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La lunga evoluzione dei Droni, i famigerati UAV della storia

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La lunga evoluzione dei Droni, i famigerati UAV della storia

Pubblicato il 20 novembre 2013 by redazione

Sin dalle origini un uso  prevalente militare e strategico

La storia dei velivoli a controllo remoto (in inglese Remote Piloted Vehicles, RPV o conosciuti anche come UAV, Unmanned Arieal Vehicles, velivoli senza pilota) è vecchia almeno quanto quella del volo umano: da quando sono stati realizzati i primi oggetti volanti più pesanti dell’aria, quasi contemporaneamente si è iniziato a pensare a come controllarli a distanza. E come spesso accade nella storia dell’uomo, il loro primo impiego è stato militare. Il primato nell’utilizzo di mezzi aerei controllati spetta all’esercito Austro-Ungarico che impiegò alcuni  palloni aerostatici lanciati dalla nave Vulcano per colpire Venezia durante l’assedio del 1849, senza esporsi al fuoco dei cannoni della difesa. Nel momento in cui il vento soffiava verso la città, i palloni pieni di aria calda venivano liberati. Ciascun pallone trasportava una carica esplosiva e era controllato attraverso un sistema di funi. Raggiunta la verticale, attraverso un lungo filo di rame collegato a batterie galvaniche incendiavano il pallone che cadeva, o per meglio dire, sarebbe dovuto cadere con il suo ordigno sui veneziani: il primo uso di veicoli remoti e di bombardamento terroristico dall’aria. Ma i venti capricciosi delle lagune riportarono sulle truppe austriache buona parte dei palloni causando quasi una tragedia fra gli austriaci.

Immagine 1

Disegno tecnico dell’Aerial Target, costruito nella Royal Aircraft Factory.

I primi esempi seri di studio di veicoli volanti teleguidati nacquero però durante la prima guerra mondiale, con l’impiego diretto dei primi aerei e della radio, invenzioni di recentissima realizzazione. Il professor Archibald Low, eclettico ingegnere arruolato come capitano nei Royal Flying Corps, con una squadra di 30 tecnici mise a punto il progetto “Aerial Target” (AT), bersaglio aereo: il primo velivolo a motore con testata bellica e sistema di pilotaggio attuato via impulsi radio, in realtà portava questo nome per sviare le attenzioni dello spionaggio tedesco. Il 21 marzo e il  6 luglio 1917 dimostrò di fronte a molti alti ufficiali alleati la validità delle sue teorie, nonostante l’arretratezza della tecnologia dell’epoca, portando in volo un piccolo monoplano, con pattini al posto del carrello,  lanciato da una catapulta ad aria compressa. Entrambi i voli si risolsero con la caduta dei velivoli per guai vari, ma il concetto era dimostrato. La fine del conflitto fece anche venire meno l’interesse per  il progetto.

1917 circa, una rara fotografia di un prototipo dell’Aerial Target in un hangar del Royal Fliyng Corps.

1917 circa, una rara fotografia di un prototipo dell’Aerial Target in un hangar del Royal Fliyng Corps.

Ma orecchie attente oltremare avevano colto il messaggio. Negli Stati Uniti Elmer Sperry, fondatore della Sperry Giroscope Company, già nei primi anni  del secolo, dopo il volo di Wilbur e Orville Wright sulla spiaggia di Kitty Hawk aveva progettato sistemi di giroscopi  per stabilizzare il volo , altimetri e attuatori meccanici comandati via radio da terra, per realizzare siluri e bombe volanti da proporre all’U.S. Army. Fu più interessata la marina americana, preoccupata dalla minaccia dei primi U-Boot tedeschi. Assieme alla indirti Curtiss disegnò la Curtiss-Sperry Flying Bomb. Nel 1917 gli Stati Uniti entrarono nel conflitto e l’interesse della marina crebbe. Dopo una serie di lanci falliti per problemi aerodinamici, gli esperimenti continuarono su 6 idrovolanti Curtiss N9 forniti dalla marina. Il 17 ottobre 1917 un N9 dotato di sistemi di controllo Sperry venne lanciato da una catapulta disegnata dall’ingegnere Carl Norden (padre del primo calcolatore di puntamento e sgancio bombe adottato su tutti i bombardieri americani durante la seconda guerra mondiale).

Ripreso su una catapulta a rotaia, uno velivolo sperimentale radiocomandato “Sperry Flying Torpedo” della US navy.

Ripreso su una catapulta a rotaia, uno velivolo sperimentale radiocomandato “Sperry Flying Torpedo” della US navy.

Era previsto un volo di 13 chilometri ed un ammaraggio, ma dopo alcune evoluzioni l’aereo uscì dal raggio d’azione dei segnali radio, si allontanò dalla Bayshore Air Station e si perse nell’Atlantico. L’armistizio dell’11 novembre 1918 pose termine ai finanziamenti. La marina acquisì il progetto, che continuò a fasi alterne, fino all’abbandono negli anni 20. Solo alla fine degli anni 30, l’avvicinarsi del secondo conflitto mondiale e i progressi fatti da altre nazioni riaprirono le ricerche americane nel campo degli aerei teleguidati.

Lo sviluppo delle armi teleguidate

In Germania l’apparato militare continuò gli studi strategici sulle esperienze della prima guerra mondiale e promosse la ricerca scientifica sui sistemi di teleguida prima in incognito, per le ristrettezze economiche e le imposizioni del trattato di Versailles, poi apertamente con il riarmo Hitleriano. I tedeschi si avviarono sul filone delle telearmi lanciabili da terra, da navi, sganciabili da bombardieri: quindi svilupparono  per primi il filone dei “droni da attacco”. Ad esempio,  la Ruhrstal 1400X, conosciuta come Fritz X : si trattava di una bomba perforante con superfici telecomandate via impulsi radio a onde ultracorte costruita attorno ad una bomba convenzionale SC250, con capacità accresciuta  a 1.400 chili. Il sistema di comando sull’aereo madre consisteva di una impugnatura a cloche collegata a dei sensori di direzione: praticamente l’antenato del joystick moderno. La sua vittima più celebre fu la corazzata Roma della Regia Marina italiana, affondata tra il golfo dell’Asinara e le bocche di Bonifacio il 9 settembre 1943, mentre navigava assieme alla IX Divisione navale verso Malta per consegnarsi agli alleati, secondo le clausole dell’armistizio di Cassibile. Due telearmi lanciate da bimotori Dornier 217K che volavano a quota ben superiore al raggio di azione delle batterie antiaeree, perforarono i ponti corazzati, una centrò la santabarbara con precisione millimetrica causando l’esplosione della nave. Perirono 1.352 marinai. Era stata provata l’efficacia del radio controllo su oggetti capaci di una qualche portanza, quindi velivoli veri e propri. In realtà sia per limitazioni strategiche nell’uso volute da Hitler stesso, sia per deficienze nella tecnologia, le vittime furono poche lungo la guerra e l’ultimo utilizzo della Frtiz X fu contro i ponti sul Reno nel 1945 per impedirne la cattura da parte degli alleati.

