altrettanto fece il Model 54 Quickie: piccolo aereo da turismo, propulso da un motore bicilindrico raffreddato ad aria della Onan Industries, da appena 18 cavalli, con una struttura timoni-ali a x, che richiamava più un caccia interstellare appena uscito da Guerre Stellari che un normale velivolo da  diporto. Addirittura ne fu studiata una versione che poteva montare un motore da automobile Wolkswagen !!! Nato nel 1977 sull’onda del successo del VariEze, segnò la definitva affermazione delle idee di Burt Rutan e della sua impresa commerciale. Alla fine della produzione, più di 3000 kit di Quickie.

Nel 1982 Burt Rutan fonda la Scaled Composites

Altra genialità di Rutan fu proprio di puntare decisamente su “scatole di montaggio”, come i modellini in scala, contenendo così il costo del velivolo e della produzione, dimostrando anche che qualsiasi cliente era in grado di costruirsi un aereo in garage o in un prato davanti a casa. Non c’è bisogno di essere degli ingegneri!

Nella sua azienda-abitazione nel deserto del Mojave questo tipico ragazzo americano continuava a sfornare idee e progetti senza soluzione di continuità. Ma soprattutto è nella chimica e nella fisica dei materiali, nell’immensamente piccolo, che Rutan cercava i segreti per poter viaggiare sempre meglio nell’“immensamente grande”.

Nel 1982 si sentì abbastanza pronto per fondare la Scaled Composites, azienda che  attualmente costituisce ancora il cuore delle imprese di Burt Rutan.

Il concetto è semplice: se voglio creare aerei e strutture alternative, c’è bisogno di materiali altrettanto anticonvenzionali. Allora perché non crearmeli da solo? Simbolo di quella ingenuità e genialità, che talvolta contraddistingue le imprese americane, Burt Rutan decise di creare un luogo dove si creassero gli aerei dal nulla: progettare, sperimentare il materiale e la struttura, costruire e testare il prototipo, infine iniziare la produzione. Tutto all’insegna della ricerca, del risparmio di materie prime e peso, per un risultato di massime prestazioni.

Nella compagnia sarebbero stati presenti tutti i profili di professionalità necessari: ingegneri, operai, chimici, piloti, tutti animati dalla fede nel realizzare l’impossibile. E il mondo aveva iniziato a credere  nelle capacità di quel simpatico geniaccio californiano, compreso il governo  americano e quegli stessi militari con cui Rutan aveva iniziato il suo percorso.

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Il prototipo dell’assaltatore “ARES” con un’accattivante colorazione notturna.

Infatti alla Rutan Aircraft Factory prima e alla Scaled Composites poi, viene chiesto di partecipare ad un concorso del ministero della difesa per un piccolo jet da osservazione e attacco al suolo, per cui Rutan ed i suoi progettisti creano l’ARES, un monoplano monomotore dalle prestazioni assolutamente incredibili per  la fine degli anni ‘80. Il progetto non venne poi più sviluppato, ma il prototipo dell’ARES continua ad essere impiegato per testare soluzioni e c’è stato anche più di un interessamento per produrlo come una “fuoriserie dell’aria”, per clienti amanti delle alte prestazioni.

Viene anche ricordato per esser stato impiegato in alcuni film di avventura e fantascienza. Ma anche i grandi colossi come la Northrop Grumman commissionano progetti a Burt Rutan: ad esempio l’aereo-spia senza pilota (drone in gergo areonautico) X47A.

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L’aereo spia senza pilota X47A progettato per la Northrop Industries.

In ogni caso, il principale campo di ricerca per Rutan resta quello dei materiali ultraleggeri, le strutture originali da impiegarvi, e il loro utilizzo nel campo civile, anche se le commesse militari rimangono sempre una tentazione, per una piccola compagnia che punta il tutto per tutto sulla ricerca.

Ultralite, una show-car progettata da General Motors  e realizzata da Rutan.

La riprova di quanto Rutan e la sua compagnia siano andati avanti nella ricerca e nell’applicazione dei materiali cosiddetti alternativi, arriva con Ultralite, una show-car progettata da General Motors  e realizzata da Rutan.

Struttura completamente realizzata in grafite e in pannelli in fibra di carbonio alternata a PVC, per una leggerezza e una robustezza inimmaginabili, che usa le classiche lamiere in metallo, oltre che il comfort interno molto maggiore per gli spazi così risparmiati e la visibilità esterna assolutamente non confrontabile con altre berline ordinarie: la leggerezza e la duttilità di questi materiali permettono di aumentare del 50% le superfici trasparenti (realizzate anch’esse in materiali di sintesi). Consumi ridicoli e durata eccezionale dei materiali (che non arrugginiscono…), purtroppo altre politiche industriali e altri calcoli di costo produttivo non hanno permesso all’epoca di sviluppare questo concept vehicle, che però ha fatto scuola tra le altre industrie internazionali dell’automobile. In futuro potrebbe divenire una realtà, sotto la spinta dei costi sempre più pesanti delle materie prime e di smaltimento dei veicoli convenzionali…

Voyager

Tra aerei da trasporto, sperimentali, jet executive e altre centinaia di progetti partoriti dalla sua mente vulcanica e visionaria, Burt Rutan ha sempre continuato a credere che la sfida ai record fosse il modo migliore (oltre che il più eccitante) di dimostrare  agli altri la validità del suo inimitabile “design”.

Da parecchi anni stava pensando ad un’impresa pazzesca: la traversata della Terra in un solo volo, senza scali e senza alcun rifornimento. Una cosa da epoca dei pionieri del volo, ma non certo nel pieno dell’era dei satelliti e degli aviogetti. Tuttavia era qualcosa che non era mai stato tentato prima, una cosa da storia dell’aviazione, e della scienza. Come un tarlo ormai gli aveva  scavato nella mente e nel cuore.

Dick, fratello di Burt, ex pilota militare (la passione del volo è un punto in comune nella famiglia Rutan) e veterano del Viet-Nam, da tempo pilota capo collaudatore alla Rutan Aircraft Factory,  fu subito della partita, nutrendo la più grande fiducia nelle capacità progettuali del fratello minore. Nel 1981 iniziò, tra centinaia di impegni, a studiarne la fattibilità e a disegnare un aeroplano apposta per il record.

L’impegno richiese anni di prove, sviluppo di materiali (un grande uso di resine, epossidiche e fibra di carbonio) calcoli complicatissimi per il consumo di carburante e il tempo di volo, raccolta di fondi e ricerca di sponsor. Quest’ultimo aspetto fu fonte di amarezza, poiché nessuna banca, o altro grande sponsor, appoggiò l’impresa.

Addirittura il fatto che Dick e la sua compagna Jeanna Yeager non fossero sposati, negli anni dell’America Repubblicana e reaganiana, attirò loro l’antipatia dei conservatori radicali, … solo la grande e commovente generosità dei dipendenti di Rutan alla Scaled Composites (che lavorarono spesso senza compenso per quel progetto speciale) e di molti piccoli privati si riuscì ad avere i fondi necessari, oltre 2 milioni di dollari dell’epoca.

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Alle prime ore del 26 dicembre 1986, il Voyager viene fotografato da un “chase plane” alla fine del suo volo non stop attorno al globo, poche ore prima dell’atterraggio sulla pista della base aerea di Edwards, da dove era partito 9 giorni prima, il 14 dicembre.

Assemblato con pazienza per mesi e mesi in un hangar del Mojave airport, superando problemi che nessun altro aveva mai dovuto affrontare e lo scetticismo di buona parte del mondo scientifico e dell’aviazione, la mattina del 14 dicembre 1986, dalla pista della base militare di Edwards (dove nel 1965 Burt Rutan aveva iniziato la sua carriera dopo gli studi di ingegneria) il Voyager, com’era stato battezzato il velivolo, decollò. Solo poche ore prima aveva ricevuto le eliche ed i motori definitivi.

L’aereo aveva fatto un solo volo di collaudo, il 22 giugno di due anni prima, per di più con solo un quarto del carburante nei serbatoi. Un altro volo, per raggiungere la fiera annuale aerea di Oshkosh fu quasi essere interrotto perché l’aereo dimostrò di non essere controllabile in caso di pioggia. Ma l’aereo arrivò e quasi un milione di persone poté vedere la creatura di Rutan dal vivo: fu un colpo pubblicitario enorme.

Finalmente, tra l’8 e il 15 luglio 1985, pur con alcune tappe intermedie e affrontando avarie pericolose, il Voyager stracciò il record di distanza su unico volo in circuito detenuto dalla US Air Force da quasi 40 anni, percorrendo in 111 ore e 40 minuti 11.857 miglia. Il Voyager era pronto. Probabilmente fu il progetto più impegnativo e frustrante per Burt Rutan. Fino all’ultimo si dovettero affrontare avarie e malfunzionamenti potenzialmente letali. L’aereo era come sempre un grande Canard, con le superfici di controllo poste avanti alle ali, una fusoliera centrale pressurizzata, con uno spazio simile a quello di una cabina del telefono, in cui i due componenti dell’equipaggio, Dick Rutan e Jeana Yeager, avrebbero convissuto per lunghi 9 giorni, assieme a radio e provviste. Era sostenuto da due moderni motori Teledyne Continental, un IOL 200 raffreddato a liquido posto nella parte posteriore della fusoliera centrale, che sviluppava 130 cavalli/vapore massimi, e un IOL  0-240 posto anteriormente, con raffreddamento ad aria, capace di 11° cavalli/vapore.

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Le dimensioni del Voyager appaiono bene in questa foto scattata durante la presentazione al pubblico.

La lunga ala centrale, con un’apertura maggiore di quella di un Boeing 727, era costruita secondo una formula che le donava flessibilità e robustezza unici:  la struttura esterna era fatta di  numerosi fogli di carta sottilissima, impregnati di resine contenenti fibre di carbonio, mentre l’interno era costruito a celle a nido d’ape. Tutta la pannellatura esterna invece era formata da grafite, mentre per la struttura portante si era fatto largo uso di kevlar e fibre di vetro. Due semifusoliere partivano dal centro dell’ala, contenevano i carrelli d’atterraggio, strumentazione, celle del carburante e si ricongiungevano posteriormente con un unico piano di coda.

L’aereo era il primo di quelle dimensioni nella storia ad essere stato costruito interamente con materiali compositi e sintetici.

L’aero, senza attrezzature, carburante e motori, pesava soli 426 chili! Già al decollo i problemi non mancarono: sotto il peso di 3.180 chili  di carburante avio, le semiali si piegarono fino a urtare il suolo e due winglets, alette di controllo poste alle estremità delle ali, si staccarono. Ma Dick Rutan non se ne accorse, perché il microfono della radio era rimasto staccato e non sentì i disperati messaggi del fratello e dell’amico Mike Melvill, preso a controllare l’aereo che sembrava troppo lento rispetto ai calcoli. Nei 9 giorni Dick e Jeana, che non pilotava, ma svolgeva il fondamentale ruolo di supporto e controllo, dovettero affrontare di tutto: il motore anteriore si bloccò solo dopo poche ore di volo e ci volle parecchia inventiva per capire cosa l’aveva causato facendolo tornare miracolosamente in funzionamento. Durante il volo  di crociera, normalmente veniva tenuto in funzione solo uno dei due motori, utilizzandoli entrambi solo in caso di necessità. Successivamente l’impianto di pressurizzazione iniziò a non funzionare, quindi dovettero volare quasi sempre tra i 3 e i 4.000 metri. Questo voleva dire non poter sfuggire alle tempeste e alle correnti ascensionali, che sbattevano l’aereo come uno straccio.

Inoltre l’equipaggio dovette utilizzare giornalmente l’aspirina per tenere il sangue liquido e contrastare gli effetti della quota.

Non si poteva mai veramente riposare, c’erano sempre da controllare le temperature (un malfunzionamento alle ventole di raffreddamento teneva troppo elevata la temperatura dell’olio nei motori), sentire dal controllo missione a Mojave nell’hangar 77 la situazione meteo (Len Snellman, il metereologo volontario dell’equipe, fece del suo meglio per calcolare le rotte che li portassero lontani da tifoni e tempeste), continuare a travasare il carburante tra i serbatoi per mantenere l’equilibrio ed evitare torsioni eccessive alla struttura.

Oltre che a una serie di fortunali che sembrarono fare apposta a concentrarsi sulla loro rotta, si doveva lottare anche con le valvole del carburante, che tendevano a congelare. Sulla costa sudamericana una di queste smise di funzionare definitivamente. Assieme a tutto questo stress, anche il pilota automatico, che avrebbe dovuto affiancare Dick per buona parte del volo, sopra le Filippine mostrò funzionamenti anomali dei giroscopi, per cui non fu mai completamente affidabile.

Dick non poteva contare su turni di riposo finché non fosse stato riparato, per cui a Jeana toccò smontare e ricontrollare tutti i cablaggi delle strumentazioni, alla ricerca del guasto. Un errore di rotta di pochi decimi di grado avrebbe voluto dire perdersi su un oceano e la morte.

All’epoca il GPS era qualcosa che potevano permettersi i militari, e il governo americano non aveva patrocinato i Rutan… nonostante le autorità militari consentissero loro di appoggiarsi ai canali satellitari quando non occupati da traffico militare, alcuni danni alle antenne resero difficile il collegamento via UHF per tutto il volo.

Ma intanto l’impresa aveva calamitato l’attenzione nel pubblico mondiale, sembrando di rivivere i lontani 20 e 21 maggio 1927, giorni  in cui Charles Lindbergh, per primo e in solitaria, riuscì ad attraversare l’Atlantico a bordo del monoplano Ryan  “Spirit of St. Louis”.

Inoltre, gli ultimi 2 giorni di volo furono i più tesi, con l’equipaggio ormai stremato che dovette affrontare il pericolo più letale: i conteggi sul carburante non tornavano, per cui non si riusciva a capire  se vi fosse un consumo anomalo oppure se un serbatoio avesse una perdita… furono ore di frenetici colloqui col centro controllo e tentativi di far ragionare menti stanche e intorpidite dal rumore continuo dei motori.

Quando nella notte tra il 22 e il 23 dicembre il Voyager finalmente si stava avvicinando alla base di Edwards, Mike Mellvill e Burt Rutan saltarono sul bimotore Beechcraft Duchess (curiosamente per una volta Rutan non utilizzò un aereo di sua costruzione, ma della “concorrenza”) già utilizzato come aereo di supporto durante i collaudi, decollarono e raggiunsero il Voyager per scortarlo fino alla base, dove finalmente toccò terra sulla pista utilizzata dagli Space Shuttle al rientro dalle missioni spaziali,  alle 8.05 del 23 dicembre 1986.

Avevano volato per 40.210 chilometri e 969 metri, in nove giorni, tre minuti e 44 secondi, battendo il record stabilito nel 1952 da un bombardiere B 52 H dell’USAF nel 1952.

Nei serbatoi saranno trovati solo 32 litri di carburante residui.

Ad accoglierli  c’erano oltre 80.000 persone affluite nel deserto californiano, fin dentro la base, lungo la pista di atterraggio.

Vi era stato anche un’ulteriore grande sacrificio affrontato dall’equipaggio, di cui nessuno al di fuori dei partecipanti all’impresa era a conoscenza: la relazione tra Dick Rutan e Jeana Yeager non stava andando bene già prima che il viaggio cominciasse. Mesi di frenetici viaggi in giro per gli States, tra apparizioni in tv e conferenze stampa, per promuovere l’impresa avevano ulteriormente aggravato la situazione. Così che già qualche mese prima del decollo i due  avevano deciso di separarsi. Ma non avevano voluto renderlo pubblico per le conseguenze devastanti che avrebbero avuto sul progetto Voyager. Anzi, decisero di affrontare assieme il volo per il quale così a lungo si erano preparati assieme.

Poco tempo dopo la missione, il Voyager fu ritirato dal volo e donato alla Smithsonian Air and Space Museum, dove si trova esposto. A poca distanza dallo “Spirit of St. Louis” di Lindbergh.

Burt ce l’aveva fatta: a dispetto di tutte le previsioni ora davvero era entrato nella storia del volo. Ed aveva dimostrato che si può costruire un aereo di successo con materiali e linee ben diverse da quelli tradizionali. Aveva  indicato che una nuova via di sviluppo per l’aeronautica era possibile.

di Davide Migliore

 

Fonti generali

http://en.wikipedia.org/wiki/Burt_Rutan

http://it.wikipedia.org/wiki/Burt_Rutan 

biografie di Burt Rutan su Wikipedia

http://en.wikipedia.org/wiki/LTV_XC-142

gli anni con l’USAF alla Edwards AFB. Il progetto XC 142

http://en.wikipedia.org/wiki/Rutan_VariViggen

http://www.youtube.com/watch?v=sgbGpulUJdU

http://www.airventuremuseum.org/collection/aircraft/3Rutan%20VariViggen.asp

il primo progetto di Burt Rutan destinato alla produzione in serie

http://en.wikipedia.org/wiki/VariEze

il VariEze, primo grande successo di Burt Rutan.

http://airandspace.si.edu/collections/artifact.cfm?id=A19880548000

http://www.youtube.com/watch?v=jyRGNcbeS7o

l’aereo dei record : il Rutan Voyager

http://www.oshkosh365.org/saarchive/eaa_articles/1987_02_01.pdf

il viaggio del Voyager nelle parole del giornalista Jack Cox

http://www.youtube.com/watch?v=MYW6X46qWG0  

http://www.youtube.com/watch?v=OeO5xDfgRhs

http://www.youtube.com/watch?v=f9p0urF-Amc

http://www.youtube.com/watch?v=shlhQLw6jOg

Frontiers of Flight – the last great world record (1992), 4 parts vide

http://www.airportjournals.com/Display.cfm?varID=0612035

http://www.airportjournals.com/Display.cfm?varID=0701014

Airplane Journals, December 2006 I and II part, the story of the Voyager enterprise.

http://www.parabolicarc.com/2011/12/18/burt-rutan-recounts-emotional-voyager-flight/

Burt Rutan ricorda in un’intervista l’epopea del progetto Voyager

http://www.scaled.com/about/

Link al sito della Scaled Composites

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Una sera all’Hangar Bicocca

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Una sera all’Hangar Bicocca

Pubblicato il 29 gennaio 2013 by redazione

Un’uggiosa domenica di dicembre. In due, si decide di prendere un autobus: linea 87, fermata Via Chiese. E’ qui che si distende il vasto complesso espositivo dell’Hangar Bicocca, che occupa gli spazi dell’ex area industriale più importante d’Italia, tra Milano e Sesto San Giovanni. Dopo l’abbandono della zona da parte dei gruppi maggiori (Finanziaria Ernesto Breda, poi Ansaldo, Falk, Marelli, Pirelli), il progetto di riconversione avviato già dagli anni ’80 ha fatto sì che l’aspetto urbanistico prevalesse su quello industriale: numerosi capannoni e aree, un tempo occupate dalle fabbriche, hanno lasciato spazio ad abitazioni, centri commerciali, edifici dell’Università degli Studi di Milano Bicocca e uffici. All’interno di questa riqualificazione si colloca Hangar Bicocca, che dal 2004, ospita mostre ed eventi riguardanti i temi della ricerca e della sperimentazione.

sequenza#2sequenza#1Già dai primi passi nel vialetto che porta verso l’ingresso, si è catapultati in una realtà parallela, quasi come se si entrasse in un luogo di culto, una sorta di tempio dell’arte contemporanea. Ad accoglierci, “La Sequenza”, un’opera di Fausto Melotti, ingegnere, musicista, scrittore e soprattutto scultore. Ciò che colpisce è il fatto di non riuscire a coglierla in un unico sguardo: suddivisa in tre piani identici, lo spazio è definito attraverso l’alternanza di volumi pieni e vuoti; a ogni passo si aprono nuove vedute, nuove brecce attraverso quella che simbolicamente vuole rappresentare una scena teatrale. L’ingresso è per definizione racchiuso tra queste forme: preclude prima, svela poi.

