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Una sera all’Hangar Bicocca

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Una sera all’Hangar Bicocca

Pubblicato il 29 gennaio 2013 by redazione

Un’uggiosa domenica di dicembre. In due, si decide di prendere un autobus: linea 87, fermata Via Chiese. E’ qui che si distende il vasto complesso espositivo dell’Hangar Bicocca, che occupa gli spazi dell’ex area industriale più importante d’Italia, tra Milano e Sesto San Giovanni. Dopo l’abbandono della zona da parte dei gruppi maggiori (Finanziaria Ernesto Breda, poi Ansaldo, Falk, Marelli, Pirelli), il progetto di riconversione avviato già dagli anni ’80 ha fatto sì che l’aspetto urbanistico prevalesse su quello industriale: numerosi capannoni e aree, un tempo occupate dalle fabbriche, hanno lasciato spazio ad abitazioni, centri commerciali, edifici dell’Università degli Studi di Milano Bicocca e uffici. All’interno di questa riqualificazione si colloca Hangar Bicocca, che dal 2004, ospita mostre ed eventi riguardanti i temi della ricerca e della sperimentazione.

sequenza#2sequenza#1Già dai primi passi nel vialetto che porta verso l’ingresso, si è catapultati in una realtà parallela, quasi come se si entrasse in un luogo di culto, una sorta di tempio dell’arte contemporanea. Ad accoglierci, “La Sequenza”, un’opera di Fausto Melotti, ingegnere, musicista, scrittore e soprattutto scultore. Ciò che colpisce è il fatto di non riuscire a coglierla in un unico sguardo: suddivisa in tre piani identici, lo spazio è definito attraverso l’alternanza di volumi pieni e vuoti; a ogni passo si aprono nuove vedute, nuove brecce attraverso quella che simbolicamente vuole rappresentare una scena teatrale. L’ingresso è per definizione racchiuso tra queste forme: preclude prima, svela poi.

Entriamo. La hall dalle pareti bianche, quasi come in un film di Kubrick, precede l’ingresso alle sale espositive, mentre sugli schermi laterali scorrono le interviste agli autori delle opere in allestimento.

sette_palazzi#2sette_palazzi#1I sette Palazzi Celesti

Dietro un pesante sipario nero, s’innalzano “I Sette Palazzi Celesti”. L’autore è Anselm Kiefer, che ha sempre posto al centro della propria speculazione artistica un interrogativo importante: quale deve essere il ruolo di un artista tedesco dopo l’Olocausto e come può relazionarsi con la recente storia della propria nazione? Kiefer ha cercato di dare una risposta attraverso “l’indagine degli elementi religiosi, filosofici e simbolici che sono all’origine degli eventi, investigandone le radici nascoste e invisibili”, si legge sui libretti descrittivi a disposizione per i visitatori. Quest’opera costituisce forse l’apice del percorso compiuto dall’artista e vuole rappresentare le macerie dell’Occidente dopo la Seconda Guerra Mondiale. Le sette torri sono realizzate in cemento e hanno la forma di container industriali. Ognuna di esse ha un significato fortemente simbolico, con figure tratte ancora una volta dalla religiosità (in particolar modo ebraica); la stessa idea alla base dell’opera, “I Sette Palazzi Celesti” è un rimando alle grandi costruzioni religiose dell’antichità, dalle piramidi alle ziggurat.

Sefiroth, che racchiude in sé le espressioni o “mezzi” di Dio; Melancholia, con riferimento a Saturno, pianeta della malinconia, sotto la cui stella si riteneva nascessero gli artisti; Ararat, il monte a cui approdò l’Arca di Noè; Linee di campo magnetico, costituita da una lastra di piombo che la percorre dall’alto al basso, insieme a una bobina, simbolo della continua sopraffazione dell’arte sull’arte, così come quella dell’uomo sull’uomo; JW&WH, che unite formano il sacro e impronunciabile nome di Jahweh; Torre dei quadri cadenti, rivestita da cornici di ferro senza immagini.

Eccoli, “I Sette Palazzi Celesti”, si parano davanti a noi. Un’unica sensazione: sindrome di Stendhal.

time_foam#2time_foam#1Altre due istallazioni ci attendono. La prima è dell’architetto argentino Tomas Saraceno: “On Space Time Foam”. Le tematiche a cui Saraceno si dedica sono svariate, prima fra tutte la ricerca di modalità di vita sostenibile per l’uomo, che lo pongano in un rapporto diverso con la natura e con gli altri uomini; questo si traduce nella volontà di creare ambienti che rispecchino tali concetti grazie all’uso delle tecnologie più sofisticate. Non solo arte per l’arte, ma arte per la vita. L’opera in mostra all’Hangar è un esempio di connubio tra queste teorie e quelle legate alla meccanica quantistica, al concetto di spazio-tempo, immaginato come una membrana formata da tre strati di un materiale aerostatico, nel quale è possibile fluttuare. Una volta entrati si diventa parte integrante dell’opera, sono i movimenti, le posizioni e le espressioni delle persone a determinare ogni volta una configurazione nuova, in un continuo divenire mutevole. E poi ci siamo noi, che dal basso ammiriamo come tutto quel fluttuare sembra sfidare le leggi della gravità.

unidisplay#2unidisplay#1Ma le sorprese non sono ancora finite. Prima di uscire c’è l’ultima istallazione: “Unidisplay” di Carsten Nicolai. Le immagini in bianco e nero, proiettate su una parete prolungata all’infinito grazie a due specchi paralleli posti ai lati, scorrono incessantemente sul sottofondo di suoni ricavati dagli stessi segnali elettrici usati per crearle. Ci sediamo e ci troviamo immersi in sequenze, motivi e forme grafiche che si susseguono incessantemente. Lo sguardo e la mente restano come ipnotizzati. L’orecchio si tende non tanto ai suoni, ma alle frequenze. L’artista raggiunge il suo scopo: proiettare l’osservatore in un mondo astratto, extrasensoriale, lontano dal tram-tram che là fuori domina, ma che tutto d’un tratto sembra non esistere più, per pochi intensissimi minuti.

di Michele Mione

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