Un fotogramma di un raro filmato della seconda guerra mondiale immortala il lancio di prova di un’arma teleguidata HS 293 da un bombardiere Heinkel 111 H6. Ancora pochi istanti e l’accensione del razzo propulsore renderà il velivolo comodamente controllabile dall’operatore d’arma sull’aereo madre.

Un fotogramma di un raro filmato della seconda guerra mondiale immortala il lancio di prova di un’arma teleguidata HS 293 da un bombardiere Heinkel 111 H6. Ancora pochi istanti e l’accensione del razzo propulsore renderà il velivolo comodamente controllabile dall’operatore d’arma sull’aereo madre.

Ancora più vicino all’idea che abbiamo oggi di velivolo radiocomandato fu la Henschel 293/294, dotata di un motore a razzo Walter 705, era radiocomandata dall’aereo lanciatore o da altro velivolo accompagnatore. Il raggio di azione era di ben 11 chilometri, fu l’antesignana dei missili guidati di oggi. Avrebbe dovuto equipaggiare estesamente i reparti antinave della Luftwaffe, ma la sua efficacia trovò grandi limiti nella tecnologia di radio controllo e nelle tattiche di combattimento. Interessò soprattutto gli alleati, che la studiarono e la sperimentarono a fondo dopo la fine della guerra: gli ingegneri tedeschi infatti avevano tentato lo sviluppo di versioni con guida acustica o addirittura televisiva. La sua struttura era simile alle V1, una delle “armi della vendetta” di Hitler e antenata dei missili da crociera attuali, i famosi Cruise, capace di lunghe navigazioni, fino a colpire l’obbiettivo a cui è stata indirizzata. Anche della Fieseler Fi 103, come tecnicamente si chiamava la V1, era stata ipotizzata una versione radioguidabile, ma i limiti delle possibilità tecnologiche del tempo ne resero obbligato lo sviluppo come arma autopilotata da un sistema di giroscopi e reostati autonomi. Nel pulsoreattore, una via di mezzo fra il turboreattore ed il razzo, la miscela carburante – ossigeno arriva nella camera di combustione non arriva in continuità a singoli getti sotto comando di valvole. Ne deriva che il motore produce un rumore che ricorda il ronzio cupo di un calabrone. Da cui il nomignolo drone, che in inglese indica l’esemplare maschio dell’ape. In realtà, altre fonti indicano l’origine di tale nomignolo nel rumore lamentoso dei piccoli motori a scoppio, impiegati  sui primi modelli di inizio secolo. Comunque, furono gli americani, impressionati dalle ricerche tedesche, a realizzare il progetto più interessante degli anni ‘40. La Swod Mk 9 Bat (pipistrello) fu impiegata alla fine del conflitto nel Pacifico. Di fatto era un piccolo aliante che veniva sganciato da un aereo madre, la cui guida era, in gergo tecnico, semiattiva. Ovvero per parte della discesa verso il bersaglio era controllata da un operatore sull’aereo madre, fino a che un piccolo radar nel muso del velivolo, vera originalità del progetto, agganciava il bersaglio e guidava l’arma fino all’impatto. Utilizzato fin ai primi anni 50, non fu particolarmente efficiente perché il radar veniva spesso ingannato dal profilo del suolo, ma fu utilissima per affinare I sistemi di doppio controllo remoto.

Un pattugliatore Consolidated PB4Y-2 Privateer della U.S. Navy in atterraggio su una base nel Pacifico mostra due velivoli da attacco teleguidati Bat appesi sotto le ali.

Un pattugliatore Consolidated PB4Y-2 Privateer della U.S. Navy in atterraggio su una base nel Pacifico mostra due velivoli da attacco teleguidati Bat appesi sotto le ali.

Bersagli per l’artiglieria

In Inghilterra dopo il primo conflitto mondiale si preferì accantonare l’esperienza sui velivoli teleguidati da attacco (o telearmi) per tornare a concentrarsi sui velivoli telecomandati per l’addestramento al tiro di artiglieri e mitraglieri, attività fondamentale ma particolarmente rischiosa: anche se I bersagli venivano trainati da una certa distanza e gli aerei erano dipinti con livree molto visibili, spesso si verificavano incidenti gravi. Il progresso nella riduzione delle dimensioni dei circuiti nei radio controlli permisero di sviluppare aerei totalmente controllati da terra, con ingombri contenuti e sistemi abbastanza facilmente trasportabili. In particolare, venne estesamente utilizzata una versione del biplano da addestramento De Havilland Tiger Moth, chiamata DH 28 Queen Bee (ape regina), acquistato da Royal Air Force e Royal Navy in 380 esemplari fin quasi all’inizio della seconda guerra mondiale. La manovrabilità dei velivoli e la relativa sicurezza dei sistemi radio permetteva un addestramento realistico dei militari, e gli aerei finalmente decollavano ed atterravano regolarmente in modalità telecomandata.

Inghilterra, metà degli anni ’30. Militari della Royal Air Force guidano un bersaglio volante “Queen Bee” a pochi metri dal suolo.

Inghilterra, metà degli anni ’30. Militari della Royal Air Force guidano un bersaglio volante “Queen Bee” a pochi metri dal suolo.