Entriamo. La hall dalle pareti bianche, quasi come in un film di Kubrick, precede l’ingresso alle sale espositive, mentre sugli schermi laterali scorrono le interviste agli autori delle opere in allestimento.

sette_palazzi#2sette_palazzi#1I sette Palazzi Celesti

Dietro un pesante sipario nero, s’innalzano “I Sette Palazzi Celesti”. L’autore è Anselm Kiefer, che ha sempre posto al centro della propria speculazione artistica un interrogativo importante: quale deve essere il ruolo di un artista tedesco dopo l’Olocausto e come può relazionarsi con la recente storia della propria nazione? Kiefer ha cercato di dare una risposta attraverso “l’indagine degli elementi religiosi, filosofici e simbolici che sono all’origine degli eventi, investigandone le radici nascoste e invisibili”, si legge sui libretti descrittivi a disposizione per i visitatori. Quest’opera costituisce forse l’apice del percorso compiuto dall’artista e vuole rappresentare le macerie dell’Occidente dopo la Seconda Guerra Mondiale. Le sette torri sono realizzate in cemento e hanno la forma di container industriali. Ognuna di esse ha un significato fortemente simbolico, con figure tratte ancora una volta dalla religiosità (in particolar modo ebraica); la stessa idea alla base dell’opera, “I Sette Palazzi Celesti” è un rimando alle grandi costruzioni religiose dell’antichità, dalle piramidi alle ziggurat.

Sefiroth, che racchiude in sé le espressioni o “mezzi” di Dio; Melancholia, con riferimento a Saturno, pianeta della malinconia, sotto la cui stella si riteneva nascessero gli artisti; Ararat, il monte a cui approdò l’Arca di Noè; Linee di campo magnetico, costituita da una lastra di piombo che la percorre dall’alto al basso, insieme a una bobina, simbolo della continua sopraffazione dell’arte sull’arte, così come quella dell’uomo sull’uomo; JW&WH, che unite formano il sacro e impronunciabile nome di Jahweh; Torre dei quadri cadenti, rivestita da cornici di ferro senza immagini.

Eccoli, “I Sette Palazzi Celesti”, si parano davanti a noi. Un’unica sensazione: sindrome di Stendhal.

time_foam#2time_foam#1Altre due istallazioni ci attendono. La prima è dell’architetto argentino Tomas Saraceno: “On Space Time Foam”. Le tematiche a cui Saraceno si dedica sono svariate, prima fra tutte la ricerca di modalità di vita sostenibile per l’uomo, che lo pongano in un rapporto diverso con la natura e con gli altri uomini; questo si traduce nella volontà di creare ambienti che rispecchino tali concetti grazie all’uso delle tecnologie più sofisticate. Non solo arte per l’arte, ma arte per la vita. L’opera in mostra all’Hangar è un esempio di connubio tra queste teorie e quelle legate alla meccanica quantistica, al concetto di spazio-tempo, immaginato come una membrana formata da tre strati di un materiale aerostatico, nel quale è possibile fluttuare. Una volta entrati si diventa parte integrante dell’opera, sono i movimenti, le posizioni e le espressioni delle persone a determinare ogni volta una configurazione nuova, in un continuo divenire mutevole. E poi ci siamo noi, che dal basso ammiriamo come tutto quel fluttuare sembra sfidare le leggi della gravità.

unidisplay#2unidisplay#1Ma le sorprese non sono ancora finite. Prima di uscire c’è l’ultima istallazione: “Unidisplay” di Carsten Nicolai. Le immagini in bianco e nero, proiettate su una parete prolungata all’infinito grazie a due specchi paralleli posti ai lati, scorrono incessantemente sul sottofondo di suoni ricavati dagli stessi segnali elettrici usati per crearle. Ci sediamo e ci troviamo immersi in sequenze, motivi e forme grafiche che si susseguono incessantemente. Lo sguardo e la mente restano come ipnotizzati. L’orecchio si tende non tanto ai suoni, ma alle frequenze. L’artista raggiunge il suo scopo: proiettare l’osservatore in un mondo astratto, extrasensoriale, lontano dal tram-tram che là fuori domina, ma che tutto d’un tratto sembra non esistere più, per pochi intensissimi minuti.

di Michele Mione

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Incidenti nucleari militari  1985 – 1986

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Incidenti nucleari militari 1985 – 1986

Pubblicato il 29 ottobre 2012 by redazione

Incidenti nucleari militari  1985 – 1986

Nella seconda metà degli anni 80 si preparano eventi che segneranno la fine degli equilibri di potere così come il mondo li aveva conosciuti da più di quarant’anni, che sembravano non modificabili a breve, se non addirittura intoccabili: la divisione in blocchi militari fra est e ovest del mondo, i sistemi economici capitalisti e socialisti, con le relative teorizzazioni e divisioni ideologiche. Il 1989 segnerà la fine sì dell’unione Sovietica, travolta da processi a cui non è riuscita a prepararsi, ma anche il blocco occidentale si troverà impreparato ai cambiamenti del nuovo millennio… tuttavia, prima di quei giorni che chiusero un’era, vi sono stati ancora anni in cui i toni del confronto tra gli schieramenti della guerra fredda tornarono più aspri che mai, tanto da far temere che si fosse vicini alla guerra aperta, quindi all’apocalisse nucleare. Un decennio pieno di controsensi, retorica, sospetti, con un rifiuto sempre più marcato nelle opinioni pubbliche di ideologie, modelli che sapevano di un passato sbagliato. Una voglia di disimpegno, di dimenticare la paura, l’angoscia dell’annientamento nucleare e semplicemente, finalmente, vivere. Sia ad est che a ovest, seppure con toni diversi le sensazioni furono inaspettatamente comuni. Perché la seconda guerra mondiale era finita ormai da cinquant’anni, ma in realtà il mondo era piombato nella terza, che non si era combattuta in campo aperto, ma in singoli teatri di guerre e crisi locali. Senza scontri diretti fra le superpotenze, almeno fino a quel momento. Gordon Matthew Thomas Sumner, musicista inglese molto noto al pubblico internazionale con il nome d’arte Sting, chiuse tutte queste sensazioni nel testo di una canzone per altro molto intensa, “Russians” (nota1), che scrisse nel 1985  e pubblicò l’anno successivo. E’ una canzone pacifista che, come talvolta accade agli artisti, ha avuto la capacità di esprimere e concentrare tutte le obiezioni, le paure che vivevano milioni di persone, schiacciate  in un gioco più grande di loro… nel testo Sting cita il leader sovietico Nikita Kruscev, che in un discorso promise agli occidentali “vi seppelliremo tutti”, così come il presidente statunitense prometteva ai suoi alleati “noi vi proteggeremo”: garbatamente Sting rispondeva a entrambi che la gente non era d’accordo con quei punti di vista. E soprattutto, diceva che non esiste una guerra (nucleare ovviamente) che si può vincere, è una bugia retorica a cui non crede più nessuno. Che condividiamo tutti la stessa biologia, nonostante le differenti ideologie. E che l’unica cosa che potesse salvare tutti è che anche i Russi amassero i loro bambini… e l’insistente ticchettio ricordava (ma lo fa ancora oggi) che l’orologio  della catastrofe segna pochi minuti alla mezzanotte nucleare…e continua ad andare avanti.

Mentre il mondo restava attanagliato da queste paure, ciò che le causava, l’arsenale nucleare, continuava ad esser ben presente e ad espandersi. Ai militari di entrambi gli schieramenti i rispettivi governi chiedevano di esserne sempre pronti all’uso, di continuare  nella sfida reciproca all’efficienza. Quindi le armi nucleari continuavano ad essere portate in giro per il mondo, in un clima di tensione continua. E gli incidenti di conseguenza continuarono ad accadere, nonostante tutte le rassicuranti parole dei leaders politici. Come nella canzone di Sting…..

1985

11 febbraio  La temperatura era piuttosto rigida quel giorno a Fort Redleg, una base della U.S. Army nell’allora Repubblica Federale Tedesca a pochi chilometri dalla città di Heilbronn (nota 2) . Una squadra  di artiglieri della 56° Brigata di artiglieria da campo (56th Field artillery Brigade) stava procedendo all’estrazione del missile nucleare a medio raggio autotrasportabile, quando questo inspiegabilmente prese fuoco ed esplose causando la morte di tre militari, il ferimento di altri sette e notevoli distruzioni nel perimetro della base. L’arma era uno dei 108 lanciatori che dal 1983 erano in corso di rischiaramento in Germania, per fronteggiare di missili di pari classe da parte dei Sovietici nei paesi del Patto di Varsavia, Germania Democratica compresa. In realtà l’arrivo di quei missili in dotazione all’esercito americano aveva già creato molte polemiche in Europa, poiché da alcuni era sostenuto apertamente che lo schieramento di armi da parte dei Russi fosse avvenuto per l’intransigenza crescente da parte dell’amministrazione Reagan sugli equilibri degli schieramenti nucleari e sulla diffidenza verso le dichiarazioni ufficiali  di Mosca in materia. Il missile Pershing II era stato tutta la notte all’aperto, nel contenitore con cui era arrivato dagli States. Ora la squadra di militari, con una temperatura di circa -7 gradi, nonostante fossero già le 14 del pomeriggio, stava smontandolo per posizionarlo sul carrello – lanciatore mobile. L’esercito americano stava amaramente per comprendere che anche i missili a propellente solido potevano essere soggetti a incidenti, non solo quelli liquidi. Secondo quanto fu appurato dall’inchiesta tecnica, mentre il personale della batteria C del 3° battaglione procedeva ai lavori, il motore del missile, la cui struttura esterna era costituita da kevlar, strisciò contro la gomma siliconica che costituiva la protezione interna del container. La bassa temperatura e il freddo secco favorirono l’accumularsi di una forte carica elettrostatica che incendiò il carburante Thyokol TX 174 del primo stadio. In meno di un secondo la pressione e la temperatura furono tali che l’intero missile si sbriciolò, lanciando rottami fino a  quasi 300 metri di distanza ed investendo con fiamme altissime tutto ciò che lo circondava. Per fortuna la testata da 400 kilotoni  era come da procedure, custodita in un “pit” corazzato separato. A seguito dell’esplosione la movimentazione di tali armi nucleari fu bloccata fino al 1986, quando venne profondamente modificato il manuale sulle procedure di manutenzione e messa in sicurezza dei missili a propellente solido.

10 giugno nelle prime ore del mattino, il sottomarino lanciamissili a propulsione nucleare HMS Resolution (nota 3), in servizio con la Marina di Sua maestà Britannica, venne speronato a largo di Cape Canaveral in Florida da uno yacht privato, il Proud Mary, che dovette essere trainato in porto per le riparazioni. Il Resolution invece non ebbe danni di grande rilievo. Il sottomarino stava raggiungendo il poligono di tiro della U.S. Navy Atlantic Test Range, per procedere ad un lancio addestrativo di un missile intercontinentale Polaris. Il Resolution era il primo dell’omonima classe di sottomarini, costruiti per portare ciascuno 16 lanciatori del missile americano. Furono costruiti 4 esemplari, oggi tutti ritirati dal servizio.

Immagine 1 il relitto del sottomarino K 431 attende a Petropavlovsk  l’inizio dei lavori di smantellamento

Immagine 1 : il relitto del sottomarino K 431 attende a Petropavlovsk l’inizio dei lavori di smantellamento. Il 10 agosto 1985 un incidente durante il cambio della barre di Uranio dei reattori causò una delle peggiori catastrofi nella storia dell’atomo militare.

10 agosto nella baia di Chazhma, a pochi chilometri dalla popolosa Vladivostock, la Marina Russa ha da sempre  la sua base di appoggio per la flotta del Pacifico, dove viene anche effettuata la manutenzione per i sottomarini a propulsione nucleare. Il K 431 (nota 4 e immagine 1), un sottomarino  della classe Echo II potenziato da due reattori a acqua pressurizzata da 70 Megawatt, quel giorno veniva sottoposto alla sostituzione delle barre di combustibile, costituite da una lega a base di uranio arricchito. L’operazione, per quanto complessa, era abbastanza comune sia per gli equipaggi che per il personale civile della base. Ma quel carico fu causa di uno dei più terribili incidenti militari di cui si abbia conoscenza. Verso la sera, mentre gli uomini stavano ultimando il carico, venne notato un disallineamento tra il  coperchio del reattore e la camera delle barre: a causarlo un elettrodo da fusione, dimenticato da un operaio. Si dovette nuovamente sollevare con l’argano sia le barre di Uranio che la griglia del sistema di contenimento. Nell’esatto momento in cui il reattore veniva estratto, il passaggio di una silurante nella baia causò un’onda tale lo scafo del sottomarino si spostò, le barre e la grata di contenimento si allontanarono tra loro ben oltre la distanza massima consigliabile. Alle 10.55, pochi attimi dopo, il combustibile del reattore di destra entrò in una reazione a catena spontanea incontrollabile. Un’enorme esplosione distrusse il comparto motore, uccidendo sul colpo le dieci persone, tra marinai e lavoratori, in quel momento attorno al battello, scagliò il pesante coperchio del reattore nell’acqua a 70 metri di distanza, squartò lo scafo e il ponte a poppa del battello e lanciò le barre di Uranio estremamente cariche (o quel che ne rimaneva) nella base e nella foresta attorno alla stessa. Un incendio violentissimo fu domato con fatica dopo quattro ore, mentre il sottomarino giaceva affondato di poppa nel bacino. Buona parte dei detriti cadde entro un raggio di 100 metri, ma una nube di ceneri e gas radioattivi venne spinta verso la penisola di Dunay, di fronte alle banchine della base, sfiorando la città militare di Shkotovo 22, a circa 1 chilometro e mezzo. Nelle 24 ore successive, iniziò il calcolo dei danni della contaminazione nucleare. Al momento dell’esplosione il livello di contaminazione era di 90.000 Roentegents/ora, circa tre volte quello attorno alla centrale di Chernobyl dopo l’esplosione del reattore. Alcune ore dopo era sceso, ma si attestava a 600 Roentgents/ora, comunque ben 30 volte superiore alla dose mortale per un essere umano che vi sia esposto per soli cinque minuti…una energia pari a sei milioni di Curie venne liberata nell’aria. I corpi, o quel che ne restava, dei dieci morti, letteralmente schiacciati, carbonizzati sulle pareti del sottomarino o della banchina, vennero seppelliti a notevole profondità, in quanto fortemente radioattivi. Il 30% del territorio della base e due chilometri quadrati della foresta risultarono contaminati oltre ogni possibilità di bonifica. Immediatamente iniziò l’opera di contenimento, che impegnò 2.209 persone, esposte a dosi massicce di radiazioni lavorando prive di protezioni. Già nei giorni successivi 49 tra pompieri e marinai svilupparono avvelenamenti acuti da radiazioni. In gran velocità vennero rimossi e seppelliti in 4 grandi trincee scavate nella foresta ben 1.200 metri di asfalto, 4.585 metri cubi di terra e pietrisco, 760 tonnellate di metallo e cemento. Delle persone impiegate nella bonifica 290 operarono nell’area maggiormente contaminata. Quanti morirono o subirono, fino ad oggi, le conseguenze durature dell’esposizione non sarà forse mai possibile saperlo, il risvolto forse più amaro di questo incidente. Le autorità  sovietiche, con la ben nota mania per la riservatezza, distrussero tutte le prove (cartellini di ingresso ai cantieri, ordini di servizio, registri..) per cui a nessuno dei lavoratori fu possibile vedersi riconosciuto il servizio reso in quei giorni. Così come ad ufficiali e marinai fu dato ordine tassativo di mantenere il silenzio: un segreto che rimase tale fino al 1993.  Ancora oggi giornalisti coraggiosi e associazioni indagano sulle tragedie ecologiche ed umane di quegli anni, in una battaglia legale con il governo russo a colpi di processi e ingiunzioni contro la censura, che prosegue da oltre vent’anni. Intanto i materiali radioattivi continuano a inquinare mortalmente le acque e il terreno attorno alla baia di Chazhma…

Nel corso del 1985 a bordo di sottomarini sovietici in servizio si sarebbero verificati altri incidenti, ma sulle effettive dimensioni degli stessi, danni a persone o all’ambiente non vi sono ad oggi notizie certe: il K 447, il K 208 e il K 367 sarebbero stati vittime di perdite al sistema primario di raffreddamento, di cui non si conoscono però i particolari, tranne che per l’ultimo battello, per il quale si sospetta sia andato in avaria il sistema di controllo automatico dell’attività del reattore. Il K 38, il K 255 (questi primi due a quanto pare nel corso del mese di marzo), il K 369, il K 298 e il K 192 subirono incendi.

24 ottobre il sottomarino nucleare da attacco USS Swordfish (SSN 579) (nota 5), durante la navigazione nell’Oceano Pacifico subì un’avaria al sistema di propulsione. Non se ne conosce la portata.

