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Le radici della crisi economica del mondo occidentale

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Le radici della crisi economica del mondo occidentale

Pubblicato il 06 maggio 2012 by redazione

L’Italia si sfalda e sfuma il progetto di un’economia nazionale

Triangolo-To-Mi-GeNegli anni 50’ si parlava del Nord Italia come del triangolo industriale, Milano-Torino-Genova, deputato e demandato allo sviluppo del Paese.

Negli anni 80’ cresceva la media impresa, che esportava sul mercato internazionale il “made in Italy” e al triangolo industriale si aggiungevano Treviso, Vicenza, Cuneo e Alessandria: l’occupazione cresceva in maniera straordinaria. Allora la Lombardia era il fulcro del Pil nazionale. Milano, dunque, capitale del terziario e della moda, e Torino votata all’industria; Milano città mercato, Torino l’organizzazione. La Lombardia negli anni si stabilizza e si rafforza e Milano si fa città globale, secondo alcuni la 7° città globale del Mondo. Torino invece resta indietro, perde la sfida e manca l’affaccio sui mercati internazionali.

Nel 2008 inizia la crisi, o meglio si manifesta. Milano, internazionale, sfrutta l’occasione europea e si colloca oltre oceano, non rispecchia più l’Italia risorgimentale che vedeva il Sud come grande serbatoio interno di manodopera a basso costo per le grande industrie del Nord, o per quelle trasversali al Paese come le autostrade, ma guarda ai grandi mercati del mondo, spingendosi verso la produzione di beni immateriali,  completamente scollata dal resto del Paese e ad un certo punto ottusamente votata al federalismo con un’assoluta mancanza di senso dello Stato e di Nazione, fino alle estreme conseguenze, che vedono la nascita della Lega e del Berlusconismo. Una Milano egoista, che sogna per sé e non ne vuol sapere del resto dell’Italia.

Dall’altra parte il Sud dopo varie migrazioni, prima verso l’America, tra la fine dell’Ottocento e i primi quarant’anni del Novecento, poi, alla fine della seconda guerra mondiale, verso il Nord del paese, si rivolge infine allo Stato come Welfaregate, per trovare le risposte ai propri bisogni economici: lo Stato si fa volano dello sviluppo economico e sociale del Paese.

anni50Alla fine degli anni 80’ si tirano le somme di questo forte statalismo, che ora è visto come impedimento allo sviluppo, e si decide di tagliare le strutture pubbliche e insieme a queste anche i grandi poli industriali come, per esempio, quello dell’Italsider, con la dismissione di 5000 operai. Questo è l’inizio della fine della grande industria e al contempo della grande classe operaia. In quegli anni qualcuno, semplificando, denunciava che non c’erano più soldi, che bisognava darsi da fare, che lo Stato assistenziale era finito e che al Sud l’industria non era riuscita a decollare perché c’era stato troppo Stato. Al Nord nel frattempo nascono e fioriscono invece le piccole e medie imprese, orfane di un progetto economico comune e nazionale, che la Lega traduce come ragione e giustificazione del non dover più stare insieme. A seguito di questo e di una maggior globalizzazione, anche lo Stato nazionale perde un po’ della sua funzione, ma soprattutto cambiano i presupposti capitalistici, che evolvono da industria a finanza: il capitale non più ancorato al territorio, va dove vuole, dove ha più convenienza. Nel Sud del Paese le risorse dello Stato si interrompono, così come quelle europee e il Meridione si arena completamente, privato di ogni ammortizzatore sociale. Anche le infrastrutture restano carenti e l’alta velocità riesce ad arrivare solo fino a Napoli. Il centro del Mediterraneo, il cuore del Sud dell’Europa, sembra proprio aver perso l’opportunità di affermare la propria centralità geopolitica e di far emergere tutte le sue possibili valenze, che se ben valorizzate e incanalate potrebbero evolvere in nuove economie sostenibili. C’è poi il problema della criminalità organizzata che con il suo clientelismo e la sua nuova vocazione finanziaria non permette facilmente l’evolversi di aziende e imprese terziarie. Anzi, i fiumi di denaro destinati alle imprese del Sud vengono invece recuperati dalle aziende del Nord e gli impianti acquistati, rivenduti ai Paesi del Terzo Mondo. E’ una battaglia difficile, che si combatte direttamente sul territorio e vede impegnate tutte le forze dell’ordine e della magistratura, ma che ha parte dei suoi gangli, radicati proprio nell’amministrazione e nella politica, troppo legata ai grandi interessi economici del territorio. L’integrità morale è saltata, cosi come la correttezza, e lo sviluppo economico si ritrova strettamente imbrigliato nelle sue maglie, così come il suo destino. Anche per questo l’Europa rappresentava per l’Italia una grande via di fuga, uno sbocco verso lo sviluppo, in ritardo di 40 anni rispetto a tutti gli altri paesi, persino verso la Spagna.