Negli Stati Uniti, lungo gli anni ’20 e ’30 la fine del primo conflitto mondiale e la grande crisi economica del 1929 di fatto limitarono l’interesse delle forze armate per I velivoli radiocomandati. A ravvivare l’interesse per queste tecnologie fu senza dubbio l’opera di Reginald Denny, anche lui inglese e reduce dei Royal Flying Corps della prima guerra mondiale. Emigrato negli Stati Uniti per cercar fortuna come attore, la trovò senza dubbio nella sua vecchia passione per i sistemi di controllo radio a distanza. Dapprima aprì un negozio dedicato ai primi appassionati di aeromodellismo dinamico, poi fondò la Radioplane Company, che proponeva bersagli guidati per le forze armate. I suoi sforzi si concretizzarono negli anni immediatamente prima del secondo conflitto mondiale, quando l’America si stava preparando a una guerra ormai  da molti considerata inevitabile, nonostante l’isolazionismo diffuso nella pubblica opinione. Il governo americano aveva deciso di dividere per sigle I velivoli a guida remota: posto che la lettera Q sarebbe stata presente nel codice di qualsiasi aereo non pilotato direttamente dall’uomo, OQ sarebbero stati i velivoli teleguidati puri, utilizzati per l’addestramento al tiro antiaereo o per gli operatori radar, come il piccolo aereo OQ 2, che Reginald Denny costruì per le forze armate americane in 15.000 esemplari e che di fatto era un modello in scala di un normale monoplano leggero da turismo. PQ avrebbe indicato velivoli che era possibile pilotare sia in maniera convenzionale, sia a distanza con radioriceventi e attuatori meccanici. La sigla AQ sarebbe stata riservata ai droni da attacco, come lo Swod Mk 9 Bat che abbiamo visto prima. Una definizione di ruoli e, di conseguenza, di linee di sviluppo delle macchine che ha sostanzialmente retto fino ad oggi nel panorama internazionale. Dopo la seconda guerra mondiale, il vertiginoso progresso nell’elettronica e nell’ingegneria aeronautica ha permesso di creare droni in questo settore appartenenti a tutte le categorie, da quelli più simili a un modellino di aereo, ai veri e propri aviogetti propulsi da motori a reazione e capaci di prestazioni simili a un jet da combattimento. Diecine di modelli e centinaia di sottoversioni, con costi di acquisizione e gestione sempre più convenienti, che si sono succeduti in servizio nelle forze armate di moltissimi Paesi.

La guerra fredda e il ruolo “Sigint”, fino ai ruoli di combattimento attivo odierni.

Gli anni della guerra fredda videro l’ampliamento dell’uso dei droni anche nella ricerca aeronautica e nella sperimentazione di volo. Numerosi degli X plane statunitensi, ad esempio, sviluppati  assieme alla NASA per la ricerca sul volo ad altissima velocità e quota sono telecomandati. Tuttavia è l’abbattimento il 1 giugno 1960 di un aereo spia  Lockheed U2 e la cattura del pilota Gary Powers, ex militare dell’USAF arruolato nella CIA, a segnare un passaggio fondamentale. Il blocco sovietico aveva sistemi radar e telearmi (il missile antiaereo radar guidato SA2 Guideline) di efficienza impensabile e tutto rendeva prevedibile che ne stesse sviluppando parecchi altri. Sistemi d’arma tanto efficienti da rendere insicuro l’uso dei velivoli convenzionali per ricognizione strategica e….spionaggio vero e proprio. Lo sviluppo di un drone con queste capacità si rese al quel punto necessario: del resto anche dall’altra parte della cortina di ferro stanno facendo le stesse esperienze e le stesse riflessioni. La guerra del Vietnam e l’impegno nel sud est asiatico servirono come insostituibile campo di prova per l’ampliamento dei ruoli affidati ai velivoli senza pilota. L’industria statunitense Teledyne Ryan, specializzata nella produzione di drone da ricerca o bersagli volanti, sviluppò dall’AQM 34 Firebee (in inglese ape di fuoco…di nuovo gli insetti protagonisti) tutta una famiglia di velivoli lanciabili da terra o sganciabili dalle ali di un aereo madre, di solito un aereo da trasporto Lockheed DC 130 Hercules, con compiti di ricognizione strategica o di guerra elettronica (Signal Intelligence): questi velivoli difatti erano riempiti di apparecchiature per analizzare e disturbare le emissioni radio e radar del nemico, oppure per effettuare ricognizioni fotografiche. Il primo ciclo di queste missioni delicate fu svolto sulla Cina nel 1964, con ottimi risultati, ma anche con la perdita per abbattimento o avaria di numerosi esemplari. Così vennero sviluppate versioni via via più performanti. L’impegno americano nel conflitto del Vietnam vide un esteso uso degli UAV sul territorio Nordvietnamita e sul quello contiguo cinese. Tra il 1965 ed il 1973 USAF e US Navy svolsero oltre 34.000 ore di volo con i loro Ryan Firebee, portati a uno stadio sempre più avanzato e in grado di compiere missioni con le stesse prestazioni di un moderno jet da combattimento, anzi addirittura superiori. Alla fine del conflitto  l’AQM 34 e il velivolo trisonico Lockheed SR 71 erano gli unici aerei americani a poter violare lo spazio aereo comunista praticamente indisturbati.

In una foto dei primi anni 70, un Teledyne Ryan AQM 34 Firebee viene sganciato dall’ala di un DC 130 Hercules per iniziare un’altra missione di ricognizione profonda sul Vietnam del Nord.

In una foto dei primi anni 70, un Teledyne Ryan AQM 34 Firebee viene sganciato dall’ala di un DC 130 Hercules per iniziare un’altra missione di ricognizione profonda sul Vietnam del Nord.

Una sala di pilotaggio per RPV in una base militare americana. Da qui si possono condurre azioni di guerra potenzialmente su  tutta la superficie terrestre, senza alcun pericolo per i piloti.

Una sala di pilotaggio per RPV in una base militare americana. Da qui si possono condurre azioni di guerra potenzialmente su tutta la superficie terrestre, senza alcun pericolo per i piloti.