24 novembre  la portaerei americana a propulsione nucleare USS Enterprise (CVN 65) si arena sulla Bishop’s Rock a circa 100 miglia dalla base navale di San Diego in California. La portaerei riceve una falla di quasi venti metri sullo scafo e un danneggiamento ad un’elica, ma è in grado di partecipare alle manovre. Dopo il 27 novembre, la portaerei raggiunse il porto per le riparazioni in bacino di carenaggio. Durante le ispezioni venne constatato che un’elica si era deformata e dovette esser sostituita. Ma in ogni caso, la portaerei fu in grado di partecipare all’esercitazione preventivata, né furono rilevate anomalie ai reattori.

31 dicembre mentre è attraccato al porto di Palma di Maiorca, nelle isole Baleari, l’USS Narwhal (SSN 671), sottomarino d’attacco classe Sturgeon, rompe i cavi di ormeggio e resta alla deriva per alcune ore nella baia, prima che si riesca a rimorchiare il battello di nuovo al molo (nota 6). Il Narwhal era in realtà un classe Sturgeon “anomalo”, in quanto servì a testare i reattori S5G con sistema di raffreddamento del reattore “a circolazione naturale dell’acqua”, così come altri accorgimenti strutturali adottati poi su altre classi di sottomarini. Questo rendeva il Narwhal all’epoca il sottomarino più silenzioso nell’arsenale americano, quindi meno individuabile. Per questo fu probabilmente coinvolto in missioni di sorveglianza e spionaggio, di cui oggi ancora nulla ufficialmente si conosce.

1986

Immagine 2 la torretta dell'USS Nathanael Greene (SSBN 636) posta all'ingresso della rada di Cape Canaveral

Immagine 2: la torre di comando dell’USS Nathanael Greene (SSBN 636) accoglie le navi all’ingresso del porto di Cape Canaveral, in Florida. La base, nota per le installazioni spaziali della NASA, in realtà è anche inserita in un poligono marino di tiro in cui i sottomarini (statunitensi e di Paesi alleati) sono autorizzati a effettuare lanci di addestramento dei missili normalmente dotati di testate nucleari. Dopo la demolizione, la torre è stata adottata come ‘gate guardian’, la ‘guardia del cancello’.

13 marzo  il sottomarino lanciamissili balistici USS Nathanael Greene (SSBN 636), nonostante il ruolino di servizio di tutto rispetto, è un battello abbastanza bersagliato dalla sfortuna: dopo due incidenti, uno nel 1970 e ben due nel 1984, durante un’esercitazione di immersione profonda nel mare d’Irlanda, urtò il fondale per motivi non del tutto chiariti, danneggiando gravemente le superfici di controllo a poppa e le casse di zavorra principali (nota 7). Ricevute le prime riparazioni di emergenza presso la base scozzese di Holy Loch, il sottomarino attraversò l’Atlantico in immersione,  raggiungendo la base di Charleston, in South Carolina. I danni ingenti subiti dal battello, la sua non più giovane età (i sottomarini classe James Madison erano entrati in servizio lungo gli anni 60) e le restrizioni sul numero di sottomarini dotati di armi nucleari strategiche stabilite nel trattato di disarmo SALT II ne segnarono il destino.

Immagine 3 lancio da sottomarino di un missile UGM 73 Poseidon

Immagine 3: lancio in immersione di un missile balistico intercontinentale ad uso marino Locheed Martin UGM 73 Poseidon. Il missile è un esemplare da esercitazione, come indica il colore vivace della pannellatura.

Radiato dal servizio attivo e inserito nel programma Submarine Recycling Program (immagine 2), restò assieme a molti altri battelli ormeggiato nel Puget Sound Naval Shipyard di Bremerton fino al 2000, quando lo smantellamento e lo smaltimento del battello fu terminato. Sulla sfortuna o meno di un mezzo si può discutere, anche fare delle battute di spirito, se non fosse per il rischio  che riguarda in primis l’equipaggio (sul Greene erano imbarcati 143 uomini). Ed anche molte altre migliaia di persone, visto che oltre alle barre di Uranio del suo reattore ad acqua pressurizzata S5W, l’armamento di lancio del sottomarino prevedeva 16 silos contenenti altrettanti missili balistici intercontinentali Lockheed UGM 73 Poseidon (immagine 3), ciascuno capace di portare in media 10 testate W68 da 40/50 chilotoni di potenza ciascuna (Fat Man, l’atomica sganciata su Nagasaky aveva una potenza di 22 chilotoni, ovvero 22mila tonnellate di TNT). Senza contare la possibilità di imbarcare anche siluri a testata nucleare modello Mk 45…. Lasciamo fare a voi due conti rapidi sul potenziale distruttivo contenuto nel, Nathanael Greene. La Marina Statunitense ha ammesso che questo incidente è tra il più gravi che siano occorso alla sua flotta sottomarina nucleare, dopo quelli che hanno portato alla perdita dell’intero battello (immagine 2).

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Immagine 4 : un cane nato con gravi malformazioni causate dalle radiazioni emanate dal reattore della centrale di Chernobyl e esposto al museo dell’incidente a Kiev, in Ucraina. Immagine concessa in uso da Vincent de Groot

26 aprile Chernobyl. Pochi nomi come questo sono capaci di evocare angoscia, di incarnare l’immagine della tragedia, fino a diventarne un sinonimo (nota 8, immagini 4, 5 e 6). Non è un incidente nucleare militare, ma dopo Hiroshima e Nagasaky è di gran lunga il più grave, 7° grado della scala INES che misura la gravità di questi eventi. E’ 1.24 di notte: il reattore viene sottoposto in quei giorni a prove di funzionamento sotto stress, in particolare si stava provando per quanto tempo turbina e generatore riuscissero a produrre energia, anche dopo che  l’impianto di raffreddamento avesse cessato di produrre vapore. Per questo erano stati disabilitati alcuni sistemi di sicurezza. Nella sala di controllo non si percepisce, nei minuti precedenti, ciò che sta accadendo, perché la crescita del calore nel reattore è talmente rapida da superare la capacità di rilevamento degli strumenti. Il progetto del reattore RBMK 1000, raffreddato ad acqua pressurizzata e moderato con barre di grafite, come molti altri  reattori sovietici, non è nato per produrre energia, ma per arricchire il Plutonio a uso militare. Non ha sistemi secondari di contenimento, perché deve essere facile la sostituzione delle barre di combustibile, come in tutti i reattori di questo tipo.

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Immagine 5 : attorno alla centrale, immensi cimiteri di mezzi di ogni tipo restano abbandonati alla ruggine. Troppa la radioattività assorbita nei durante il lavoro attorno al reattore n. 4 scoperchiato. Nessuno conosce con certezza il destino di chi li ha utilizzati in quei terribili giorni….

Quando il personale nella sala di controllo comprende che qualcosa sta andando storto, è troppo tardi. Anzi, la decisione di rimettere nel nucleo le barre di assorbimento in grafite (che costituiva la fase finale del test)  non fece nient’altro che dare altro combustibile al rogo nucleare, perché le barre scesero solo parzialmente, bloccate nei condotti deformati dal calore. A quel punto tutto si fonde, dalle tubature spezzate l’acqua di raffreddamento raggiunge le barre in fusione nel basamento e evapora istantaneamente. L’idrogeno generato esplode scagliando attraverso il tetto dell’edificio i blocchi di cemento di contenimento, assieme ad almeno il 25% delle barre di Uranio e di quelle di grafite, come un vulcano in piena eruzione. Pulviscolo e vapore altamente radioattivi sono scagliati nell’atmosfera. Nella vicina città di Pripyat l’esplosione sveglia buona parte dei cittadini. Nell’impianto 3 persone sono morte istantaneamente, altre 28 entro poche ore moriranno per l’immensa quantità di radiazioni emesse: secondo i calcoli degli scienziati, fino a 400 volte le emissioni della bomba di Hiroshima. Dopo il solito tentativo di minimizzare o negare l’accaduto, durato peraltro alcuni cruciali giorni, di fronte alla nube radioattiva che attraversava l’Europa portando con se Iodio 131 e Cesio 137, il governo dell’URSS dovette ammettere  con gli altri Paesi la portata dell’incidente e chiedere aiuto alla comunità internazionale. L’ultimo dei 42 vigili del fuoco ed operai che intervengono immediatamente sul tetto e attorno al cuore del reattore, muore 96 giorni dopo la tragedia. I sovietici inviano migliaia di soldati a spostare freneticamente i detriti in fiamme dal tetto degli altri 3 reattori del complesso, a evacuare  città e villaggi per migliaia di chilometri quadrati attorno all’impianto. Le prime immagini concesse alle tv occidentali li mostrano lavorare davanti al mostro senza altro addosso che tute da protezione antincendio o maschere antigas. Come entrare nudi in un altoforno. Attorno al reattore sventrato si misurano coi contatori Geiger 20.000 Roentgen. Per capirsi, l’esposizione a soli 500 Roentgen in un’ora,  porta un essere umano alla morte entro le 5 ore successive. L’emissione del vapore ionizzato, fonte della più intensa contaminazione, cessa il 10 maggio. Quanti siano stati esposti alla fine dell’emergenza, cioè una volta rinchiuso il reattore in un immenso sarcofago di cemento e acciaio, non è dato sapere. Fino a tutto il 1987 erano stati contati 2.900 lavoratori civili e oltre 16.000 soldati nel cantiere. Anche se c’è chi parla di oltre 600mila “liquidatori”, certificati con attestato dello Stato,  che si avvicendarono a Chernobyl, spesso gettando direttamente nella fornace nucleare detriti e grafite, a mani nude. Circa 240.000 lavorarono all’interno dei 30 chilometri dal reattore, assorbendo dosi elevate di energia per più lungo tempo. A 26 anni di distanza, l’area per sempre inabitabile, le città fantasma, abbandonate in pochi giorni, le suppellettili lasciate parlano di vite spezzate in un momento. Gli oltre 1350 tra camion, cingolati, betoniere, gli elicotteri utilizzati per sganciare sul reattore scoperchiato boro, sabbia e dolomia,  abbandonati, completamente resi radioattivi; sono queste le parole mute che restano. Come le fotografie di tanti che si sono sacrificati in quelle ore. Le possiamo vedere a Kiev, al museo del disastro. O sulle tombe nei villaggi, da dove venivano quei soldati e quegli operai. Parlano i  casi di leucemia e  cancro alla tiroide, che molto spesso colpiscono i bambini: tra il 1987 e il 2005 ne sono stati conteggiati 6000 casi, nella popolazione giovanile esposta  direttamente alla contaminazione in Ucraina e Bielorussia, per cui statisticamente c’è da attendersi un incremento del trend, dovuto all’azione prolungata nel tempo di alcuni elementi radioattivi persistenti, oltre che dai danni immediati. Alcune fonti, come Greenpeace, hanno calcolato potranno raggiungere i 90.000. Anche se l’UNSCEAR (United Nations Scientific Committee on the Effects of Atomic Radiation, Comitato Scientifico delle Nazioni Unite per lo studio degli effetti delle radiazioni ionizzanti) ha condotto 20 anni di dettagliata ricerca scientifica ed epidemiologica sugli effetti del disastro. A parte i 57 decessi direttamente ascrivibili all’incidente in sé, l’UNSCEAR ha originariamente predetto fino a 4,000 casi di tumori da attribuire all’incidente.  Al di là di questo, il sarcofago costruito allora sta rapidamente arrivando a fine vita, numerose crepe stanno creandosi, dopo 25 anni di radiazioni e una temperatura interna che in alcuni punti raggiunge ancora i 1000 gradi…. Il nocciolo e la struttura del reattore, ormai fusi assieme, sono sprofondati di altri 4 metri, seppur le fondamenta non siano state superate in nessun punto. Lì giace il “piede di elefante”, un ammasso di Uranio, Grafite e altri materiali colato dalla sala del reattore e solidificatosi in questa strana forma. Un robot lo ha fotografato durante una delle ispezioni sullo stato interno del sarcofago. Ma solo un robot poteva avvicinare quel mostro che  emette un’energia di 10.000 Roentgen all’ora, sufficiente a mandare in pezzi un corpo umano nel giro di pochi minuti. Ma quel che è peggio, la centrale si trova nel bacino naturale dei fiumi Pripyat e Dnepr, quest’ultimo sfocia nel Mar nero, lungo le sue rive vivono più di 30 milioni di persone. L’avvelenamento delle falde ed il rilascio nei fiumi di radionuclidi potrebbe avere conseguenze incalcolabili…29 aprile l’USS Atlanta, sottomarino da attacco appartenente alla classe Los Angeles, collide violentemente contro il fondale durante la navigazione attraverso lo stretto di Gibilterra, mentre sta entrando nel Mediterraneo (nota 9). Immediatamente il sistema di emergenza (Emergency Ballast Tank Blow System, sistema di espulsione di emergenza dalla cassa di zavorra) entrò immediatamente in azione spingendo tonnellate di acqua fuori dalla cassa ed il sottomarino riemerse rapidamente.

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Immagine 6: sul pavimento di un edificio a Pripyat migliaia di maschere antigas, con cui migliaia di lavoratori operarono nell’area di interdizione attorno alla centrale. Totalmente inutili contro le radiazioni, sono un simbolo dell’impotenza di fronte al mostro.

Una prima ispezione dei sommozzatori di bordo confermò che l’impatto è stato tanto violento da riuscire a staccare la cassa di zavorra di prua dallo scafo in alcuni punti, mentre la fibra di vetro che costituisce l’isolante interno pendeva ridotta a brandelli…anche l’’impianto sonar fu danneggiato, lasciando il sottomarino privo di un apparato fondamentale per la navigazione subacquea. Dopo  aver raggiunto il porto di Gibilterra ed avere meglio considerato i danni escludendo ogni coinvolgimento del propulsore nucleare, il comando della 6° Flotta della US Navy  ritenne di far tornare l’Atlanta per le riparazioni alla base di Norfolk, in Virginia. La ricostruzione dei fatti compiuta dalla commissione d’inchiesta non riuscì del tutto a chiarire i motivi della collisione. I sottomarini oceanici moderni sono dotati di un sofisticato sistema di navigazione inerziale capace di calcolare, secondo la rotta seguita, la velocità del battello e le carte sottomarine, ogni correzione di rotta per evitare ogni ostacolo sommerso conosciuto. Tuttavia anche navigando alla bassa velocità di sei/sette nodi, cioè attorno agli 11 – 13 chilometri all’ora,  una nave che stazza 6.900 tonnellate e scivola in un liquido ha un notevole grado di inerzia alle correzioni. Per cui anche il sistema inerziale ha bisogno di essere periodicamente azzerato e riprogrammato prendendo dei punti di riferimento a livello periscopico, sia geografici  che basati sulle trasmissioni di radiofari o satelliti. La missione dell’Atlanta avveniva in un momento di grande tensione con il regime del rais libico Muhammar Gheddafi, schierato col blocco sovietico, che non riconosceva il limite di 21 miglia delle acque internazionali nel Golfo della Sirte ed era apertamente avversario degli Stati Uniti, appoggiando anche attività terroristiche (basti ricordare l’assalto allo scalo all’aeroporto di Roma della Hel Hal, la compagnia di bandiera Israeliana, costato 19 morti). Il 19 aprile aerei dell’USAF provenienti dall’Inghilterra e della US Navy lanciati da portaerei nel Mediterraneo avevano bombardato basi militari e la residenza di Gheddafi. Quindi si sospettava che il canale di Gibilterra fosse sorvegliato da spie libiche e il passaggio di un sottomarino da attacco armato di missili Cruise non passasse inosservato. Il primo ufficiale (in quel momento il capitano non era sul ponte comando ) durante il passaggio dello stretto probabilmente fu troppo condizionato da questo rischio e ritardò il rilevamento della posizione, causando l’errore nel sistema di navigazione inerziale e l’impatto con i rilievi sottomarini. In ogni caso, l’Atlanta tornò negli Stati Uniti con una lenta navigazione in superficie durata tre settimane….e con un nuovo comandante.

31 luglio il 1986 non è un anno fortunato per le forze subacquee americane: l’USS Guitarro (SSN 665) (nota 10), sottomarino a propulsione nucleare classe Sturgeon, subì un problema a una valvola mentre si trovava in navigazione. Le fonti della marina non hanno concesso altro all’informazione, sottolineando peraltro che nessun  apparato a bordo, men che meno nucleare, è rimasto danneggiato o ne ha corso il rischio….