Le pesantissime perdite subite dalle forze aeree statunitensi, in termini di aerei abbattuti e di uomini uccisi o catturati in quasi dieci anni di combattimenti, raffrontati con le prestazioni sempre più spinte dei drone e i dati di perdite in continua diminuzione fecero sorgere spontanea a Washington la considerazione di affidare ai velivoli senza pilota anche una parte delle missioni di combattimento, dotandoli di armamenti e sistemi di puntamento adatti. Se contiamo che proprio durante quel conflitto apparvero per la prima volta le armi stand-off ad alta precisione, quali le Paveway a guida laser e le GBU 15 a guida televisiva, l’idea ha portato fino alle generazioni attuali di drone, impegnati estesamente nei conflitti cosiddetti “a bassa intensità”, contro un bersaglio sfuggente come il terrorismo internazionale: dopo l’11 settembre 2001 fu chiaro che gli scenari di un conflitto armato, nell’ambito della globalizzazione, erano del tutto cambiati. I drone odierni, con tutta la loro dotazione di apparati elettronici, la loro flessibilità di uso e la loro economicità di gestione, costituiscono sistemi d’arma competitivi contro le attività di guerriglia, come sperimentato in Iraq e Afghanistan. Per la prima volta, un pilota, seduto in una stanza a migliaia di chilometri dal velivolo che sta pilotando, con a sua disposizione le stesse avanzate strumentazioni di controllo (anche satellitare) che potrebbe avere su un jet da guerra e le armi di precisione più letali degli arsenali moderni, può colpire praticamente chiunque e dovunque sul globo terrestre. Un drone come il Global Hawk può volare ininterrottamente per più di 30 ore, il che addirittura permette di avvicendare nella missione più piloti che potranno godere così di turni di riposo. L’immensa capacità bellica, con un minimo carico, raggiunta da questi aerei però pone anche questioni di tipo morale e relative anche alle leggi di guerra internazionali. Ad esempio, un uomo che vede l’azione a cui sta partecipando, ma senza esserne coinvolto fisicamente, potrebbe esser tentato ad eccedere nell’uso del potere di distruzione che ha a disposizione? La sua posizione psicologica può portarlo spersonalizzare il suo ruolo, come se avesse a che fare semplicemente con un qualche tipo di gioco elettronico. Ed inoltre, il fatto che questi velivoli siano gestiti talvolta direttamente da agenzie governative non militari come la CIA (che può ordinarne l’impiego in azioni di precisione per l’uccisione di capi terroristici) come si pone circa la responsabilità nei frequenti “danni collaterali”, cioè la morte o il ferimento accidentale di persone estranee coinvolte in queste operazioni di controguerriglia? O nel caso vengano adoperati da governi senza troppi scrupoli? Il drone può essere il mezzo perfetto per compiere azioni al di fuori delle leggi internazionali minimizzando la possibilità di essere scoperti perché spesso si agisce in zone remote di un territorio. Molte organizzazioni umanitarie stanno denunciando le migliaia di vittime che questo tipo di operazioni militari stanno provocando. Ma non c’è solo la guerra in Afghanistan: lo stato di Israele è diventato uno dei primi produttori al mondo di drone ad uso militare, che utilizza esso stesso nelle azioni contro le milizie armate che lo tengono sotto assedio. E i drone oramai non sono più solo aerei: esistono ormai veicoli a controllo remoto anche terrestri e subacquei, costituiscono uno dei campi maggiormente in espansione per le aziende che producono mezzi in questo campo.

di Davide Migliore

 

Linkografia:

http://it.wikipedia.org/wiki/Aeromobile_a_pilotaggio_remoto

http://en.wikipedia.org/wiki/History_of_unmanned_aerial_vehicles

Pagine Wikipedia in italiano e inglese dedicate ai velivoli a pilotaggio remoto o automatico.

http://en.wikipedia.org/wiki/Archibald_Low

Archibald Montogomery Low, pioniere del telecontrollo dei velivoli.

http://temi.repubblica.it/limes/breve-storia-dei-droni/48678

Articolo di Alfredo Roma sulla rivista Limes, edizione online, 9.07.2013.

https://sites.google.com/site/uavuni/1910-s

Sito dedicato al mondo degli UAV-RPV.

http://flyingmachines.ru

Sito con archivio fotografico degli albori della rivoluzione aeronautica.

http://www.ausairpower.net/WW2-PGMs.html

http://www.ctie.monash.edu.au/hargrave/rpav_germany_hr.html

Siti tecnici con storia dei droni da attacco e delle “smart bomb”.

http://laguerradeidroni.it/

http://www.imerica.it/

Giovanni Colloni, Nicolas Lozito, Patricia Ventimiglia, Federico Petroni, sito ed e-book (gratuito) curati da quattro giovani ricercatori italiani.

http://ngm.nationalgeographic.com/2013/03/unmanned-flight/horgan-text

“Unmanned flight”, the National Geographic Society, march 2013.

http://gnosis.aisi.gov.it/Gnosis/Rivista20.nsf/servnavig/23

“Con  I droni ed iI soldato digitale”, di Guido Olimpio, Gnosis Online, rivista italiana di intelligence, n. 3/2009.

http://www.rivistastudio.com/editoriali/politica-societa/guerra-playstation-droni/

“Ma i droni sognano civili elettrici’: la sindrome da playstation tra i piloti di velivoli a controllo remoto, articolo di Pietro Minto su Studio 9.

Bibliografia:

“Mach 1 – enciclopedia dell’aeronautica”, Volume 3°, p. 270 – 274 “aerei senza pilota”

EDIPEM Novara 1978, Copyright of Orbish Publishing Ltd, London.

Clashes, Air Combat Over North Vietnam 1965-1972.

Michael Marshall III, Naval Institute Press,1997. ISBN 978-1-59114-519-6

History of Radio-Controlled Aircraft and Guided Missiles

Delmer S. Fahrney (R. Admiral retired, U.S. Navy).

Robot Warriors. The Top Secret History of the Pilotless Plane

Hugh McDaid, Oliver David, Orion Media, 1997.

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Shanghai: una tra le megalopoli più popolate e inquinate al mondo

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Shanghai: una tra le megalopoli più popolate e inquinate al mondo

Pubblicato il 23 gennaio 2013 by redazione

vecchia Shanghai

Shangai, città vecchia.

La città più popolosa al mondo, secondo un censimento che risale al 2009, è proprio Shanghai, in Cina, con ben 20.030.048 abitanti. Per riuscire meglio ad immaginarsi di che numeri stiamo parlando è sufficiente considerare che la densità della popolazione per kilometro quadrato è pari a 3.632 persone. Sono numeri che hanno dell’incredibile, sicuramente, ma sorge quindi spontanea una domanda: una città che è riuscita negli ultimi anni ad ottenere una crescita economica, finanziaria, commerciale e demografica così notevole e che è stata in grado di diventare uno dei più importanti porti commerciali al mondo, come sta vivendo il problema inquinamento?

Secondo alcuni studi recentemente effettuati, Shanghai, oltre ad essere la città più popolata al mondo, è anche la città più inquinata della Cina. Probabilmente l’inquinamento in questo paese non costituisce più una fonte di meraviglia per nessuno, è fin troppo risaputo di come qui l’aria sia sempre più irrespirabile. Comunque c’è chi si muove per far fronte a questo problema come c’è purtroppo invece chi lo asseconda per favorire i propri interessi o, peggio ancora, per totale disinteresse. A Pechino sono state adottate molte misure, con alcuni nuovi progetti davvero imponenti, al fine di migliorare l’ambiente e salvaguardare noi stessi e la Terra, anche se tutt’ora la situazione resta critica. Ma che misure sta adottando Shanghai? E qual è la situazione attuale?

28 Luglio a Qidong

28 Luglio a Qidong.

Una dimostrazione anti-inquinamento

28 Luglio a Qidong, non molto lontano da Shanghai, gli attivisti hanno incentivato la popolazione di Shanghai a protestare. La polizia arresta le persone e le mette sotto sorveglianza.