3/6 ottobre nemmeno sul lato opposto della cortina d ferro il 1986 è un anno da ricordare…mentre a Chernobyl si combatte ancora la battaglia col reattore esploso, nell’Oceano Atlantico si sta preparando un’altra tragedia. Partito dal porto militare di Gadhzievo, vicino a Murmansk, il sottomarino K 219, un lanciamissili nucleari balistici classe Yankee I, sta pattugliando le acque a un migliaio di chilometri dalle isole Bermuda, posizione ottimale per un eventuale lancio diretto alla Est  Coast degli Stati Uniti (nota 11). Alle 5, 14 del mattino, durante un controllo al comparto n. 4 viene scoperta un’infiltrazione di acqua nel silo n. 6 (il terzo sulla fila di sinistra), contenente un missile balistico a doppia testata nucleare SS-N-6. Mentre l’ufficiale agli armamenti e un tecnico cercano di capire da dove arriva l’acqua, che sembra filtrare dal lato dei collegamenti elettrici all’arma, improvvisamente la perdita diventa una falla vera e propria. Immediatamente il comandante Igor Britanov ordinò alle 5.25 di risalire alla quota di 46 metri per sicurezza, mentre le pompe cercano di svuotare il comparto del missile. Alle 5.32 da sotto il missile si sprigionano dense nubi di fumo marrone: l’acqua marina aveva raggiunto il carburante liquido del missile e stava producendo vapori di acido nitrico. A questo punto l’ufficiale armiere dichiarò incidente in corso, i compartimenti stagni vengono chiusi, ma 9 uomini restano nel comparto n. IV interessato dall’avaria. L’equipaggio è esperto e in meno di un minuto sta mettendo in pratica le procedure di emergenza, ma alle 5.38 una forte esplosione avviene nel silo n. 6. La situazione precipita:  tre uomini sono stati uccisi dall’esplosione, altri sei sono in pericolo nel comparto missili, Britanov ordinò l’emersione rapida per disattivare i due reattori a acqua pressurizzata che potenziano il battello, ma  raggiunta la superficie il K 219 resta senza energia elettrica. Le barre di controllo vanno inserite secondo procedura manuale, ma nel comparto del reattore la temperatura stava salendo vertiginosamente. L’ufficiale alle macchine Belikov è riuscito a calare tre delle quattro barre, ma non ce l’ha fatta con la quarta. Un marinaio di leva, il ventenne Sergei Preminin, entrò nella camera di controllo, dove la temperatura ha raggiunto i 70 gradi e riuscì a far scendere l’ultima barra. Cercò a quel punto di riaprire il comparto, ma cadde esausto a terra. Nemmeno i compagni riuscirono più ad aprire dall’esterno la porta blindata della camera assistendo impotenti alla morte del marinaio. A questo punto il comando della Marina informato della situazione ordinò a Britanov di attendere una nave appoggio che trainasse il battello alla base di partenza. Una volta raggiunti da una nave da carico russa, si tentò il traino che però fu impossibile. A quel punto l’incendio ed i gas del propellente liquido resero impossibile restare sul sottomarino, così Britanov mandò il suo equipaggio sulla nave da carico, mentre lui rimase a bordo. Mosca, irritata da quello che pensa essere un atto di insubordinazione, solleva Britanov dal comando e ordinò all’ufficiale politico di far tornare Ma è ormai tardi : appesantito dall’acqua imbarcata e privo di controllo, prima dell’alba del 6 ottobre il K 219 affondò, trascinando con se i corpi di sei valorosi uomini, due reattori nucleari e sedici missili, con trentadue testate operative. Il K 219 si adagiò sulla piana abissale di Hatteras, a  circa 6000 metri di profondità, sotto una pressione titanica. Due anni dopo la nave oceanografica sovietica Keldysh fotografò il relitto ed eseguì campionature dell’acqua. Dal momento che il comandante Britanov nelle ultime ore disperate del K 219 aveva fatto aprire i portelli dei missili raggiunti dall’acqua per fare evacuare i vapori ed evitare altre esplosioni, numerosi missili sono usciti dai silo e risultano dispersi sul fondo oceanico. Il sottomarino si è spezzato in due giusto davanti alla torre e attorno al relitto fu riscontrata una lieve traccia di radioattività, il che non fa sperare bene per il futuro…Preminin e gli altri caduti furono insigniti di onorificenze alla memoria, di onorificenze, mentre il comandante Britanov fu posto sotto accusa per negligenza e sospetto sabotaggio, come nella peggior tradizione sovietica, confinato a Sverdlovsk in attesa di processo. Con le dimissioni del ministro della difesa Sergey Sokolov, dopo il caso Mathias Rust (il giovane tedesco che atterrò sulla Piazza Rossa con un piccolo aereo Cessna da turismo, in barba a tutta la difesa aerea russa) il comandante Britanov venne scagionato dalle accuse e il caso archiviato. Anche a livello internazionale l’incidente ebbe conseguenze: i militari sovietici reclamarono apertamente con il governo americano per la presenza di un sottomarino da attacco, l’USS Augusta (SSN 710), che tallonando troppo da vicino il k 219 lo avrebbe speronato, provocandola la falla che ha portato alla perdita del battello e a una grave minaccia per l’integrità dell’ambiente oceanico. I vertici della US Navy, di solito piuttosto parchi di commenti sulle attività subacquee, questa volta risposero seccamente (forse sorpresi dalla “Glasnost” sovietica) che non era avvenuto alcun inseguimento né alcuna collisione fra il K 219 e l’USS Augusta. Ma di là a pochi giorni, l’11 e il 12 ottobre a Reykjavik, in Islanda, il presidente statunitense Reagan e quello sovietico Gorbaciov si sarebbero incontrati per uno storico colloquio su progetti di guerre stellari americani e sullo spiegamento di missili nucleari russi a medio raggio in Europa. Per cui ci fu un tacito accordo a trattenere ciascuno i propri “mastini della guerra” e a glissare sulle polemiche reciproche.

20 ottobre  in realtà, che le marine americana e sovietica giocassero una pericolosa partita a rimpiattino a distanza ravvicinata era del resto dimostrato da numerosi casi di collisione accaduti nei decenni precedenti (nota 12). Anche nel caso dell’USS Augusta, impegnato a sorvegliare i sottomarini lanciamissili che incrociavano a largo degli Stati Uniti, se non con il K 219 è probabile abbia avuto un “contatto ravvicinato del terzo tipo” con un altro battello. Infatti, pochi giorni dopo, ritornato in pattuglia l’Augusta ebbe una collisione in immersione con un oggetto non identificato. Il battello dovette rientrare a Groton per gli accertamenti del caso sui danni subiti, quantificati in circa 3 milioni di dollari. La US Navy fu rapida nel dichiarare che l’impianto propulsivo nucleare era perfettamente integro e non aveva corso alcun rischio…fotografie prese pochi giorni dopo mostrano un sottomarino lanciamissili classe Delta I (identificato da alcune fonti russe come il K 279) con una evidente ammaccatura sulla parte destra della prua. E’ plausibile che l’Augusta stesse inseguendo questo sottomarino, e non il K 219…che a sua volta lo stesse portando a farsi agganciare da un sottomarino da attacco classe Victor, nell’eterna lotta tra preda e cacciatore…

di Davide Migliore


Note

(1) http://www.youtube.com/watch?v=wHylQRVN2Qs

http://lyricskeeper.it/it/sting/russians.html

Sting, “Russians”

(2) http://articles.latimes.com/1985-01-12/news/mn-9508_1_unarmed-missile

http://www.fbjs.facebook.com/note.php?note_id=217420051617134&comments

 Incidente del 11.02.1985 a un missile Pershing II  

http://en.wikipedia.org/wiki/MGM-31_Pershing

Missile Martin Marietta MGM 31Pershing II  

http://miamisburg.org/pershing_missile_56th_field_artillery_command.htm   

organigramma e storia della 56th Field Artillery Brigade della U.S. Army

http://www.fbjs.facebook.com/l.php?u=http%3A%2F%2Fwww.dtic.mil%2Fcgi-    

bin%2FGetTRDoc%3FAD%3DADP005343%26Location%3DU2%26doc%3DGetTRDoc.pdf&h

     =xAQHQiQ7Q&s=1

Relazione tecnica sull’incidente al missile Pershing II ad Heilbronn del 11.02.1985

(3) http://www.britishpathe.com/video/polaris-fired-from-h-m-s-resolution

Video British Pate del lancio  in immersione di un misslie Polaris dall’HMS Resolution (1968)

(4) http://robertamsterdam.com/2008/08/grigory_pasko_prelude_to_chernobyl/

Grigory Pasko, “Prelude to Chernobyl”, articolo sull’incidente di Chazhma Bay

http://www.google.it/url?sa=t&rct=j&q=&esrc=s&frm=1&source=web&cd=16&ved=0CEgQFjAFOAo&url=http%3A%2F%2Fwww.ippnw-students.org%2FJapan%2FChazhmaBay.pdf&ei=_4qiUKbhOYuTswa3hoGgBw&usg=AFQjCNG2t1DPaq0lNboha4YqOKO5jw_x-Q&sig2=aUdZIpFDAbr7tsEDe9R5rA

Documento PDF,  International Physicians for the Prevention of Nuclear War, l’inquinamento nucleare a Chazhma Bay

http://spb.org.ru/bellona/ehome/russia/nfl/nfl8.htm#O17b

Bellona Report nr. 2:96. Written by: Thomas Nilsen, Igor Kudrik and Alexandr Nikitin, rapporto pubblicato dalla Bellona Foundation sugli incidenti che hanno colpito la flotta sottomarina nucleare sovietica fino agli anni ‘90.

(5) http://navysite.de/ssn/ssn579.htm

Incidente allo USS Swordfish

(6) http://navysite.de/ssn/ssn671.htm

http://www.mesotheliomaweb.org/mesothelioma/veterans/submarines/uss-narwhal

USS Narwhal SSN 671, incidente a sottomarino nucleare

(7) http://navysite.de/ssbn/ssbn636.htm

http://en.wikipedia.org/wiki/USS_Nathanael_Greene_(SSBN-636)

L’incidente all’USS Nathanael Greene

(8) http://it.wikipedia.org/wiki/Disastro_di_%C4%8Cernobyl

Centrale nucleare di Cherbnobyl ,  disastro nucleare

http://www.comedonchisciotte.org/site/modules.php?name=News&file=article&sid=8088 

“In diretta da Chernobyl” di Charles Choi,

www.scientificamerican.com

(9) http://en.wikipedia.org/wiki/USS_Atlanta_(SSN-712)             

http://navysite.de/ssn/ssn712.htm

Incidente all’USS Atlanta (SSN 712)

http://www.oocities.org/uss_atlanta_ssn/seastories.html

La collisione dell’USS Atlanta col fondo dello stretto di Gibilterra nella testimonianza del marinaio Glenn Damato

(10) http://navysite.de/ssn/ssn665.htm

 Incidente all’USS Guitarro

(11) http://english.pravda.ru/russia/politics/09-10-2012/122396-submarine_reagan_gorbachev-0/

http://en.wikipedia.org/wiki/Soviet_submarine_K-219

Hostile Waters (ISBN 0312966121) by Peter Huchthausen, Igor Kurdin and R. Alan White

L’affondamento del K 219 a largo delle Bermuda.

(12) http://en.wikipedia.org/wiki/USS_Augusta_(SSN-710)

http://navysite.de/ssn/ssn710.htm

L’Uss Augusta e la presenza di sottomarini russi a largo delle coste americane, probabili casi di collisione.


Fonti generali

http://www.progettohumus.it/public/forum/index.php?topic=428.0;wap2

Incidenti nucleari o potenzialmente nucleari dal 1971 ad oggi

http://lists.peacelink.it/armamenti/msg00252.html

Lista di incidenti a sottomarini e vascelli militari angloamericani dal 1945 

http://www.at1ce.org/themenreihe.p?c=United%20States%20submarine%20accidents

http://spb.org.ru/bellona/ehome/russia/nfl/nfl8.htm#O17b

Lista incidenti a sottomarini sovietici con cause

https://www.cia.gov/library/center-for-the-study-of-intelligence/csi-publications/books-and-monographs/a-cold-war-conundrum/source.htm sito ufficiale della C.I.A.

http://nuclearweaponarchive.org/index.html

The nuclear weapons archive

http://books.google.it/books?id=3wUAAAAAMBAJ&pg=PA23&lpg=PA23&dq=us+nuclear+submarine+accidents+1985&source=bl&ots=QvKSE3wTuu&sig=y6tbBUeneIb4ZiRAi6BYv-2tHOc&hl=it&sa=X&ei=3-mjUIuqFsfEsgbL-4DoAw&ved=0CCYQ6AEwATgK#v=onepage&q=us%20nuclear%20submarine%20accidents%201985&f=false

Bulletin of the Atomic Scientists, july/august 1989 issue

http://www.nukewatchinfo.org/nuclearweapons/index.html

Informazioni aggiornate sulla produziione di armamenti, sulle conseguenze mediche e ambientali della produzione di armi, iniziative pacifiste e di eliminazione degli armamenti nucleari.

http://bispensiero.blogspot.it/2007_05_01_archive.html

Blog con liste dei principali pericoli e situazione attuale della strategia atomica

http://archive.greenpeace.org/comms/nukes/chernob/rep02.html

http://www.rmiembassyus.org/Nuclear%20Issues.htm

http://www.web.net/~cnanw/a7.htm

10 mishaps that might have started an accidental nuclear war.

http://forum1.aimoo.com/American_Cold_War_Veterans/Cold-War-Casualties/Naval-Accidents-During-Cold-War-1-1579633.html

Incidenti navali con vittime durante la Guerra Fredda

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Quando si fa strada l’antipolitica

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Quando si fa strada l’antipolitica

Pubblicato il 09 giugno 2012 by redazione

democrazia

Perchè, dopo gli anni ’80, la principale occupazione della politica è diventata quella di fare selezione elettorale?

Dal volontariato e l’impegno civile dei primi anni della storia dei partiti, si passa al vivere per la politica, al costruire una classe dirigente non necessariamente rappresentativa di una particolare classe sociale. I nuovi politici non fanno altri lavori e quindi sono attaccattissimi al loro impiego: possibilmente a tempo indeterminato. Quest’andamento non ha consentito, però, negli ultimi vent’anni, il ricambio della classe dirigente e la democrazia è andata in crisi. D’altra parte, risponde qualche studioso della politica, se il ricambio fosse stato troppo frequente, come avremmo potuto verificarne l’operato? Un secondo mandato era necessario. Certo, ma è proprio da questa fase in avanti che la classe politica si stabilizza, diviene più fragile e spesso corruttibile.

Il Francia per contenere questo rischio, l’opinione pubblica ha sempre avuto più spazio e proprio per questo è sempre stata molto temuta dalla classe politica, che è riuscita a controbilanciare efficacemente, operando una continua frizione, accompagnata a volte anche da urli, fischi e megafoni. In effetti, senza frizione, senza mettere in pubblico i problemi, la politica evolve in una pericolosa oligarchia. Ma per disporre di una frizione continua, che garantisca una reale democrazia, occorrono mezzi di comunicazione funzionanti, che facciano informazione al di sopra dei poteri forti e soprattutto non asserviti ad un solo unico padrone. Per mantenere sotto controllo il potere occorre frammentarlo il più possibile e adoperarsi per mantenerlo diviso nel tempo.

Perché la nostra democrazia, come molte altre, è andata in crisi?

La democrazia nasce contro il totalitarismo, concede il voto a tutti, uomini e donne, e conclude il suo perfezionamento, dopo la fine della II guerra mondiale, come compromesso tra il capitalismo industriale e la democrazia rappresentativa. Compromesso quindi tra chi disponeva dei mezzi e chi non li aveva. Chi non aveva mezzi otteneva, in cambio del patto sociale, un lavoro e con esso il diritto di esistere. Il patto era sostanzialmente questo: lavorare, creare dei beni, consumarli, pagare le tasse e quindi ottenere i servizi.

I partiti politici nascevano, quindi, unicamente come mediatori per moderare, attraverso le leggi, i rapporti fra queste due classi, che altrimenti non avrebbero potuto fidarsi le une delle altre perché, chiaramente, in aperto conflitto di interessi.

Il capitalista daltronde, aveva tutto l’interesse a creare questo rapporto perché non solo trovava le braccia che gli servivano per produrre, ma alla fine del ciclo “lavoro, creazione dei beni, consumo dei beni, tasse e servizi”, recuperava il proprio capitale, moltiplicato in modo esponenziale.

Alla fine del ciclo, infatti, i capitali investiti producono beni, destinati agli stessi che li hanno prodotti e che saranno sempre poi gli stessi a consumare, acquistandoli a proprie spese, con il proprio salario, a beneficio degli investitori, che moltiplicheranno così il loro capitale iniziale.

Ora la democrazia sta fallendo proprio perché non c’è più circolazione di capitale. I grandi investitori di allora, oggi, attraverso l’economia finanziaria, non hanno più bisogno di far circolare il capitale, ne tanto meno di garantire un lavoro alle masse. E, a dimostrazione di ciò, si sta riaffacciando la differenza tra classi, perché queste non riescono più ad essere mediate dalla politica, ne tanto meno a essere rappresentate.

La politica ha perso così il suo significato/mandato originario, ed è diventa oligarchica e autoreferenziale. Con la crisi mondiale dell’occupazione, nel mondo occidentale, è poi precipitato tutto il sistema, che diventa sempre più difficile salvare.

Il lavoro, che era infatti il cuore dell’intero sistema, ha cambiato di significato e si è completamente dissociato dai diritti. Anzi, esso stesso non è più un diritto, come invece recita ancora l’articolo 4 della nostra Costituzione Italiana: ” La Repubblica riconosce a tutti i cittadini il diritto al lavoro e promuove le condizioni che rendono effettivo questo diritto. Ogni cittadino ha il dovere di svolgere, secondo le proprie possibilità e la propria scelta, un’attività o una funzione che concorra al progresso materiale o spirituale della società”.

La discussione politica ha perso così di interesse e di conseguenza la democrazia si è svuotata di significato. Perché discutere, protestare, votare. Non serve a nulla. Il leader governa e la massa guarda come in un programma televisivo in cui non c’è controparte, ma solo un pubblico, un audience, che attraverso gli share esprime il suo minor o maggior gradimento. In realtà non riesce a guardare granché, perché non è lei a decidere da che parte guardare.

La democrazia non è in pericolo solo nel nostro paese o in Europa, ma in tutto il mondo occidentale. La globalizzazione infatti costituisce un rischio reale e favorisce l’evolversi di grandi imperi, alcuni già in corsa. La democrazia, invece, richiede spazi piccoli, nei quali le persone possano esprimersi in un reale face to face. Lo spazio mondo è troppo grande e più adatto ai despoti.

L’Europa resta quindi forse l’unica vera candidata a preservare e difendere ciò che lei stessa, in un passato non molto lontano, ha partorito e sempre a lei tocca l’onere di provare a costruire le condizioni per una nuova democrazia, che tengano conto di tutti i nuovi sviluppi, economici e sociali.

Questa società democratica, in cui abbiamo avuto la fortuna di nascere e formarci, sembra oggi così scontata, ma si tratta di uno spazio temporale brevissimo, e unico nella storia dell’umanità, in cui tutte le classi sociali, in un modo o in un altro, erano riuscite a esistere e a esprimersi. La politica deve tornare a fare il suo mestiere e trovare delle soluzioni che imbriglino la finanza con leggi e norme che tutelino tutte le parti sociali e i loro diritti, che non sono più solo quelli di un territorio, piuttosto che di un’altro, ma più spesso sono planetari…e come non potrebbe essere, visto che gli interessi finanziari si estendono a tutto il globo.

I Movimenti e l’antipolitica

“Occorre una nuova politica che rimetta il cittadino al centro”. Questo è ciò che affermano i movimenti delle diverse regioni del mondo, rivendicando la loro autonomia nelle scelte politiche, al di fuori dei partiti, perché non credono che la politica possa più cambiare la società.

Anche i social network hanno dato a questi movimenti una forte spinta e una sede di coesione che ha travalicato le sedi dei partiti, i confini locali e nazionali e ha dato l’opportunità, a persone residenti in diversi angoli della Terra, di mettere sul tavolo della discussione i problemi più urgenti, facendosi loro stessi rappresentanti del bene comune, posizionandosi a livello planetario e saltando a pié pari i ruoli e i luoghi della politica.

La flessibilità della rete, negli ultimi 10 anni, ha infatti contribuito a creare un tavolo di discussione di ampio respiro, estremamente democratico, in cui difficilmente un leader riesce ad imporsi per lungo tempo, perché la discussione di fatto viene gestita da una vera assemblea e non da una struttura gerarchica come quella di un partito.