La polizia di Shanghai si prepara a far fronte alle proteste in massa contro l’attuale inquinamento delle acque dopo la divulgazione su internet di un invito a partecipare alla dimostrazione del 19 agosto 2012. In base a quanto affermato in diverse interviste e resoconti online, gli attivisti sono stati arrestati, le discussioni online sono state poste sotto controllo e i presunti organizzatori della protesta sono stati messi sotto stretta sorveglianza.

L’argomento principale della manifestazione verteva sull’inquinamento del bacino Qingcaosha, vicino a Shanghai, che, come è stato sostenuto dagli attivisti, danneggiava gravemente anche la grande città e i suoi abitanti.

Il messaggio affermava “I cittadini si stanno preparando a una marcia di massa per dimostrare contro l’inquinamento” e che “Per evitare un potenziale scontro, chiediamo ai cittadini di mantenere la manifestazione pacifica, razionale, e non violenta al fine di raggiungere il nostro obiettivo”.

A fine Luglio i manifestanti di Qidong hanno sfondato un blocco di polizia e hanno fatto irruzione in un edificio governativo prendendo il sindaco e strappandogli la camicia di dosso. In quel caso la protesta era contro la prevista costruzione di un oleodotto per una fabbrica di carta giapponese che avrebbe aumentato ulteriormente il tasso di inquinamento.

fiume Yangtze

Fiume Yangtze.

Successivamente sono emersi dati secondo cui anche senza la realizzazione di questo progetto, il deflusso dei rifiuti sarebbe confluito nel fiume Yangtze e avrebbe contaminato ugualmente la fornitura d’acqua di Qingcaosha.

La polizia sospetta che gli organizzatori siano due noti attivisti pro-democrazia residenti a Shanghai: WangJianhua, già arrestato e incarcerato due anni, per aver preso parte alla protesta di Piazza Tiananmen del 1989, e Yang Qinheng, altro noto attivista. Come affermato da Wang i loro computer sono stati subito sequestrati e loro stessi sono stati interrogati, ma entrambi non hanno fornito informazioni rilevanti sul loro ruolo in questa protesta.

Wang ha osservato comunque che probabilmente la preoccupazione della polizia è quella che la protesta a fini ambientali possa dilagare ed essere sfruttata anche per altri scopi politici.

Uno specchietto introduttivo, che rende bene l’idea di quando sia precaria la situazione sul fronte inquinamento. Ma questo non è che l’inizio. I problemi causati dall’inquinamento, e in particolari quelli di cui soffre Shanghai, non si limitano a semplici proteste. I danni che può causare sono ben più gravi.

Shangai bici2012: Cina, inquinamento da record e migliaia di morti

Migliaia di morti, danni ambientali ed economici. La causa è il dissesto ecologico cinese. A Pechino si stanno già muovendo verso una maggiore trasparenza e verso un futuro più green.

Uno studio pubblicato dalla Scuola di Sanità Pubblica dell’Università di Pechino e da Greenpeace riferisce che a Pechino, a Shanghai, a Guangzhou e a Xìan le morti premature del 2012 a causa dei livelli insostenibili di particolato nell’aria sarebbero 8.572. Inoltre le perdite economiche consistono in circa 6,8 miliardi yuan (oltre 700 milioni di euro). Sempre nello stesso studio si comunica che se i livelli di concentrazione del particolato scendessero ai livelli di guardia indicati dall’Organizzazione Mondiale della sanità le morti si ridurrebbero dell’80%.

Gli autori hanno inoltre comunicato che la percentuale maggiore di decessi è stata registrata proprio a Shanghai, dove la concentrazione di particelle dannose non è la più alta tra le città menzionate, ma il numero di morti maggiore è dovuto alla quantità di popolazione concentrata in questa città.

Un ultimo aspetto interessante di questo studio è quello secondo cui gli abitanti del nord e del sud del paese sono diversamente sensibili all’inquinamento e che il particolato in luoghi diversi è costituito da componenti diverse e quindi con differenti effetti.

Lo smog visto dall’alto

«Mi trovo a Shanghai, e in effetti in questa città non si vede mai il sole. Né d’estate né d’inverno: c’è una cappa costante. Leggendo i giornali cittadini, mi rincuora sapere però che stanno iniziando delle politiche che limiteranno l’inquinamento. Hanno parecchia strada da fare, ma hanno capacità, risorse e volontà per farlo». Ecco il commento fornito al Corriere della Sera da un italiano in viaggio in Cina.

Le inchieste e gli articoli riguardanti l’inquinamento in Cina ormai si sprecano e c’è addirittura chi insinua che si potrebbe trattare di una campagna per minare l’immagine di Pechino nel mondo. Quale che sia il motivo che spinge a trattare di questo argomento resta un dato di fatto, anche dalle immagini satellitari disponibili in rete e messe a disposizione dalla Nasa è evidente che la visuale delle terre sottostanti è fortemente distorta se non impossibile da identificare. Sono foto che ci mostrano chiaramente come la situazione sia giunta davvero al limite –si parla di molti voli cancellati o ritardati presso l’aeroporto di Pechino a causa della densità dello smog che ha ridotto drasticamente la visibilità- e che ci dovrebbe spingere tutti a fare qualcosa per aiutare a ripristinare l’equilibrio naturale.

Shanghai_SkyscapeDopo Expo, torna l’incubo?

A quanto pare è proprio quello che è successo. Nel corso dell’Expo conclusosi nell’Ottobre 2010, esposizioni da record a Shanghai, con un afflusso di 70 milioni di persone, lo smog era stato tenuto lontano dalla città così che i visitatori potessero ammirare il meraviglioso connubio tra grande sviluppo e ambiente. Niente di più falso! Dopo neanche un mese dalla fine della fiera la città ha ripreso tutti i suoi ritmi abituali ricadendo nuovamente nella nube di smog che l’ha sempre circondata. I dati forniti dal quotidiano statale China Daily riferiscono che già a Novembre l’inquinamento era più che triplicato rispetto ai valori calcolati nel corso della fiera e che proprio a Novembre il tasso di gas nocivi è stato così alto da superare tutti i picchi dei cinque anni precedenti.

Secondo il rapporto del centro di monitoraggio per l’ambiente di Shanghai, nel 2010, la densità giornaliera di PM2,5 oscillava tra i 0.007 mg e i 0,245mg, quando invece il limite massimo prestabilito era di 0,075mg. Questo nonostante l’amministrazione della municipalità di Shanghai dichiarava in occasione dell’Expo che la qualità dell’aria nella capitale economica cinese era una delle migliori al mondo.

«Dopo l’Expo, i livelli di inquinamento sono aumentati in maniera fenomenale. La cosa potrebbe davvero essere una forte limitazione ai progetti di Shanghai di divinire un hub finanziario globale e attrarre affari», afferma un consulente.