Per comprendere questi movimenti e le loro richieste occorre comprenderne la leggerezza, la freschezza della loro idea di mondo, senza necessariamente interpretarla come antipolitica, m acome spunto ispirazione per un nuovo corso politico.

Forse la politica, troverebbe in questi movimenti proprio i nuovi spunti di rinnovamento che sta disperatamente cercando e che non coincidono con un leader piuttosto che con un altro, ma con una serie di sentimenti generalizzati che partono da grandi masse di individui e a cui occorre dare forma e consistenza  e per le quali occorrono risposte e riforme istituzionali. Avere il coraggio di creare occasioni di incontro con la gente, gli intellettuali, i giovani e tutti coloro che ne fanno parte o ne condividono le discussioni in atto; e prendersi le proprie responsabilità, in particolare quella di essersi persi per strada, quella parte di società da sempre più viva, creativa e partecipativa, che proprio la politica ha rimbalzato ed escluso dal dibattito della cosa pubblica, usandola solo, opportunisticamente, come fornitrice di parole d’ordine, con le quali vincere le elezioni del momento, per nascondersi, subito dopo, negli impegni di partito e di governo.

E ora non c’è da meravigliarsi se per l’Europa imperversano strani movimenti di destra di pericolosa memoria: per i movimenti, destra e sinistra sono solo parole.

Quest’anno, dal 20 al 22 Giugno, a Rio de Janeiro, si svolgerà il Summit sui problemi della Terra, organizzato interamente dai movimenti, e naturalmente questo appuntamento non figura nell’agenda politica di alcun partito, come manca il Social Forum, che quest’anno compie il suo primo decennio …

di Adriana Paolini

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Sintesi del Rapporto Annuale 2012: La situazione del Paese Italia

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Sintesi del Rapporto Annuale 2012: La situazione del Paese Italia

Pubblicato il 02 giugno 2012 by redazione

Letta dal Presidente dell’Istat Enrico Giovannini, martedì 22 maggio 2012 a Roma nella Sala della Lupa, di Palazzo Montecitorio.

Signor Presidente della Camera dei Deputati, Rappresentanti del Governo, Autorità, Signore e Signori, oggi l’Istituto nazionale di statistica presenta il ventesimo Rapporto annuale sulla situazione del Paese, prodotto della elevata competenza e dell’assiduo impegno di tutto il suo personale. Il Rapporto, progettato per fornire uno strumento fondamentale di riflessione sulle condizioni sociali, economiche e ambientali del nostro Paese, e quest’anno profondamente rinnovato nella struttura e nella forma grafica, ha influenzato significativamente la storia dell’Istat e di molti dei suoi attuali dirigenti. Esso ha rappresentato non solo una straordinaria palestra per la formazione di tanti ricercatori, ma anche una continua fucina di nuove idee, che sono poi divenute parte della produzione corrente di informazioni statistiche e di analisi. Inoltre, se nel 1993 il Rapporto rafforzò la caratteristica di ente di ricerca dell’Istat (che la legge aveva già riconosciuto quattro anni prima), la sua presentazione, a partire dal 1998, presso la Camera dei Deputati rende evidente il ruolo di servizio a tutta la società italiana svolto dall’Istituto.

Naturalmente, l’impegno dell’Istat va ben oltre la predisposizione del Rapporto annuale.

Akamai-Report-2q-2011-focus-sulla-situazione-italiana5

Nel 2011 è stato realizzato, in modo fortemente innovativo e con l’ausilio delle tecnologie più avanzate (i questionari di oltre 21 milioni di persone sono stati compilati via Internet), il 15° Censimento generale della popolazione e delle abitazioni, i cui risultati preliminari sono stati diffusi qualche settimana fa. L’anno trascorso è stato anche quello in cui l’utilizzo delle statistiche prodotte dall’Istituto ha avuto una crescita senza precedenti: la quantità di Gigabyte scaricati dal sito www.istat.it è più che raddoppiata in due anni, così come la diffusione dei file di microdati per la ricerca. L’attenzione dei media classici per l’informazione statistica ha raggiunto il massimo storico e la presenza dell’Istat sui Social Network sta crescendo rapidamente, così come l’uso dei servizi on-line orientati ai cittadini e alle imprese. Nell’anno passato l’Istat ha anche operato una profonda riorganizzazione interna, realizzato diversi progetti innovativi di carattere sia statistico sia gestionale, avviato l’attività della Scuola Superiore di Statistica e Analisi Sociali ed Economiche. Secondo una rilevazione effettuata per nostro conto da un autorevole istituto privato, nell’aprile del 2012 il 76 per cento della popolazione ha dichiarato di avere fiducia nell’Istat, con un aumento di tre punti percentuali rispetto all’anno scorso. Questi risultati sono stati ottenuti nonostante la riduzione del finanziamento statale, il blocco delle assunzioni e il taglio alle spese di formazione. Ma proprio perché quello attuale è un momento di scelte difficili per il Paese, e la disponibilità di informazioni affidabili sul contesto economico e sociale su cui si va ad operare assume importanza cruciale, credo sia arrivato il momento che, pur tenendo conto delle difficoltà della finanza pubblica, si investano sull’Istat e sulla statistica ufficiale risorse adeguate e non la metà di quanto speso in altri paesi europei, come la Francia. Peraltro, le risorse rese disponibili, a legislazione vigente, per il 2013 non saranno in grado di assicurare il funzionamento dell’Istituto. Il caso della Grecia ha reso drammaticamente evidente cosa accade quando, nella società dell’informazione, un istituto nazionale di statistica non fornisce dati affidabili. Sono sicuro che il Governo e il Parlamento, anche alla luce dei risultati raggiunti in questi anni in termini di innovazione ed efficienza, che pongono l’Istat all’avanguardia sul piano internazionale, non consentiranno che il nostro Paese veda la propria credibilità ridursi a causa dell’impossibilità di produrre le informazioni statistiche richieste dalle normative comunitarie e nazionali.

 

La difficile situazione del Paese

Nell’estate del 2011 il carattere strutturale della crisi è stato percepito dall’opinione pubblica.

Il 2011 ha segnato il ritorno dell’instabilità finanziaria per l’area dell’euro, che mette tuttora a rischio i fondamenti stessi dell’Unione Monetaria Europea: in tale contesto, l’Italia ha affrontato una delle crisi più difficili della sua storia. Negli ultimi mesi si è verificato un netto cambiamento nella psicologia collettiva del Paese e nello scenario politico, con conseguente ridisegno della politica economica e sociale, fattori questi destinati a incidere significativamente sulle prospettive a breve e a medio termine. La presa di coscienza del carattere strutturale della crisi è stata per l’Italia improvvisa e, per molti, traumatica. Gli interventi di politica economica che si sono succeduti in modo convulso nell’estate del 2011 hanno cercato di fronteggiare una crescente sfiducia nei confronti della sostenibilità del debito pubblico italiano e della capacità del nostro Paese di soddisfare le condizioni per restare nell’Unione Monetaria. L’adozione di misure drastiche, volte ad accelerare il percorso verso l’azzeramento del deficit pubblico e così rendere più sostenibile il debito sovrano ha ridotto il rischio del collasso finanziario, dando tempo all’Italia di avviare riforme di natura strutturale, coerentemente con gli impegni assunti in sede europea. In effetti, il 2011 si era aperto nel segno della prosecuzione della fase di ripresa ciclica delle economie sviluppate e della intensa crescita di quelle emergenti. Nel nostro Paese, l’aumento delle esportazioni e la tenuta dei consumi era accompagnata da una timida ripresa degli investimenti. Anche se già a partire dalla seconda metà del 2010 la produzione industriale aveva mostrato segni di rallentamento, nel secondo trimestre dell’anno scorso il Prodotto interno lordo (Pil) era cresciuto dell’uno per cento su base tendenziale. Il recupero della domanda di lavoro, dopo aver condotto ad un aumento delle ore lavorate e a un parziale riassorbimento della Cassa integrazione guadagni (Cig), sembrava destinato a trasformarsi in una crescita occupazionale. Il tasso di disoccupazione si era stabilizzato a un livello inferiore a quello medio europeo e il clima di fiducia delle imprese e delle famiglie stava migliorando.

Nuova recessione a partire dal terzo trimestre …e rialzo della disoccupazione

Le difficoltà emerse sui mercati finanziari hanno indotto, a partire dall’estate, un brusco peggioramento delle prospettive, influenzando i comportamenti delle imprese e delle famiglie. Le prime hanno rivisto al ribasso i piani di produzione e di investimento. Le seconde hanno subito gli effetti immediati dei provvedimenti di natura fiscale, nonché quelli futuri legati alla riforma delle pensioni e del mercato del lavoro: alla riduzione del reddito disponibile attuale, già diminuito significativamente negli anni precedenti, si è aggiunta una contrazione di quello atteso per gli anni futuri. Il clima di fiducia è peggiorato e, analogamente a quanto avvenne nella crisi degli anni 1992-1993, la discesa dei consumi non si è fatta attendere, risentendo anche di un aumento del risparmio per fini precauzionali. A partire dal terzo trimestre del 2011 il prodotto ha ripreso a diminuire e la discesa si è accentuata nel trimestre successivo e nel primo di quest’anno. La domanda estera netta è stata l’unica componente che ha sostenuto, e tuttora sostiene, la dinamica del prodotto grazie alla buona performance delle esportazioni, soprattutto sui mercati extra-europei, in presenza di una forte contrazione delle importazioni. Si moltiplicano i segnali di difficoltà del mondo delle imprese, anche a causa del ritardo nei pagamenti da parte delle pubbliche amministrazioni e di fenomeni di credit crunch, i quali, in crescita nei primi mesi di quest’anno, hanno interessato di più le piccole imprese e coinvolto anche unità economicamente solide.

A fronte di un leggero aumento (0,4 per cento) dell’occupazione totale, nell’anno passato quella straniera è cresciuta dell’8,2 per cento (pur in presenza di una diminuzione del tasso di occupazione specifico) e quella italiana è calata dello 0,4 per cento. È aumentata l’occupazione femminile (+1,2 per cento) ed è rimasta sostanzialmente stabile quella maschile. Sono diminuite l’occupazione giovanile (-2,8 per cento) e quella dei 30-49enni (-0,5 per cento), mentre è aumentata (+4,3 per cento) quella degli ultracinquantenni, anche per effetto della modifica dei requisiti per accedere alla pensione. L’occupazione a tempo indeterminato e a tempo pieno è diminuita dello 0,6 per cento, a fronte di aumenti del 5,3 per cento di quella a termine (incluse le collaborazioni) e del due per cento di quella a tempo parziale, in gran parte “involontaria” (cioè accettata in mancanza di un impiego a tempo pieno). La disoccupazione ha ripreso a salire a partire dall’autunno, a seguito di una maggiore partecipazione al mercato del lavoro, soprattutto delle classi giovanili: oltre il 30 per cento dei giovani attivi risulta ora disoccupato. Anche il ricorso alla Cig è aumentato nei primi mesi di quest’anno.

Risale l’inflazione per energia e alimentari

L’inflazione è rimasta elevata per tutto il 2011, sospinta dall’aumento dei prezzi dei prodotti energetici e alimentari importati; nei primi mesi del 2012 risulta stabile al 3,3 per cento, con un allargamento del differenziale inflazionistico nei confronti dell’area dell’euro. L’aumento dei prezzi dei prodotti acquistati con maggior frequenza (4,7 per cento ad aprile) è stato nettamente più accentuato di quello medio. Peraltro, nel 2011 l’industria, il commercio e una parte consistente del terziario hanno reagito alla contrazione della domanda con una riduzione dei margini di profitto, mentre il settore finanziario e dei servizi alle imprese li hanno mantenuti invariati, dopo la forte diminuzione subita nel 2010.

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Le manovre hanno ridotto il deficit pubblico e contenuto la crescita del debito

Le diverse manovre volte al riequilibrio della finanza pubblica hanno determinato, nel 2011, un indebitamento netto delle pubbliche amministrazioni (3,9 per cento del Pil) inferiore di 0,7 punti percentuali a quello del 2010 e leggermente più basso (0,2 punti) di quello medio dell’area dell’euro; solo la Germania, tra i grandi paesi, ha conseguito un risultato migliore. Alla contrazione dell’indebitamento ha contribuito un contenimento dell’incidenza della spesa

pubblica sul Pil (dal 50,5 al 49,9 per cento), cui si è accompagnato un leggero aumento del rapporto tra entrate e prodotto (dal 46 al 46,1 per cento); la pressione fiscale complessiva è scesa leggermente (dal 42,6 al 42,5 per cento), mentre il carico fiscale e contributivo corrente sulle famiglie consumatrici è diminuito dal 29,6 al 29,3 per cento. Il rapporto debito pubblico/Pil è salito al 120,1 per cento, con un aumento di 1,5 punti percentuali rispetto ad un anno prima. Nel confronto con il periodo precrisi (cioè il 2007), tale rapporto è aumentato di 17 punti percentuali in Italia e di quasi 21 nella media dell’eurozona.

Il reddito reale delle famiglie cala per il quarto anno consecutivo, e la propensione al risparmio scende all’8,8 per cento

In questo quadro, e in presenza di una dinamica retributiva in ulteriore deciso rallentamento, il reddito disponibile delle famiglie in termini reali è diminuito nel 2011 (-0,6 per cento) per il quarto anno consecutivo, tornando sui livelli di dieci anni fa: in termini pro-capite esso è inferiore del quattro per cento al livello del 1992 e del sette per cento nei confronti del 2007. In quattro anni la perdita in termini reali (a prezzi 2011) è stata pari a 1.300 euro a testa e la propensione al risparmio delle famiglie consumatrici è passata dal 12,6 all’8,8 per cento.

 

1992 e 2011: due crisi a confronto, due Italie a confronto

Le difficoltà dell’Italia derivano anche da fragilità del suo sistema socio-economico

Guardando all’attuale situazione economica dell’Italia e riandando con la memoria al biennio 1992-93, non si può non provare un senso di déjà vu. Allora, l’instabilità dei mercati finanziari europei fu originata dalla mancata ratifica del Trattato di Maastricht da parte della Danimarca e dalle ombre che essa gettava sull’avvio dell’Unione Monetaria; oggi, dalla scoperta dei trucchi contabili della Grecia e dalla lenta e insufficiente reazione dei paesi che quell’Unione hanno, nel frattempo, realizzato. Venti anni fa si discuteva dei compiti della futura Banca Centrale Europea (BCE), nonché dei vincoli da imporre ai vari paesi per assicurare la stabilità del sistema; oggi, si discute della necessità di completare il quadro istituzionale esistente e di assicurare la sostenibilità a lungo termine della finanza pubblica procedendo alla modifica delle Costituzioni nazionali. Ma non si può non sottolineare come la debolezza dell’Italia abbia, ora come allora, forti origini interne, derivanti dall’elevato debito pubblico e da evidenti fragilità del sistema socio-economico e di quello politico, che ne mettono a rischio la solvibilità e la credibilità internazionale, oltre che il benessere economico dei suoi cittadini. Qualcuno potrebbe pensare che nulla sia cambiato in questi venti anni. Ma non è così. In questo arco temporale la società e l’economia hanno subito, più la prima della seconda, trasformazioni importanti, ma evidentemente insufficienti per evitare il ripetersi della storia, anche se sotto forme diverse, o per ridurre strutturalmente le forti differenze sociali, territoriali, generazionali e di genere che continuano a caratterizzare l’Italia.

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Aumenta la popolazione, grazie alla componente straniera, triplicata negli ultimi dieci anni

I primi risultati del recente Censimento evidenziano un aumento della popolazione residente rispetto al 1991 del 4,7 per cento: si tratta di 2,7 milioni di persone in più, quasi tutte straniere. Dal 2001 la popolazione straniera in Italia è quasi triplicata e, a fronte della sostanziale stabilità di quella italiana, rappresenta ora il 6,3 per cento del totale. Per molti stranieri, se non per tutti, si è realizzato un significativo processo di integrazione e di radicamento: quasi la metà degli immigrati non comunitari ha un permesso di soggiorno a tempo indeterminato e se nel 1992 si erano avute circa 4 mila acquisizioni di cittadinanza italiana per matrimonio e naturalizzazione, nel 2010 queste sono state oltre 40 mila. 78 mila bambini nati in tale anno (il 13,9 per cento del totale) hanno entrambi i genitori stranieri, cui si sommano i quasi 27 mila nati da coppie miste. Al 1° gennaio 2011 i minori extracomunitari regolarmente soggiornanti nel nostro Paese erano 760 mila: di questi, circa 420 mila sono nati in Italia. In complesso, i minori stranieri iscritti in anagrafe sono quasi un milione.

Si vive più a lungo, si fanno meno figli, sale la quota della popolazione anziana …aumentano le famiglie, ma sono sempre più piccole

I miglioramenti della sopravvivenza che abbiamo vissuto negli ultimi venti anni sono stati straordinari: la speranza di vita delle donne è passata da 80,6 a 84,5 anni, quella degli uomini da 74 a 79,4 anni. Resta bassa la fecondità: dopo il minimo raggiunto nel 1995 (1,2 figli per donna) il relativo tasso è risalito fino al 2008, quando si è stabilizzato a 1,4 figli per donna, grazie al contributo delle straniere, i cui comportamenti si stanno, però, avvicinando a quelli delle italiane. La combinazione tra l’aumento della sopravvivenza e il calo della fecondità ha reso l’Italia uno dei paesi con il più elevato livello di invecchiamento: attualmente, si contano 144 persone di 65 anni e oltre per ogni 100 persone con meno di 15 anni; nel 1992 questa proporzione era di 97 a 100.

Anche la struttura delle famiglie italiane è cambiata: si è ridotto il numero dei componenti e sono aumentate le persone sole, le coppie senza figli e quelle monogenitore. È diminuita dal 45,2 al 33,7 per cento la quota delle coppie coniugate con figli e sono aumentate le nuove forme familiari. La famiglia tradizionale non è più il modello prevalente, nemmeno nel Mezzogiorno: le libere unioni sono quadruplicate e la quota di nati da genitori non coniugati (pari al 20 per cento) è più che raddoppiata. Si esce dalla famiglia più tardi e si assiste ad uno spostamento in avanti di tutte le fasi della vita, ivi compresa quella in cui si diventa genitore. La quota di giovani tra i 25 e i 34 anni che vive ancora nella famiglia di origine è cresciuta di quasi nove punti e ora è pari a circa il 42 per cento.