Ma l’agenzia di protezione dell’ambiente di Shanghai anziché agire con misure decise incolpa il freddo del nord e i mesi di novembre e dicembre che sono sempre quelli con maggiori problemi di inquinamento.

Nel frattempo, a Shanghai sembra non essere cambiato niente. Come se i benefici dell’Expo fossero stati soltanto un sogno, i cittadini sono costretti nuovamente a subire i danni e i rischi dell’eccessivo inquinamento.

Shanghai: Nuovo sistema di misurazione dell’inquinamento dell’aria come da norme internazionali

16 Novembre- Shanghai e altre 24 città nella Cina orientale hanno adottato un nuovo sistema di misurazione dell’inquinamento dell’aria  conforme alle nuove norme internazionali.

Finora infatti, in Cina,veniva utilizzato lo standard del PM10, ovvero il particolato formato da particelle di diametro inferiore a 10 micron. In seguito alle diverse polemiche sorte sul vecchio sistema di misurazione in cui i dati forniti spesso non concordavano con le stesse misurazioni effettuate dagli americani, è stato definitivamente scelto di adottare il sistema standard. Ora infatti “I nuovi criteri di valutazione prendono in considerazione anche i PM 2,5, il monossido di carbonio e l’ozono” spiega l’ingegnere capo del Centro di monitoraggio ambientale di Shanghai. Il nuovo standard PM2,5 verrà introdotto ufficialmente in tutte le 24 città entro il prossimo quinquennio. Speriamo che questa decisione sia un primo spiraglio di apertura verso le esigenze del popolo e del pianeta, così che nel prossimo futuro, o addirittura fin da ora, si possano avviare dei nuovi progetti, che siano decisivi e volti a risolvere il problema dell’alto tasso di inquinamento presente nell’aria.

Popolazione e inquinamento: due parenti molto stretti

Fortunatamente secondo alcuni esperti del centro di Shanghai la situazione, nel prossimo futuro, dovrebbe tendere a migliorare. Grazie anche ad una serie di misure che vanno dal monitoraggio continuo dell’ambiente, al controllo delle emissioni inquinanti provenienti dalle autovetture e dalle fabbriche, e in particolar modo con l’utilizzo sempre crescente delle energie pulite si può dire che c’è ancora speranza. Shanghai è la città più popolosa al mondo e sicuramente è anche tra le più inquinate. Nonostante ciò c’è ancora spazio per rimediare. All’amministrazione locale non resta che mettere in pratica nuovi progetti per contrastare l’inquinamento, proprio come si sta impegnando a fare la vicina Pechino.

Pensieri e riflessioni della vita quotidiana legate al mondo asiatico 

Gandhi e l’acqua che scorre

“Mantieni i tuoi pensieri positivi
Perché i tuoi pensieri diventano parole
Mantieni le tue parole positive
Perché le tue parole diventano i tuoi comportamenti
Mantieni i tuoi comportamenti positivi
Perché i tuoi comportamenti diventano le tue abitudini
Mantieni le tue abitudini positive
Perché le tue abitudini diventano i tuoi valori
Mantieni i tuoi valori positivi
Perché i tuoi valori diventano il tuo destino”.

— Mahatma Gandhi (Mohandas Karmchand Gandhi)

A volte guardando l’acqua che scorre viene voglia di perdersi in essa. Questo scorrere inesorabile ed inarrestabile fonte di ogni vita e di ogni perdizione risulta forse l’immagine più adeguata a rappresentare la nostra vita. Molti poeti, musicisti e scrittori l’hanno usata come metafora o come fonte di ispirazione. Ma cosa succede quando sempre lei, la nostra dea quotidiana, diventa anche sinonimo di torbidità? Perdersi in essa vuol forse dire perdere coscienza di sé e del mondo in cui viviamo? Forse. Dipende sicuramente dalla corrente che scegliamo di seguire.

Oggi giorno vediamo la vita scorrerci davanti e spesso non facciamo altro che rincorrerla. La seguiamo fedeli come un cane segue il padrone e non ci soffermiamo mai a chiederci dove ci stia portando e, soprattutto, se sia la direzione che vogliamo effettivamente intraprendere.

Se vi capita, parlate con amici e parenti, chiedetegli dei loro sogni, di quanti ne abbiamo effettivamente realizzati e invece, se hanno il coraggio di ammetterlo, quanti siano i loro rimpianti.

Le risposte potrebbero essere di tre tipi: la prima, e più probabile, è quella in cui vi diranno che hanno ancora molti sogni, ma che la nostra società li rende di difficile realizzazione; una seconda risposta potrebbe essere che si ci sono dei rimpianti, ma che non vale la pena soffermarcisi perché la vita è ancora lunga e piena di possibilità, si spera; l’ultima risposta, e anche la più difficile da ricevere (o dovrei dire da ammettere?), è quella in cui vi diranno che i loro sogni sono svaniti, che credono solo nel passato, nel presente o nel futuro semplicemente per quello che sono (in genere queste persone vivono alla giornata, non nel senso comune del termine, ma semplicemente trincerano la loro mente soltanto nell’oggi e salvo analisi superficiali non penseranno mai al futuro, quanto piuttosto al passato). Ma chi delle persone interrogate vi risponderà: “Ho sicuramente dei rimpianti nella mia vita, a molti di questi non sono riuscito a porre ancora rimedio, ma mi sto ancora impegnando per riuscirci.

Credo nel futuro e nelle sue possibilità. Ma credo ancora di più nella nostra vita e nelle nostre possibilità. Penso che il futuro ce lo si debba costruire da soli e io mi sono mossa, mi sto muovendo e continuerò a muovermi affinché il mio futuro e quello di tutti quelli che incrociano la loro strada con la mia sia il migliore possibile. Inoltre si, io ho realizzato almeno parte dei miei sogni”. Stiamo parlando di ottimismo e di pessimismo? Forse. Stiamo parlando di forza di volontà? Forse. Stiamo parlando dell’acqua che scorre? Sicuramente sì.

Grazie alla nostra voglia di vivere possiamo far si che l’immergersi in acqua sia un beneficio e una purificazione, una fonte di forza e di vita, di salvezza come nel caso del Gange, e non soltanto un rabbuiarsi concentrandosi sui propri errori, sui propri difetti, sulle proprie sofferenze e sul proprio passato lacunoso (non mi soffermerò su chi vive nel passato in quanto unica fonte di positività per ora).

Come ha fatto un uomo come Gandhi a diventare un simbolo così luminoso per tutti? Rispettato perfino da coloro che con lui, con la sua terra e con la sua religione non hanno niente da spartire?

Semplice: lui ha condiviso le sue idee, idee positive. Ha lottato per quello in cui credeva. Si è fatto forza così da poter far forza anche agli altri. Lui è diventato la forza.

Una persona semplice, nata e cresciuta tra mille problemi come tutti. Mangia, beve e dorme come tutti.

Cos’ha di così speciale? Lui crede in sé stesso, in quello che pensa e in quello che dice. Questa è la sua forza.

Quella che lo sostiene e che lo fa ridere, anche quando da ridere c’è ben poco. Allora quello che dobbiamo imparare tutti è che, come ci insegna il maestro, pensare positivo non serve agli altri o a farsi accettare da loro, serve a noi e per noi. Pensando positivo impareremo anche a parlare positivamente, contagiando così anche chi ci sta intorno, proprio come l’acqua che scorre è capace di ripulire l’acqua torbida.

Ma questo non basta, dobbiamo perseverare con i nostri pensieri e con le nostre parole perché la debolezza, la torbidità è sempre dietro l’angolo.

Non appena la corrente diventa meno forte lo sporco della vita si rialza e offusca la nostra visuale impedendoci di ritrovare la strada.

Ma se abbiamo qualcuno che ci aiuta a mantenere la corrente forte e salda nella sua direzione, capace di passare in ogni insenatura e in ogni minimo spazio libero, allora si che possiamo farcela.

Potremo mantenere l’acqua del nostro stagno bella e limpida fino al momento in cui ci sentiremo pronti ad accudire da soli al nostro stagno ed infine ad aprire le dighe.

Quando arriverà questo momento ve ne accorgerete sicuramente, e allora viaggerete scoprendo luoghi sempre nuovi bagnati da acque diverse e per voi sconosciute. Attraverserete i deserti, ma la vostra acqua non si asciugherà, scalerete le montagne, ma troverete la forza di salire fino in cima ed infine scenderete in profondità e scoprirete il cuore della Terra imparando ad amarla per quella che è  e a rispettarla. Ed è così che da un pensiero buono e giusto, un pensiero positivo, avrete scoperto la parola; dalla parola sarete passati all’azione; dall’azione ad un’abitudine e dall’abitudine ad un valore, diventando finalmente gli artefici del vostro vero e unico destino. Non più vincolati alle parole e ai pensieri altrui potrete scoprire il mondo e conquistarlo a piccoli passi, piccoli, ma coraggiosi e pieni di speranza. E continuando su questa strada raggiungerete un giorno tutti i vostri sogni, ma non temete, non siete più vincolati ad uno stagno, una mano piena di sogni realizzati non significa la fine, dopotutto vi resta ancora l’oceano da scoprire.

di Maria Cristina Carboni

 

in giro per la rete…

Una tesi di Ca Foscari

Link :

http://www.nfiere.com/medio-ambiente/cina/

http://www.asianworld.it/forum/index.php?showtopic=4470

http://www.expo2010italia.gov.it/ita/cosa-e (qui trovate anche il link alla pagina ufficiale dell’Expo 2010)

http://www.corriere.it/esteri/10_maggio_01/Fuochi-d-artificio-e-orgoglio-A-Shanghai-l-Expo-dei-record-del-corona_6fa846ae-552b-11df-a414-00144f02aabe.shtml

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Curiosity: un laboratorio scientifico sul pianeta rosso

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Curiosity: un laboratorio scientifico sul pianeta rosso

Pubblicato il 18 dicembre 2012 by redazione

Curiosity scopre su Marte il letto di un antico fiume

Curiosity scopre su Marte il letto di un antico fiume.

Lanciato il 26 novembre 2011 dalla base della NASA a Cape Canaveral il Mars Science Laboratory (MSL), meglio conosciuto sotto il nome di Curiosity, è atterrato sulla superficie marziana il 6 Agosto 2012. Il robottino, molto più grosso e pesante di quelli precedentemente inviati sul pianeta rosso, ha una lunghezza di 3 metri e pesa 900 kg (di cui 80 solo di strumentazione tecno-scientifica necessaria ai rilevamenti). Il progetto finanziato da tutta la comunità scientifica internazionale ( mediante il versamento di fondi o per mezzo di contributi tecnologici) è rivolto a valutare la passata e presente capacità di Marte di ospitare forme di vita.

L’atterraggio del MSL, avvenuto con successo nella zona del cratere Gale, ha dato diversi grattacapi agli ingegneri che lo hanno dovuto progettare a causa del grande peso del robottino e della particolare atmosfera marziana. Per compiere questa operazione è stato necessario l’utilizzo di superfici frenanti, di scudi termici per proteggere il prezioso carico dalle radiazioni spaziali, un paracadute lungo 50 metri in grado di resistere a una velocità 2 volte supersonica e dei retrorazzi per ultimare la frenata.

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Curiosity

Il profilo di missione prevede che Curiosity operi sul pianeta rosso per almeno un anno solare marziano, pari a circa 2 anni terrestri. Tuttavia si prevede che in questo periodo possa percorrere soltanto 6 km sulla superficie di Marte. Questo limite è imposto non solo dalle asperità del pianeta, ma anche dalla delicatezza dei componenti scientifici presenti a bordo e dalla scarsa potenza di alimentazione (un generatore termoelettrico a radioisotopi, cioè una sorta di mini reattore nucleare) che oltre a muovere il rover deve alimentare i 2 computer di bordo che governano il sistema e tutta la strumentazione necessaria a carpire i segreti di Marte.

I macro-obbiettivi, chiave del MSL, sono principalmente quattro: determinare se la vita sia mai esistita sul pianeta rosso, ottenere una precisa descrizione del clima di Marte, acquisirne una dettagliata analisi geologica e prepararsi per una missione esplorativa umana.

Proprio per questi motivi il robottino è stato fatto atterrare in una zona dove è molto probabile che ci sia stata in passato una grande erosione da parte dell’acqua (questo è stato valutato mediante delle foto ottenute da alcuni satelliti in orbita intorno al pianeta rosso). Tuttavia la “vita” ricercata da Curiosity non è quella che ci si immagina nei film di fantascienza con simpatici omini verdi a tre occhi o strani animaletti, e nemmeno vecchi fossili, bensì molecole derivanti dal carbonio o che possano avere qualche connessione con composti di carattere biologico. Per ottenere ciò l’MSL è dotato di svariati strumenti in grado di analizzare sia le rocce presenti sul pianeta (facendo analisi ai raggi X o vaporizzandone una parte per poi studiarle mediante degli spettrometri di massa) sia la sua atmosfera, per ricercare gas derivanti dal carbonio come per esempio il metano.