Negli ultimi venti anni, l’occupazione cresce solo grazie alla componente femminile …ma è aumentata molto la precarietà per i giovani e le donne

Anche il mercato del lavoro è cambiato. Tra il 1993 e il 2011 le unità di lavoro sono aumentate di quasi 1,3 milioni (+5,7 per cento), ma il tasso di occupazione è cresciuto solo di poco più di tre punti percentuali (dal 53,7 al 56,9 per cento). In tale periodo l’occupazione maschile, nonostante il contributo degli immigrati, è scesa di 40 mila unità (-0,3 per cento); quella femminile è aumentata di 1,7 milioni (+22,2 per cento), quasi tutta nel Centro-Nord, grazie alla diffusione del parttime, che spiega due terzi di tale crescita. Ciononostante, il tasso di occupazione femminile continua ad essere nettamente più basso di quello medio europeo.

A fronte di un incremento generale dell’occupazione dipendente del 13,8 per cento, l’introduzione di nuove tipologie contrattuali, realizzato per accrescere la flessibilità in ingresso dell’occupazione, ha fatto sì che gli occupati a tempo determinato siano cresciuti del 48,4 per cento. Oggi, oltre un terzo dei 18-29enni ha un lavoro a tempo determinato, contro un valore medio del 13,4 per cento. Il divario tra il tasso di occupazione totale e quello dei giovani, che nel 1993 era di 3,8 punti percentuali, nel 2011 è salito a quasi 16 punti; quello calcolato sul tasso di disoccupazione è ora di quasi dodici punti percentuali. Vent’anni fa la disoccupazione giovanile era prevalentemente connessa ad una fase di passaggio verso il lavoro stabile, oggi è caratterizzata dall’alternanza con il lavoro precario. Se nei primi anni ’90 un terzo dei giovani con un lavoro atipico ne trovava uno stabile a distanza di un anno, ora questa situazione interessa solo il 18,6 per cento di loro. Se a questo si aggiungono i circa 2,1 milioni di Neet, cioè di giovani tra 15 e 29 anni che non stanno ricevendo un’istruzione e non hanno un impiego, si coglie appieno la drammaticità della condizione giovanile odierna.

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Le donne più scolarizzate degli uomini, ma i divari sul mercato del lavoro sono ancora molto ampi

La partecipazione scolastica delle donne è ora superiore a quella degli uomini (93 e 91,5 per cento, rispettivamente) e le prime concludono il percorso formativo più frequentemente dei secondi (il 78 per cento delle ragazze ottiene il diploma, contro soltanto il 69 per cento dei ragazzi). Nel mondo del lavoro, però, permangono forti differenze e l’incremento occupazionale che ha riguardato le donne si è concentrato in quei settori professionali in cui la presenza femminile era già relativamente più elevata e negli impieghi ad orario ridotto. Nel 2010 due terzi delle donne impiegate part-time vorrebbero avere un lavoro a tempo pieno (era un terzo sei anni prima). Più in generale, le donne subiscono ancora un significativo svantaggio nel caso di una gravidanza: l’avere un figlio, infatti, è l’elemento fondamentale che spiega, insieme alla precarietà, la probabilità di perdere il lavoro a distanza di 10 anni, soprattutto a causa dell’impossibilità di bilanciare il ruolo di madre e di lavoratrice. Peraltro, la crisi del 2008-2009 ha accentuato le difficoltà delle donne: in particolare, nell’industria in senso stretto il calo occupazionale femminile è stato doppio rispetto a quello maschile e per le donne il rischio di perdere il posto di lavoro è risultato, a parità di altre condizioni, superiore del 40 per cento a quello degli uomini.

Globalizzazione, nuove tecnologie ed euro hanno cambiato l’economia italiana, ma i risultati sono stati deludenti

Negli ultimi venti anni l’intensificarsi delle relazioni commerciali, produttive e finanziarie tra paesi e la rivoluzione tecnologica hanno determinato grandi trasformazioni nell’economia mondiale. L’Italia ha partecipato a questo processo con modalità solo in parte simili a quelle dei principali paesi avanzati. In tale periodo, infatti, l’economia italiana è cresciuta in termini reali ad un tasso medio annuo dello 0,9 per cento, con un significativo divario rispetto ai partner europei, che si è ulteriormente allargato nel periodo più recente. L’euro ha protetto l’economia italiana dalle instabilità tipiche degli anni ’70 e ’80, segnando la fine di episodi inflazionistici gravi e prolungati, ma negli anni Duemila, cioè quando l’avvio dell’Unione Monetaria avrebbe dovuto spingere ad una più rapida riconversione del sistema economico, l’intensità della riallocazione produttiva tra settori è stata inferiore a quella del decennio precedente. D’altra parte, la moneta unica sembra aver migliorato le performance delle imprese esportatrici già presenti sui mercati dell’area dell’euro diversi da quelli della core Europe (Germania e paesi limitrofi).

La specializzazione manifatturiera è cambiata poco, ma ci sono meno grandi imprese

Lo spostamento verso attività terziarie ha fatto emergere, da un lato, i settori legati alle nuove tecnologie dell’informazione e della comunicazione; dall’altro, quelli volti al soddisfacimento di bisogni di cura e assistenza, e di bisogni immateriali. La struttura economica italiana appare ora più simile a quella dei partner europei rispetto a venti anni fa, ma la specializzazione manifatturiera del nostro Paese rimane fondamentalmente quella degli anni ’70 e la sua diversificazione simile a quella del 1992, in un contesto di progressiva riduzione del peso delle grandi imprese.

Prezzi al consumo italiani allo stesso livello di quelli tedeschi

Il risultato di questo processo è stato una diminuzione continua del rapporto tra valore aggiunto e produzione del settore manifatturiero, una crescita della produttività nettamente inferiore a quella dei partner europei e un’inflazione maggiore, anche dopo l’avvio dell’Unione Monetaria. Se nel 2000 il livello dei prezzi italiani era pari a circa il 95 per cento di quello medio dell’Unione Europea, e quello dei prezzi tedeschi superava quest’ultimo di circa il 10 per cento, nel 2010 i prezzi in ambedue i paesi erano superiori al livello medio di circa il quattro per cento. In dieci anni i prezzi al consumo italiani sono aumentati del 25,5 per cento, quelli tedeschi del 18,1 per cento: solo nei settori esposti ai processi di liberalizzazione la dinamica relativa dei prezzi è stata favorevole al nostro Paese, il quale ha invece sperimentato forti aumenti dei prezzi relativi di molti servizi (ricreativi, assicurativi, finanziari, trasporti) e di alcuni beni (alimentari non lavorati e abbigliamento).

Finanza pubblica: dilapidato negli anni Duemila il “dividendo dell’euro”

Il “rilassamento” del sistema economico e della politica economica italiana dopo l’entrata nell’Unione Monetaria appare ancora più evidente osservando le tendenze della finanza pubblica. Dopo la crisi del 1992-1993 l’Italia aveva prodotto uno sforzo eccezionale (per molti, compresi i partner europei, inatteso) pur di rispettare i parametri di Maastricht. Alla fine degli anni ’90 l’avanzo primario era di circa il cinque per cento del Pil e l’indebitamento netto vicino al due per cento; la pressione fiscale era pari a circa il 42 per cento del prodotto e la spesa pubblica (al netto degli interessi) al 41 per cento; il rapporto debito/Pil risultava in costante discesa (nel 2000 era pari al 108,5 per cento, dopo il picco del 121,2 per cento del 1994). A metà degli anni Duemila, però, l’indebitamento era nuovamente superiore al quattro per cento del Pil, l’avanzo primario quasi annullato, la tendenza alla riduzione del rapporto debito/Pil interrotta: dopo un nuovo contenuto miglioramento, la situazione è poi tornata a peggiorare a causa della crisi, cosicché nel 2011 l’indebitamento è stato vicino al quattro per cento del Pil, il saldo primario è tornato leggermente positivo, la pressione fiscale si è attestata al 42,5 per cento e la spesa pubblica (al netto degli interessi) al 45,6 per cento.

Scende la quota del reddito da lavoro sul Pil e cambia la composizione del reddito disponibile delle famiglie: aumenta il ruolo delle prestazioni sociali

Negli anni 1992-93 la quota del reddito da lavoro dipendente sul totale del valore aggiunto era vicina al 47 per cento. Dopo essere scesa di circa cinque punti percentuali fino ai primi anni Duemila, è poi gradualmente risalita, assestandosi negli ultimi tre anni intorno ad un valore del 45 per cento. Tra il 1993 e il 2011 le retribuzioni contrattuali sono rimaste immutate in termini reali, quelle di fatto sono aumentate dello 0,4 per cento all’anno. In tale periodo il carico fiscale e contributivo corrente sulle famiglie è aumentato dal 28,5 al 29,3 per cento, ma anche la composizione del reddito disponibile è mutata: è aumentata la quota delle retribuzioni (dal 39,4 al 42,8 per cento), mentre sono diminuite quelle dei redditi da lavoro autonomo (dal 28,5 al 25,3 per cento) e del reddito da capitale (dal 16,6 al 6,8 per cento), quest’ultima ridottasi soprattutto nel corso degli anni Duemila. È aumentata molto, invece, la quota delle prestazioni sociali (dal 25,4 al 32 per cento) e non solo a causa della crisi degli ultimi anni.

La povertà relativa resta stabile perché la spesa è stata sostenuta dalla riduzione della propensione al risparmio

Grazie alla riduzione della propensione al risparmio, oltre 13 punti tra il 1992 e il 2011, e al supporto proveniente dai trasferimenti pubblici alle famiglie, gli indicatori di povertà relativa basati sulla spesa sono rimasti stazionari negli ultimi quindici anni intorno al 10-11 per cento. Invariato è rimasto anche il forte divario tra Nord e Sud: nelle regioni settentrionali l’incidenza della povertà era pari, nel 2010, al 4,9 per cento, in quelle meridionali al 23 per cento. Al contrario, la composizione dei consumi delle famiglie è mutata significativamente: tra il 1997 e il 2010 è aumentata di molto la quota destinata all’abitazione (oltre sei punti percentuali), meno quella per l’energia, mentre tutte le altre voci hanno visto una riduzione della propria importanza. Le famiglie più povere hanno accresciuto i consumi del 44 per cento, riducendo drasticamente le spese non necessarie e la qualità dei prodotti acquistati (il 20 per cento di esse si rivolge agli hard discount). Gli acquisti del ceto medio sono aumentati del 25 per cento e sono ora maggiormente orientati verso prodotti non alimentari, con un forte incremento delle spese per l’abitazione (affitto, utenze, ecc.). Infine, le famiglie più ricche spendono nel 2010 solo il 14 per cento in più del 1997, con un peso maggiore, oltre che dell’abitazione, degli altri beni e servizi, la cui quota aumenta di mezzo punto percentuale: in particolare, sono cresciute in termini relativi le spese per assicurazione vita, onorari dei professionisti, articoli personali e per l’infanzia, pasti e consumazioni fuori casa. Sulla base delle analisi del Rapporto emerge come l’Italia abbia utilizzato male, in questi vent’anni di rafforzamento dell’integrazione europea, l’opportunità di risolvere alcuni dei suoi problemi storici, dagli squilibri di finanza pubblica, al divario Nord-Sud, alle differenze di genere, al sottoutilizzo delle risorse umane, soprattutto giovanili, al disagio delle famiglie numerose o maggiormente vulnerabili. D’altra parte, guardando agli elementi che preoccupano maggiormente la popolazione, si vede come, al di là delle fluttuazioni cicliche, tra il 1998 e il 2010 disoccupazione e criminalità siano rimaste stabilmente in testa alla graduatoria, distaccando nettamente tutti gli altri problemi (ambiente, immigrazione, debito pubblico, ecc.).

Gli indicatori della criminalità sono migliori di quelli medi europei, al contrario degli anni Ottanta

Per ciò che concerne la criminalità, a fronte di una stabilità dei delitti complessivamente denunciati, va notata la forte riduzione rispetto al 1992 dell’incidenza di omicidi, tranne quelli ai danni delle donne, di associazioni a delinquere e di furti, mentre appaiono in netto aumento le truffe, le estorsioni e le violenze sessuali denunciate. Complessivamente, nel 2010 l’Italia presenta indicatori di criminalità migliori di quelli medi europei, al contrario di quanto accadeva negli anni ’80. La quota di stranieri denunciati per reati è aumentata notevolmente nel tempo, in parallelo con la crescita della presenza straniera, ma il 20 per cento di essi ha commesso, come reato più grave, un’infrazione alle norme sulla regolare presenza sul territorio nazionale. Per ciò che concerne, invece, la disoccupazione, se nel 1993 il tasso complessivo era pari al 9,7 per cento, negli anni immediatamente successivi esso superò l’11 per cento, per poi ridursi in misura notevole nel corso degli anni Duemila (sino al 6,1 per cento nel 2007) e risalire negli anni della crisi. Nonostante l’ampiezza di quest’ultima e l’aumento dell’offerta di lavoro, nel 2011 la disoccupazione è stata pari all’8,4 per cento, inferiore al valore medio europeo.

 

Rigore, crescita ed equità

 

La modifica della Costituzione per assicurare il pareggio di bilancio

L’agenda politica italiana, in analogia a quanto avviene nel resto d’Europa, si basa su tre pilastri fondamentali: rigore, crescita ed equità. Se su tali obiettivi sembra essersi formato un consenso, anche mediatico, la discussione pubblica ha chiarito come la loro realizzazione preveda tempistiche molto diverse: rigore nel breve termine, crescita nel medio, equità in ambedue le fasi. La decisione più importante assunta nel 2011 sul piano del rigore, al di là delle misure concrete per realizzare il consolidamento fiscale, è stata quella di inserire nella Costituzione italiana l’impegno a realizzare il pareggio strutturale di bilancio. Poiché, come accadde con la ratifica del Trattato di Maastricht, l’opinione pubblica non sembra aver percepito appieno le implicazioni di una tale scelta, vale la pena ricordare che essa impone, dati gli elevati livelli di debito pubblico e di spesa per interessi su quest’ultimo, di raggiungere e mantenere per vari anni, al di là delle fluttuazioni cicliche, un avanzo primario molto consistente. Secondo le previsioni del Governo, il saldo primario corretto per il ciclo e le una tantum dovrà salire dall’1,3 per cento del Pil del 2011 al 4,9 per cento nel 2012 e al 6,1 per cento nel 2013, per poi restare invariato. Considerando che gli investimenti fissi lordi pubblici sono pari a circa il due per cento del Pil, e a meno di non volerne ridurre la già contenuta consistenza, al fine di realizzare quanto previsto sarà necessario mantenere l’avanzo primario di parte corrente corretto per il ciclo all’otto per cento circa del prodotto, un livello mai raggiunto nella storia italiana. Naturalmente, un tale risultato può essere ottenuto attraverso diverse combinazioni di entrate e di spese, con effetti differenti sulla crescita, a sua volta ingrediente indispensabile per evitare l’insostenibilità del debito: in ogni caso, lo sforzo derivante dall’impegno assunto resta formidabile. In presenza di vincoli di finanza pubblica come quelli appena ricordati, di minori spazi per un’espansione della domanda di consumo dovuti alla insoddisfacente dinamica del reddito disponibile e all’erosione della propensione al risparmio, di elevate incertezze sul futuro dell’economia europea e delle maggiori opportunità offerte dall’espansione delle economie emergenti e in via di sviluppo, la crescita di medio termine dell’economia italiana appare fortemente legata, oggi più di ieri, alle interrelazioni con il resto del mondo. Come mostrato nel terzo capitolo del Rapporto, queste dipendono da tre fattori cruciali, strettamente interconnessi: competitività, produttività, dotazione di capitale, specialmente di quello immateriale.

Cruciale il ruolo delle esportazioni per la crescita …… ma il posizionamento internazionale dell’Italia resta insoddisfacente

La buona performance mostrata dalle imprese esportatrici dopo la crisi del biennio 2008-2009 è stata realizzata soprattutto sui mercati extra-europei, mentre su quelli europei l’espansione è stata nettamente inferiore, circa la metà della prima. Negli ultimi tre anni le esportazioni delle grandi imprese sono cresciute, per tutte le tipologie di prodotti, più di quelle delle medio-piccole, maggiormente presenti sul mercato europeo. Questo vantaggio relativo segnala la necessità di affrontare con decisione il problema della struttura dimensionale dell’industria manifatturiera, che, pur presentando alcuni vantaggi, rischia di penalizzare nel medio termine l’economia italiana in termini di capacità di penetrazione sui mercati emergenti. La specializzazione internazionale del nostro Paese è ancora basata sulle produzioni tipiche del Made in Italy e della meccanica strumentale, con minime differenze rispetto a dieci anni fa, nonostante gli intensi processi di riposizionamento “interno” al modello di specializzazione e l’aumento del livello qualitativo delle esportazioni. L’internazionalizzazione dell’industria italiana ha prodotto anche un aumento del commercio intra-industriale (cioè all’interno dello stesso settore o della stessa filiera produttiva), soprattutto nei confronti della Germania, della Romania, dell’India e della Cina, ma una crescita limitata degli investimenti diretti verso e dall’estero. A confronto con i partner europei (soprattutto Francia e Germania), livelli e dinamiche di tali flussi appaiono molto contenuti, segno evidente di una scarsa attrattività del nostro Paese e di strategie imprenditoriali poco aggressive su questo piano, cosicché l’Italia presenta una quota di multinazionali estere sul territorio nazionale e un’attività estera delle multinazionali italiane nettamente inferiori a quelle dei principali concorrenti.

L’attivazione della produzione nazionale da parte delle esportazioni si va riducendo

Non va poi trascurato il fatto che la profonda trasformazione in corso delle filiere produttive globali sta influenzando negativamente la performance economica italiana: l’aumento della dipendenza energetica dall’estero, pur in presenza di una riduzione delle quantità importate, condiziona in modo strutturale il saldo della bilancia commerciale, fenomeno questo destinato presumibilmente a proseguire nel futuro, vista la crescita attesa nel medio termine dei prezzi dell’energia. Inoltre, l’internazionalizzazione dell’economia italiana sta producendo, a parità di altre condizioni, un aumento del contenuto di importazioni per unità di prodotto: ciò vuol dire che un’espansione delle esportazioni di merci attiva una quota sempre minore di produzione nazionale. Se, ad esempio, nel 1995 un aumento del 10 per cento delle prime produceva una crescita della seconda pari all’8,3 per cento, nel 2010 tale attivazione è scesa al 7,5 per cento. Il fabbisogno totale di input intermedi esteri nell’industria è aumentato di oltre il 35 per cento, quello di input intermedi interni si è ridotto di quasi il 10 per cento. Questo fenomeno riguarda soprattutto le produzioni a medio-bassa tecnologia e compensa l’aumento dell’attivazione derivante dalla crescita della domanda estera di servizi, settore nel quale la produzione nazionale presidia gran parte del mercato e in cui l’Italia presenta un forte deficit con l’estero. Se, quindi, il futuro dell’economia italiana dipende dalla domanda estera, le evidenze ora richiamate dimostrano l’urgenza di una scelta strategica sul posizionamento internazionale del nostro Paese, che modifichi le tendenze emerse nell’ultimo decennio, puntando ad un approccio sistemico all’internazionalizzazione. Stesso discorso vale per la produttività, la cui diminuzione osservata negli anni Duemila rappresenta un caso unico a livello europeo. A tale proposito giova ricordare che, per i paesi europei, la produttività del lavoro appare correlata positivamente con la natalità d’impresa, indicatore che in Italia assume valori relativamente modesti, nonostante l’altissima quota di piccole imprese.

Il ruolo dei “beni immateriali” per la competitività e la crescita della produttività

Inoltre, dall’analisi dei contributi dei diversi fattori alla dinamica della produttività nel decennio precedente la crisi del 2008-2009 l’Italia si caratterizza per il basso ruolo svolto dai cosiddetti “beni immateriali”, cioè l’investimento in ricerca e sviluppo, nuove tecnologie, innovazione organizzativa e capitale umano. In altri termini, il Paese non sembra aver colto le opportunità offerte dalla trasformazione in atto verso l’economia della “conoscenza”, con conseguente perdita di efficienza di sistema, misurata dal declino della total factor productivity. In particolare, è mancato l’effetto propulsivo dell’adozione delle tecnologie dell’informazione e della comunicazione (Ict) che si è riscontrato in molti altri paesi europei. Le analisi svolte nel terzo capitolo del Rapporto delineano una sorta di agenda per trasformare la speranza di una crescita significativa e duratura in un risultato concreto, cui tutte le componenti del “Sistema Italia” devono contribuire: favorire la ridefinizione dell’assetto dimensionale dell’economia italiana e il suo posizionamento internazionale, attraendo capitali dall’estero e rafforzando la presenza italiana sul mercato internazionale di servizi. Aumentare la flessibilità dei mercati dei prodotti e dei fattori, così da elevare il tasso di natalità di imprese innovative. Recuperare il terreno perduto in termini di efficienza complessiva del sistema economico, attraverso investimenti, anche pubblici, in beni immateriali e in capitale umano. Migliorare il sistema logistico e dei trasporti, dove l’Italia presenta evidenti inefficienze (in parte legate ad una ridotta dimensione aziendale) e perdite di posizione competitiva, nonché un peso eccessivo del trasporto su gomma. Aumentare l’efficienza della giustizia civile (i cui ritardi scoraggiano gli investimenti dall’estero e penalizzano le imprese nazionali), principalmente attraverso una riduzione dell’elevata “litigiosità” consentita dal sistema normativo italiano, aumentando le economie di scala non sfruttate negli uffici giudiziari (per esempio “specializzando” i singoli magistrati) e rivedendo la distribuzione territoriale di questi ultimi. Infine, ma non meno importante, ridurre l’economia sommersa e l’evasione fiscale, ai cui effetti negativi sul piano dell’equità nella distribuzione del suo carico si sommano quelli derivanti dalla permanenza sul mercato di imprese chiaramente inefficienti, che costituiscono un freno alla necessaria accelerazione dell’ammodernamento produttivo e dell’aumento di efficienza di cui il Paese ha disperatamente bisogno.

L’equità svolge un ruolo fondamentale, insieme al consolidamento fiscale e al rilancio della crescita

Anche una realizzazione completa di tale agenda, come unanimemente riconosciuto, non produrrebbe, però, effetti consistenti che nel medio termine. Ecco perché l’equità, cioè una distribuzione economicamente e socialmente sostenibile dei vantaggi e degli svantaggi derivanti, anche in un’ottica intertemporale, dall’ipotizzato percorso di rigore e crescita, non può rappresentare un’appendice della strategia di rilancio del Paese, ma un suo ingrediente fondamentale. Equità, si badi bene, intesa non come necessaria equidistribuzione dei risultati socio-economici, ma come parità di opportunità indipendentemente dal luogo di residenza, dal genere e dalle condizioni della famiglia di origine, come bilanciamento nei rapporti intergenerazionali, come uniformità nel modo in cui il sistema normativo viene applicato in concreto. Su molti di questi aspetti il Rapporto evidenzia elementi che devono integrare l’agenda prima ricordata, analizzando situazioni che incidono significativamente sul senso di equità, di opportunità e di “futuro” offerte dal nostro Paese, quali la mobilità sociale tra generazioni, la distribuzione del reddito, le diverse prospettive occupazionali a seconda della tipologia del primo lavoro, le condizioni eterogenee di uomini e donne, di italiani e stranieri, di residenti nelle regioni del Nord e di chi vive in quelle del Mezzogiorno. Nei momenti di difficoltà come quello presente, la coesione sociale si basa non tanto sui risultati che si conseguono oggi, ma su quelli che possono essere ragionevolmente raggiunti in una prospettiva pluriennale, cioè sul modello di società che si intende realizzare in futuro.

Mobilità sociale bassa e minore che nel passato …… rende più difficile per i giovani migliorare la propria posizione

Per ciò che concerne la mobilità sociale, misurata dal passaggio, nell’arco di una generazione, da una classe sociale ad un’altra, risulta come nel 2009 il 62,6 per cento degli occupati si trovi in una classe sociale diversa da quella dei loro padri, una percentuale simile a quella registrata nel 1998. A migliorare la propria posizione sono soprattutto i figli di chi lavorava nel settore agricolo, profondamente mutato in questo arco temporale, mentre per la classe operaia urbana e quella media impiegatizia la mobilità è nettamente minore. Se poi analizziamo la “mobilità relativa”, cioè consideriamo la situazione al netto dei cambiamenti della struttura occupazionale, la possibilità di cambiare classe sociale è abbastanza bassa e questo tende a cristallizzare le disuguaglianze nel tempo. Osservando questi fenomeni in un’ottica temporale ampia, appare evidente come la mobilità “ascendente”, che aveva caratterizzato i giovani ventenni di tutte le generazioni entrate nel mercato del lavoro fino a quelli nati negli anni ’50, si è ridotta per i giovani delle generazioni successive. Parallelamente, è aumentata la probabilità di sperimentare una mobilità “discendente”: ad esempio, guardando all’ingresso nel mondo del lavoro, gli occupati delle generazioni più recenti, se provenienti dalla classe media impiegatizia o dalla borghesia, retrocedono più spesso dei giovani delle precedenti generazioni e i figli di operai salgono in misura minore rispetto ai loro predecessori degli ultimi 30 anni.

Istruzione fattore decisivo per la mobilità, ma restano forti i condizionamenti della situazione di partenza

L’istruzione è un fattore chiave per alimentare la mobilità sociale e stimolare la crescita economica attraverso un migliore capitale umano, ma anche questa risente della classe sociale della famiglia di origine: per la generazione più recente, solo il 12,5 per cento dei figli della classe operaia raggiunge la laurea, contro più del 40 per cento dei figli della borghesia. Anche l’abbandono scolastico è più ampio nelle classi meno elevate: il 37 per cento dei figli di operai nati negli anni ’70 ha abbandonato la scuola superiore, contro l’8,7 per cento di quelli della classe sociale più elevata. Tra questi ultimi oltre la metà si iscrive all’università, contro il 14,1 per cento dei figli della classe operaia, e la situazione non cambia significativamente per i nati negli anni ’80.

Se il primo impegno è atipico aumenta la probabilità di rimanere precario o perdere il lavoro

Forte appare anche l’influenza della tipologia del primo impiego sulle prospettive di carriera a lungo termine: tra i nati a partire dal 1980 la quota di chi entra nel mercato del lavoro con un impiego atipico è quasi del 45 per cento, a fronte di incidenze del 31,1 per cento per i nati negli anni ’70 e del 23,2 per cento per chi è nato negli anni ’60. Tra le persone entrate nel mondo del lavoro con un contratto atipico, a dieci anni dal primo impiego il 29,3 per cento è ancora in una situazione di precarietà, circa il 10 per cento non è più occupato e una quota consistente ha sperimentato una mobilità “discendente”. Quando il primo lavoro è a tempo indeterminato, dopo dieci anni si è ancora occupati stabili in una percentuale elevata. Tra i nati negli anni ’60, su 21,7 anni di presenza media sul mercato del lavoro, i lavoratori “sempre standard” hanno lavorato per 21 anni; quelli che hanno avuto almeno un contratto atipico, solo per 19 anni, otto dei quali passati in condizione di precarietà. Per i nati negli anni ’70, a fronte di 12,5 anni di presenza sul mercato del lavoro, i “sempre standard” hanno lavorato per circa 12 anni, gli altri solo per 10,7 anni, metà dei quali in condizioni di precarietà. Naturalmente, questi divari sono tanto più forti quanto più bassa è la classe sociale di partenza e tutto questo, soprattutto in periodi di crisi prolungata come l’attuale, produce effetti significativi sulle scelte di vita e sulle prospettive reddituali a medio e lungo termine.

Cambia la “geografia della povertà”: peggiora la condizione delle famiglie con minori e di quelle del Sud; migliora la situazione delle famiglie di anziani

Dopo il forte peggioramento dei primi anni ’90, la disuguaglianza nella distribuzione del reddito è rimasta sostanzialmente stabile, ad un livello comunque superiore a quello medio dei paesi OCSE. Tra il 1997 e il 2010 si è deteriorata la situazione delle famiglie di maggiori dimensioni e di quelle con minori: complessivamente, sono quasi due milioni (il 18,2 per cento) i minori che vivono in famiglie relativamente povere, il 70 per cento dei quali è residente al Sud. L’incidenza della povertà è aumentata tra le famiglie di lavoratori in proprio e di operai, nonché (di circa otto punti percentuali) per quelle in cui convivono più generazioni: le famiglie con minori in cui si realizza tale convivenza sono quasi raddoppiate rispetto al 1997 (oggi sono il 14,5 per cento); tra di esse, l’incidenza della povertà è passata dal 18,8 al 30,3 per cento. Complessivamente, sono le famiglie di anziani soli o in coppia a vedere diminuire l’incidenza della povertà (di sette e di quattro punti percentuali, rispettivamente), anche grazie ad una storia contributiva migliore della precedente generazione di anziani, eccetto che nel caso in cui si tratti di donne sole ultra sessantacinquenni, con basso livello di istruzione e vita lavorativa assente o molto limitata.

Lotta all’evasione e revisione del sistema fiscale per conseguire una maggiore equità

Ribadendo ancora una volta come l’ampiezza dell’evasione produca effetti redistributivi perversi e distorsioni nel sistema economico, va notato come gli interventi operati nell’ultimo ventennio sul sistema delle aliquote, delle detrazioni e delle deduzioni che determinano il pagamento dell’imposta sul reddito delle persone fisiche (Irpef) abbiano prodotto un sistema che non è sempre in linea con l’obiettivo dell’equità. La diversità di carico fiscale, a parità di reddito, a seconda della fonte di quest’ultimo e le differenti possibilità a disposizione delle varie categorie di contribuenti di ridurre la base imponibile grazie ad agevolazioni e all’evasione fiscale sono esempi di questi squilibri. Vi è anche il problema dei cosiddetti “incapienti”, cioè di coloro i quali non possono utilizzare pienamente le detrazioni a fini Irpef: si tratta di più di quattro milioni di persone, il 64 per cento delle quali sono ritirati dal lavoro o non occupati, e la perdita di potenziali benefici è pari a circa 2,6 miliardi all’anno (594 euro pro capite). Analogamente, il principio della progressività è applicato a livello individuale e determina, a parità di reddito familiare, un significativo svantaggio per le famiglie con un solo percettore di reddito rispetto a quelle con due o più percettori. Infine, essendo differenti le detrazioni per reddito da lavoro dipendente e autonomo, le famiglie con un solo percettore di reddito autonomo inferiore a 15 mila euro pagano più Irpef a parità di reddito rispetto alle altre. Per contro, grazie alle maggiori opportunità di ridurre la base imponibile, le famiglie con soli redditi autonomi superiori ai 25 mila euro pagano, a parità di reddito, meno Irpef rispetto a quelle con soli redditi da lavoro dipendente. La discussione sul disegno di legge delega per la riforma fiscale e sugli atti successivi da essa derivanti rappresenta un’importante occasione per rivedere il sistema attuale in funzione di una maggiore equità.

Restano forti gli squilibri di genere, anche all’interno della coppia, e questo incide sulle opportunità lavorative delle donne

Un ulteriore fattore di disuguaglianza è legato al genere: mentre le donne hanno colmato antichi divari in termini di istruzione, permane ancora uno squilibrio nel rapporto con il mercato del lavoro, nei redditi e nella distribuzione di ruoli all’interno della coppia, elementi tra loro strettamente connessi. Il divario retributivo fra lavoratori e lavoratrici cresce all’aumentare del reddito ed è molto elevato per i livelli reddituali più alti. Inoltre, insieme a Malta, l’Italia è il paese con la maggiore diffusione di coppie in cui una donna adulta (25-54 anni) non percepisce redditi (33,7 per cento). In un terzo delle coppie la donna si fa carico di quasi tutto il lavoro domestico e di cura, e spesso tale asimmetria è associata con un più limitato accesso al conto corrente della famiglia, basse quote di proprietà dell’abitazione, scarsa libertà di spesa per se stessa, poco coinvolgimento nelle scelte importanti che riguardano il nucleo familiare. Solo nel sei per cento delle coppie esiste simmetria nel contributo economico e di cura tra i due partner. La vulnerabilità economica della donna all’interno della famiglia si riflette anche nella condizione dei coniugi dopo una separazione o un divorzio: tra le donne che hanno sperimentato questi eventi, il rischio di povertà è del 24 per cento, quello analogo rilevato per gli uomini è del 15,3 per cento, ma se la donna è occupata a tempo pieno, caso relativamente meno probabile che per l’uomo, questo differenziale si annulla.

Le famiglie straniere hanno un reddito medio pari alla metà di quello delle italiane

Nonostante i complessivi miglioramenti della condizione di vita degli stranieri, permane una chiara disuguaglianza con gli italiani. A fronte di un tasso di occupazione più elevato (62,3 per cento contro il 56,4 per cento degli italiani), il reddito medio di una famiglia composta da soli stranieri è ancora pari a circa la metà di quello di una famiglia italiana. Quasi il 42 per cento dei minori stranieri vive in famiglie in condizioni di deprivazione materiale, contro il 15 per cento rilevato per gli italiani. Oltre il nove per cento degli studenti stranieri risulta ripetente (per gli italiani la quota è del quattro per cento) e il 48 per cento appare in ritardo rispetto al corso di studi (8,5 per cento per gli italiani). Il tasso di abbandono scolastico è del 43,6 per cento per gli studenti stranieri effettivamente presenti sul territorio (cioè al netto di quelli che hanno abbandonato il Paese) e del 15,5 per cento per quelli italiani. L’incidenza dei Neet è del 32,8 per cento per gli stranieri, a fronte di un valore del 21,5 per cento per gli italiani.

Resta forte il divario Nord-Sud anche nei servizi pubblici …nonostante alcuni casi di successo di amministrazioni del Mezzogiorno

Infine, ma questo elemento rappresenta una costante di molte delle analisi svolte, alle quali si rinvia, permane, e si aggrava negli anni della recente crisi (il calo dell’occupazione è iniziato prima ed è stato più intenso), il forte differenziale Nord-Sud. Nel Mezzogiorno le opportunità delle donne dal punto di vista lavorativo sono minori, così come quelle dei giovani. Forti differenziali si rilevano ancora nella dotazione di servizi sociali erogati dai comuni (dagli asili-nido all’assistenza agli anziani e ai disabili) e nella relativa spesa. La qualità dei servizi sanitari è peggiore, così come quella di servizi ambientali come la fornitura di acqua potabile (con rilevanti dispersioni della rete di distribuzione) e la raccolta dei rifiuti (la discarica è ancora la modalità prevalente di smaltimento e quella differenziata copre appena il 20 per cento). Anche l’offerta e la qualità del trasporto pubblico locale sono le più basse del Paese. Sarebbe però un errore non riconoscere importanti casi di successo, come quello della raccolta differenziata, per la quale la distanza Nord-Sud si va riducendo, in molti comuni del Mezzogiorno, della spesa sociale per disabili dei comuni in Sardegna, o dell’efficienza nella distribuzione dell’acqua potabile in Basilicata e Calabria. Questo vuol dire che le amministrazioni pubbliche locali possono conseguire notevoli miglioramenti ovunque esse operino e l’opinione pubblica deve prenderne atto con soddisfazione, superando fastidiosi stereotipi. Peraltro, si registra una maggiore convergenza territoriale per quei servizi per i quali sono stati definiti standard di erogazione o “livelli obiettivo” da raggiungere.

Aumenta il consumo del suolo, soprattutto nelle regioni meridionali

Va poi segnalato come negli ultimi dieci anni il Mezzogiorno abbia visto realizzare un consumo di suolo nettamente superiore a quello rilevato nel resto d’Italia. Se, nel complesso del Paese, tale consumo è cresciuto dell’8,8 per cento rispetto al 2001, corrispondente ad un territorio pari a quello di una ipotetica nuova provincia di Milano completamente costruita (1.639 km2), nel Sud e nelle Isole l’aumento è stato ancora maggiore (circa il 10 per cento). Tra le province del Mezzogiorno che presentavano già livelli elevati di superficie edificata, sono Caserta (+18,4 per cento), Taranto e Catania (entrambe più dell’11 per cento) a presentare gli aumenti maggiori. Quella appena descritta è una tendenza preoccupante, in quanto una cattiva programmazione delle forme di urbanizzazione si può rivelare poco sostenibile da un punto di vista ambientale ed economico. Ad esempio, la dispersione di abitazioni e fabbricati destinati alle attività economiche sottrae territori ad altri usi e vocazioni, depaupera le valenze paesaggistiche, riduce il radicamento culturale delle persone rispetto ai luoghi di vita, limita l’accessibilità individuale ai servizi, incide negativamente sulla complessiva qualità della vita dei cittadini. Anche questo ha a che fare con l’equità e nel momento in cui il Paese si interroga sul modello di sviluppo da adottare per il futuro, è importante che si operi una scelta chiara anche sul tema del consumo del suolo.