Per valutare l’abitabilità del pianeta, Curiosity seguirà quindi quattro principali filoni di ricerca:

1. Valutare il potenziale biologico di almeno uno degli habitat marziani determinandone la sua natura e facendo una completa mappatura dei composti di carbonio presenti, per vedere se possono rientrare all’interno del processo chimico che porta alla vita o per vedere se si avvicinano a qualche processo biologico rilevante.

2. Caratterizzare geologicamente la regione attraverso l’indagine della composizione chimica, isotopica e minerale di tutte le rocce che costituiscono lo strato superficiale e sub-superficiale della zona del cratere Gale per interpretare i processi passati che li hanno portati alla configurazione attuale.

3. Investigare i processi planetari passati che possono aver avuto una posizione di rilevanza riguardo all’abitabilità di Marte (per esempio il ruolo dell’acqua). Questo verrà studiato mediante l’analisi dell’atmosfera (che costituisce una sorta di hard-disk, nel quale sono archiviate le informazioni su cosa accadeva sulla superficie del pianeta rosso nelle epoche passate).

4. Analizzare le radiazioni che arrivano sulla superficie, incluse qualle cosmico-galattiche, gli eventi dovuti ai protoni solari e ai neutroni secondari.

Queste osservazioni già da sole costituiscono un grande patrimonio scientifico, ma integrate tutte insieme fornisco una completa mappatura scientifico-biologica di tutta l’area di grande rilevanza. Quindi se come auspicato dai vertici della NASA e dalla comunità internazionale le ricerche produrranno i risultati sperati la visita dell’uomo sul pianeta rosso sarà possibile non solo nei film di fantascienza, ma anche nella realtà.

di Camillo Molino

Fonti:

http://mars.jpl.nasa.gov/msl/

 

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Romain Charles

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Mars 500: un viaggio spaziale virtuale su Marte con astronauti veri, chiusi in un modulo per 490 giorni

Pubblicato il 16 novembre 2011 by redazione

E’ sicuramente un periodo importante per la gloriosa industria spaziale russa che in ambito spaziale ha avuto importanti sviluppi e questo anche grazie ai tagli del governo statunitense al programma NASA che di fatto costringe gli astronauti americani a volare con lanciatori e sonde russe (o al massimo europee). Tra i principali traguardi il lancio di un nuovo lander che atterrerà sulla superficie di Phobos, il più grande dei satelliti di Marte, con lo scopo di prelevare campioni da riportare e analizzare sulla Terra e la missione Mars 500 per l’esplorazione del pianeta rosso.

Cominciata a Mosca il 3 giugno 2010, la missione Mars 500 si è conclusa il 9 novembre scorso, con implicazioni fondamentali non solo per l’industria spaziale internazionale, ma per l’intero panorama scientifico e per tutta l’umanità. La missione prevedeva la simulazione completa di un ipotetico viaggio verso Marte, un periodo di esplorazione del pianeta e il successivo viaggio di ritorno verso la Terra. L’aspetto rivoluzionario rispetto alle simulazioni comunemente effettuate, è stato la presenza di un equipaggio: sei volontari, tre cosmonauti russi (tra cui anche il comandante della missione Alexei Sitev), un astronauta cinese, un ingegnere francese e l’italo-colombiano Diego Urbina, ventisette anni, laureatosi in Ingegneria Elettronica presso il Politecnico di Torino e specializzatosi poi in Studi Spaziali a Strasburgo.

Sicuramente l’aspetto più interessante da analizzare è quello del comportamento assunto dal gruppo di lavoro all’interno di situazioni molto particolari, se vogliamo anche estreme e inusuali per uomini abituati a vivere in società. Innanzitutto la lunga permanenza (490 giorni tra andata e ritorno) all’interno di un modulo di esplorazione caratterizzato da spazi particolarmente ridotti (l’architettura ripropone in piccolo gli ambienti della stazione spaziale internazionale: sei camerette, bagno, ambiente di lavoro e palestra) e in secondo luogo, la convivenza tra i membri dell’equipaggio per un lungo periodo di tempo, la lontananza dalle proprie case, dai propri affetti, dalle proprie abitudini quotidiane. E ancora, le limitate comunicazioni, i ritardi nei sistemi radio (venti minuti circa per avviare la trasmissione), il possibile verificarsi di guasti tecnici o di emergenze, scorte alimentari limitate, tutto orchestrato alla perfezione per rendere la simulazione più reale possibile. Infine, la quota di lavoro giornaliera di ricerca, attraverso gli esperimenti da condurre a bordo, e di esercizio fisico; il riposo? Nel week-end, ovvio! (salvo diverse comunicazioni o esercitazioni straordinarie). Insomma, un test fisico e psicologico che ha messo a dura prova gli uomini dell’equipaggio, i quali però, dopo essere “tornati” sulla Terra, si sono sentiti ben fieri di aver contribuito a realizzare un piccolo passo verso un’esplorazione futura che fino a poco tempo fa pareva appena immaginabile.

Oltre ai viaggi di andata e ritorno, durante la missione, i tre membri dell’equipaggio hanno sperimentato anche l’“esplorazione” di una riproduzione di territorio marziano, con attività di prelievo di campioni.

L’istituto di fisiologia clinica del CNR e la Scuola Superiore Sant’Anna e Università di Pisa sono stati i principali rappresentanti del contributo italiano, fondamentale nel testare lo stress psicofisico dei cosmonauti dovuto all’isolamento prolungato, al ricircolo dell’aria e alla mancanza di luce solare.

Le implicazioni di quella che è stata la più lunga simulazione nella storia dei viaggi spaziali sono molteplici, se si ragiona nell’ottica di un’esplorazione planetaria. Dopo lo sbarco sulla Luna del 1969, l’uomo potrebbe mettere piede su Marte, un pianeta molto particolare e di grande interesse, che le sonde Odissey prima, e Phoenix poi, con i rilevamenti di presenza di acqua e lo sviluppo di forme di combustione particolarmente efficienti nei moderni motori a razzo, hanno reso un po’ più vicino a noi. Questa prova costituisce un passo importante per colmare quella distanza che divide ancora la scienza dalla fantascienza, il realizzabile dall’ipotizzabile, il viaggio dalla simulazione. La capacità di adattarsi a una condizione di continuo stress psicofisico è stato lo sforzo che i membri dell’equipaggio hanno dimostrato di poter sopportare, ridisegnando così quelli che sono i limiti dell’uomo. Se si inserisce il tutto in un contesto scientifico-tecnologico stimolante ed estremamente dinamico, ecco che questa diventa un’esperienza che apre nuove prospettive e allarga gli orizzonti della ricerca, spostando ancora un po’ più in là le colonne d’Ercole.

di Michele Mione

vedi anche:

http://mars500.imbp.ru

http://www.esa.int/SPECIALS/Mars500

 

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