 

Conclusioni

L’anno scorso, concludendo la lettura della Sintesi del Rapporto annuale, sottolineavo la vulnerabilità del “Sistema Italia”, sia delle imprese che delle famiglie, la necessità per il nostro Paese di prendere coscienza dei propri problemi, ma anche dei punti di forza, e la scarsa importanza che la società italiana sembrava attribuire al fattore “tempo”, in un mondo in forte accelerazione. Un anno dopo, amaramente, si può dire che il 2011 abbia obbligato, in modo traumatico, il Paese a comprendere appieno la gravità della situazione, a scoprirsi effettivamente più vulnerabile di quanto pensava e a mettere mano a numerose questioni irrisolte, con una accelerazione dei processi decisionali che ha pochi precedenti. Il 2012 sarà ricordato come un anno molto difficile sul piano economico e sociale. Le previsioni che oggi l’Istat diffonde per la prima volta dopo il trasferimento ad esso dei compiti precedentemente svolti dal disciolto Istituto di Studi e Analisi Economica (ISAE), indicano per quest’anno una contrazione del Pil dell’1,5 per cento. I consumi delle famiglie e, soprattutto, gli investimenti subiranno forti riduzioni (-2,1 per cento e -5,7 per cento, rispettivamente), mentre la domanda estera netta fornirà un contributo positivo, grazie all’aumento delle esportazioni (+1,2 per cento) e alla forte caduta delle importazioni (-4,8 per cento). La prevista riduzione dell’occupazione (associata ad un aumento della disoccupazione) e la contenuta dinamica retributiva contribuiranno all’ulteriore contrazione del reddito reale delle famiglie, in presenza di un’inflazione ancora elevata. Nel 2013, invece, il Pil dovrebbe aumentare dello 0,5 per cento, trainato dalla crescita delle esportazioni (+4,0 per cento), mentre la domanda interna resterebbe costante nella media dell’anno. La lieve ripresa occupazionale non sarebbe sufficiente a ridurre il tasso di disoccupazione, mentre la crescita dei prezzi rallenterebbe. Il quadro delineato per i prossimi 18 mesi, che per molti versi conferma le analisi formulate da altri centri di ricerca nazionali e internazionali, segnala la necessità di mantenere elevata l’attenzione sul fronte della politica fiscale e sottolinea l’importanza delle evidenze presentate nel Rapporto sui temi della crescita e dell’equità. In vista dell’avvio di una nuova legislatura, le forze politiche e sociali sono chiamate nei prossimi mesi a definire e proporre ai cittadini una prospettiva di medio termine per il Paese, rispettosa degli impegni di risanamento della finanza pubblica, ma anche convincente e in grado di mettere in moto le migliori risorse, e non sono poche, di cui disponiamo. Pensiamo alle donne, che negli ultimi venti anni hanno mostrato una dinamicità notevole sul piano dell’istruzione e del lavoro, e sperano di vedere riconosciute appieno le proprie capacità. Pensiamo ai giovani, che rappresentano un potenziale innovativo che trova enormi diffi coltà ad esprimersi. Pensiamo agli stranieri, desiderosi di integrarsi maggiormente nella società italiana, anche sul piano dell’imprenditorialità. Pensiamo alle imprese innovative che quotidianamente competono sui mercati nazionali ed esteri, che richiedono strutture efficienti di sostegno ad una internazionalizzazione moderna. Pensiamo alle imprese multinazionali disponibili a contribuire all’economia italiana se solo alcune condizioni socio-economiche non le penalizzassero, così come fanno anche nei confronti delle unità italiane. Pensiamo al capitale sociale di cui dispongono i nostri territori, che anche nella attuale crisi forniscono straordinari segnali di vitalità e attenzione alle situazioni di difficoltà. Pensiamo alle eccellenze esistenti nella tanto criticata Pubblica Amministrazione, le cui buone pratiche (e non sono poche) vanno consolidate e diffuse, così da ridare fiducia al contribuente onesto che si aspetta di usufruire di servizi efficienti in cambio delle tasse pagate. Pensiamo al “terzo settore”, nel quale solidarietà e impegno per lo sviluppo economico si incontrano in una sintesi che altri paesi ci invidiano. Pensiamo ai centri di eccellenza nella ricerca e nella formazione presenti in Italia, pienamente inseriti nei circuiti internazionali ai massimi livelli, che vorrebbero trovare nuove forme di collaborazione con il mondo produttivo. In questa prospettiva, mi piace pensare che anche l’Istat e il Sistema statistico nazionale possano essere considerati come punti di forza del nostro Paese, cioè come strumenti fondamentali per rappresentare i fenomeni rilevanti, per realizzare analisi utili alle politiche e alle decisioni individuali, per consentire la valutazione delle alternative possibili e dei risultati ottenuti, per informare i cittadini, anche in un’ottica di confronto internazionale e a scala territoriale dettagliata. La pubblicazione a fine anno del primo rapporto sul Benessere Equo e Sostenibile (Bes), che conterrà indicatori e analisi relative ai fenomeni che le parti sociali hanno identificato come le più importanti per valutare lo stato del nostro Paese, rappresenterà un’altra occasione di condivisione del quadro di riferimento economico, sociale e ambientale, da cui partire per progettare il futuro. Se rigore, crescita ed equità costituiscono il trinomio su cui costruire il futuro del nostro Paese, non si può non dire che il cambiamento avverrà con gradualità. E che in questo “tempo di mezzo”, non breve e non facile, è indispensabile il massimo sforzo da parte di tutte le componenti della società, in nome di questo obiettivo comune, per rendere sostenibile sul piano sociale il percorso che ci attende. In tale prospettiva i “beni comuni” e i “beni immateriali” sono altrettanto, e forse più, importanti di quelli individuali e materiali: chiarezza negli obiettivi e negli strumenti da adottare, impegno e responsabilità individuale e collettiva per la loro realizzazione, trasparenza e integrità da parte di tutti coloro i quali sono chiamati ad assumere le decisioni rilevanti, correttezza nei comportamenti e nei rapporti pubblici e privati. Anche questi sono ingredienti fondamentali di una ricetta che, per funzionare, deve ricostruire un clima di fiducia reciproca tra gli attori della società, della politica e dell’economia. Per realizzare gli obiettivi di benessere duraturo a cui vogliamo tendere è indispensabile superare le attuali diffidenze e difficoltà, pur comprensibili, che serpeggiano nei paesi europei. Se, forse, nel 1992, quando l’Italia aderì al progetto di creazione dell’Unione Europea e della moneta unica, le implicazioni di una tale scelta non furono appieno comprese nella società e nel tessuto economico, a venti anni di distanza non si può non ribadire la irrinunciabilità della prospettiva europea per fronteggiare con successo l’attuale processo di globalizzazione e assicurare un futuro prospero alle nuove generazioni. Gli effetti economici e sociali di soluzioni alternative sarebbero devastanti per il nostro Paese e, al suo interno, per i soggetti più vulnerabili. Ecco perché a tutti noi, e specialmente a noi che siamo in questa sala, spetta impegnarci al massimo, qui e ora, per il futuro dell’Italia e dei suoi cittadini, di oggi e di domani.

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Le radici della crisi economica del mondo occidentale

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Le radici della crisi economica del mondo occidentale

Pubblicato il 06 maggio 2012 by redazione

L’Italia si sfalda e sfuma il progetto di un’economia nazionale

Triangolo-To-Mi-GeNegli anni 50’ si parlava del Nord Italia come del triangolo industriale, Milano-Torino-Genova, deputato e demandato allo sviluppo del Paese.

Negli anni 80’ cresceva la media impresa, che esportava sul mercato internazionale il “made in Italy” e al triangolo industriale si aggiungevano Treviso, Vicenza, Cuneo e Alessandria: l’occupazione cresceva in maniera straordinaria. Allora la Lombardia era il fulcro del Pil nazionale. Milano, dunque, capitale del terziario e della moda, e Torino votata all’industria; Milano città mercato, Torino l’organizzazione. La Lombardia negli anni si stabilizza e si rafforza e Milano si fa città globale, secondo alcuni la 7° città globale del Mondo. Torino invece resta indietro, perde la sfida e manca l’affaccio sui mercati internazionali.

Nel 2008 inizia la crisi, o meglio si manifesta. Milano, internazionale, sfrutta l’occasione europea e si colloca oltre oceano, non rispecchia più l’Italia risorgimentale che vedeva il Sud come grande serbatoio interno di manodopera a basso costo per le grande industrie del Nord, o per quelle trasversali al Paese come le autostrade, ma guarda ai grandi mercati del mondo, spingendosi verso la produzione di beni immateriali,  completamente scollata dal resto del Paese e ad un certo punto ottusamente votata al federalismo con un’assoluta mancanza di senso dello Stato e di Nazione, fino alle estreme conseguenze, che vedono la nascita della Lega e del Berlusconismo. Una Milano egoista, che sogna per sé e non ne vuol sapere del resto dell’Italia.

Dall’altra parte il Sud dopo varie migrazioni, prima verso l’America, tra la fine dell’Ottocento e i primi quarant’anni del Novecento, poi, alla fine della seconda guerra mondiale, verso il Nord del paese, si rivolge infine allo Stato come Welfaregate, per trovare le risposte ai propri bisogni economici: lo Stato si fa volano dello sviluppo economico e sociale del Paese.

anni50Alla fine degli anni 80’ si tirano le somme di questo forte statalismo, che ora è visto come impedimento allo sviluppo, e si decide di tagliare le strutture pubbliche e insieme a queste anche i grandi poli industriali come, per esempio, quello dell’Italsider, con la dismissione di 5000 operai. Questo è l’inizio della fine della grande industria e al contempo della grande classe operaia. In quegli anni qualcuno, semplificando, denunciava che non c’erano più soldi, che bisognava darsi da fare, che lo Stato assistenziale era finito e che al Sud l’industria non era riuscita a decollare perché c’era stato troppo Stato. Al Nord nel frattempo nascono e fioriscono invece le piccole e medie imprese, orfane di un progetto economico comune e nazionale, che la Lega traduce come ragione e giustificazione del non dover più stare insieme. A seguito di questo e di una maggior globalizzazione, anche lo Stato nazionale perde un po’ della sua funzione, ma soprattutto cambiano i presupposti capitalistici, che evolvono da industria a finanza: il capitale non più ancorato al territorio, va dove vuole, dove ha più convenienza. Nel Sud del Paese le risorse dello Stato si interrompono, così come quelle europee e il Meridione si arena completamente, privato di ogni ammortizzatore sociale. Anche le infrastrutture restano carenti e l’alta velocità riesce ad arrivare solo fino a Napoli. Il centro del Mediterraneo, il cuore del Sud dell’Europa, sembra proprio aver perso l’opportunità di affermare la propria centralità geopolitica e di far emergere tutte le sue possibili valenze, che se ben valorizzate e incanalate potrebbero evolvere in nuove economie sostenibili. C’è poi il problema della criminalità organizzata che con il suo clientelismo e la sua nuova vocazione finanziaria non permette facilmente l’evolversi di aziende e imprese terziarie. Anzi, i fiumi di denaro destinati alle imprese del Sud vengono invece recuperati dalle aziende del Nord e gli impianti acquistati, rivenduti ai Paesi del Terzo Mondo. E’ una battaglia difficile, che si combatte direttamente sul territorio e vede impegnate tutte le forze dell’ordine e della magistratura, ma che ha parte dei suoi gangli, radicati proprio nell’amministrazione e nella politica, troppo legata ai grandi interessi economici del territorio. L’integrità morale è saltata, cosi come la correttezza, e lo sviluppo economico si ritrova strettamente imbrigliato nelle sue maglie, così come il suo destino. Anche per questo l’Europa rappresentava per l’Italia una grande via di fuga, uno sbocco verso lo sviluppo, in ritardo di 40 anni rispetto a tutti gli altri paesi, persino verso la Spagna.


2006 crisi immobiliare degli Stati Uniti d’America

Nell’America di Grissman la politica monetaria pompava prestiti a gogò, e a basso interesse, alimentando bombe speculative, sia per i mutui delle case che per le aziende e invogliando gli americani a vivere al di sopra dei propri mezzi per almeno una decina d’anni. Raggiunto un alto livello di indebitamento individuale rifinanziavano il mutuo, basandosi su una tenuta stabile del valore delle case. Le banche a quel punto, dovendo accollarsi il rischio, decisero di impacchettare questi debiti e di cederli a terze parti finanziarie, facendo così crescere il rischio immobiliare fino all’esplosione della bolla e della crisi totale di tutto il sistema finanziario della cartolarizzazione (alias derivati), che provocò la sfiducia massiccia degli investitori e degenerò in un effetto domino globale, che mandò in crisi imprese e stati: dopo quella del 29’, questa è stata la crisi economica più pericolosa. I governi sapevano già dove si stava andando, ma non dove si sarebbe arrivati. All’inizio era infatti tutto abbastanza scontato: abbassare il costo delle case, facilitare l’accesso ai mutui, spingere verso una ripresa economica, movimentare il denaro liquido. In Spagna l’indebitamento immobiliare è arrivato al 27%. L’azzardo si è spinto molto oltre fino a incriccare il sistema finanziario globale, ma nessuno ha chiesto conto a questi esperti finanziari, confezionatori di derivati avariati, di assumersi le proprie responsabilità. Perché le banche non hanno controllato, perché le società di raiting cinesi, francesi, americane, non hanno segnalato i forti guadagni che entravano a fiumi nelle casse dei protagonisti di questo colossale affare. Quali sono gli organismi mondiali che dovevano monitorare, segnalare e porre rimedio ai danni ancora in essere, creando nuove regole a garanzia di tutti. Sta di fatto che la forbice tra ricchi e poveri si è aperta molto di più. Anche lo squilibrio tra le grandi nazioni come Cina e America è aumentato drasticamente e vede il 50% dei debiti americani concentrati sulle spese militari e solo il 25% sullo sviluppo. Di contro l’impegno cinese sullo sviluppo è massimo e su quello militare è quasi nullo. Risultato: la crescita economica cinese galoppa e la Cina siede ai tavoli più importanti del mondo e fa pesare il proprio voto nelle grandi decisioni globali. Il mondo è visibilmente cambiato e gli stipendi medi cinesi stanno raggiungendo quelli medi americani (lo stipendio di un ingegnere cinese è già pari alla metà di un ingegnere europeo), fermi invece al 1973 (30000 dollari netti all’anno), proprio come lo sviluppo economico americano.


Quo vadis EuropeQuo vadis Europa ?

L’Europa dal canto suo resta unita solo come moneta, interessata unicamente a salvare gli interessi dei paesi membri più forti, ma non a costituire una vera unità economica, politica e sociale: ovunque si sta facendo politica industriale, mediata dal governo e dal sindacato, il governo Obama ne è un esempio lampante, ma non in Europa.

L’attuale situazione produttiva europea, nell’ambito delle aziende manifatturiere è sinteticamente questa: Germania 27%, Francia 11%, Spagna e Inghilterra 11% e Italia (Nord) 6%.

La disparità con il sistema mondo è enorme. C’è di buono che la Cina riconosce ancora oggi il primato della moneta all’euro e non al dollaro, e implicitamente con questa preferenza mette in crisi e sottolinea di non accettare la supremazia, fino ad ora incontrastata, dell’egemonia economica americana. Fatto non da poco se si pensa al peso demografico cinese: 1/5 dell’intero mondo, 22.000 km di binari ferroviari completati entro il 2020, una camicia di buona qualità a un prezzo medio di 5 euro.

In Europa questa pressione-concorrenza con gli altri grandi paesi del mondo non solo sta bloccando la crescita economica, l’occupazione e il potere d’acquisto di uno stipendio medio, ma sta già mettendo in crisi pericolosamente anche i servizi-diritti sociali (scuola, sanità, tutele sindacali e pensioni).

L’Unione Europea ha forti responsabilità verso tutti i Paesi membri perché non ha rifiutato la globalizzazione, ma si è lasciata attrarre anch’essa dai miraggi finanziari e invece di promuovere una vera integrazione, ha promosso solo una politica monetaria a favore di interessi privati, condannando i Paesi membri più poveri a pagare il prezzo e il sostegno delle politiche economiche dei Paesi europei più ricchi.

L’Europa ha dei doveri e delle responsabilità che ormai non può più rifiutare, fosse anche, e non è poco, perché con la sua moneta rappresenta la seconda potenza economica del mondo. Ma come potenza è decisamente stravagante, non dispone neppure di una rappresentanza internazionale unica e siede ai tavoli del mondo con tutti i suoi Stati membri che detengono il potere di voto. Ogni Stato membro mantiene la possibilità di fare nel suo territorio tutto quello che vuole, così ad esempio ogni stato può stabilire dei dazi interni. L’Unione non si fa carico degli impegni presi dalle istituzioni pubbliche locali, né dei debiti che le stesse maturano in ogni singolo Paese. L’Unione non si impegna ad aiutare i Paesi in difficoltà, salvo fargli un prestito. Se però uno Stato membro va a gonfie vele e alza il livello di qualità della vita e dei servizi europei, impone di fatto un impegno economico maggiore agli Stati membri più poveri (un po’ come in una società per azioni quando qualcuno fa un rialzo di capitale: chi non riesce a stare al passo è fuori) che decidono sempre meno e che, per pagare, si indebitano sempre di più proprio con le “banche centrali europee”. Eppure senza Unione Europea, non si resta nel mondo e anche questo è un fatto. Forse davvero,  si dovranno stampare gli eurobond, riservandone una parte per il rilancio economico di tutta l’Unione ma, cosa non meno importante, bisognerà guardare all’Europa come veicolo di salvezza della democrazia. Questa, infatti, investita dalla fine del capitalismo, dagli interessi della nuova finanza, dai nuovi imperi protezionistici, sta scivolando in un pericoloso populismo che richiama echi aberranti neofascisti e antisemiti. I Paesi membri più ricchi hanno dunque una forte responsabilità nei confronti del mondo occidentale, che nei prossimi anni non si dovrà limitare a ricercare soluzioni alla crisi economica, ma che si dovrà seriamente impegnare nella difesa della democrazia.

di Adriana Paolini

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