2006 crisi immobiliare degli Stati Uniti d’America

Nell’America di Grissman la politica monetaria pompava prestiti a gogò, e a basso interesse, alimentando bombe speculative, sia per i mutui delle case che per le aziende e invogliando gli americani a vivere al di sopra dei propri mezzi per almeno una decina d’anni. Raggiunto un alto livello di indebitamento individuale rifinanziavano il mutuo, basandosi su una tenuta stabile del valore delle case. Le banche a quel punto, dovendo accollarsi il rischio, decisero di impacchettare questi debiti e di cederli a terze parti finanziarie, facendo così crescere il rischio immobiliare fino all’esplosione della bolla e della crisi totale di tutto il sistema finanziario della cartolarizzazione (alias derivati), che provocò la sfiducia massiccia degli investitori e degenerò in un effetto domino globale, che mandò in crisi imprese e stati: dopo quella del 29’, questa è stata la crisi economica più pericolosa. I governi sapevano già dove si stava andando, ma non dove si sarebbe arrivati. All’inizio era infatti tutto abbastanza scontato: abbassare il costo delle case, facilitare l’accesso ai mutui, spingere verso una ripresa economica, movimentare il denaro liquido. In Spagna l’indebitamento immobiliare è arrivato al 27%. L’azzardo si è spinto molto oltre fino a incriccare il sistema finanziario globale, ma nessuno ha chiesto conto a questi esperti finanziari, confezionatori di derivati avariati, di assumersi le proprie responsabilità. Perché le banche non hanno controllato, perché le società di raiting cinesi, francesi, americane, non hanno segnalato i forti guadagni che entravano a fiumi nelle casse dei protagonisti di questo colossale affare. Quali sono gli organismi mondiali che dovevano monitorare, segnalare e porre rimedio ai danni ancora in essere, creando nuove regole a garanzia di tutti. Sta di fatto che la forbice tra ricchi e poveri si è aperta molto di più. Anche lo squilibrio tra le grandi nazioni come Cina e America è aumentato drasticamente e vede il 50% dei debiti americani concentrati sulle spese militari e solo il 25% sullo sviluppo. Di contro l’impegno cinese sullo sviluppo è massimo e su quello militare è quasi nullo. Risultato: la crescita economica cinese galoppa e la Cina siede ai tavoli più importanti del mondo e fa pesare il proprio voto nelle grandi decisioni globali. Il mondo è visibilmente cambiato e gli stipendi medi cinesi stanno raggiungendo quelli medi americani (lo stipendio di un ingegnere cinese è già pari alla metà di un ingegnere europeo), fermi invece al 1973 (30000 dollari netti all’anno), proprio come lo sviluppo economico americano.


Quo vadis EuropeQuo vadis Europa ?

L’Europa dal canto suo resta unita solo come moneta, interessata unicamente a salvare gli interessi dei paesi membri più forti, ma non a costituire una vera unità economica, politica e sociale: ovunque si sta facendo politica industriale, mediata dal governo e dal sindacato, il governo Obama ne è un esempio lampante, ma non in Europa.

L’attuale situazione produttiva europea, nell’ambito delle aziende manifatturiere è sinteticamente questa: Germania 27%, Francia 11%, Spagna e Inghilterra 11% e Italia (Nord) 6%.

La disparità con il sistema mondo è enorme. C’è di buono che la Cina riconosce ancora oggi il primato della moneta all’euro e non al dollaro, e implicitamente con questa preferenza mette in crisi e sottolinea di non accettare la supremazia, fino ad ora incontrastata, dell’egemonia economica americana. Fatto non da poco se si pensa al peso demografico cinese: 1/5 dell’intero mondo, 22.000 km di binari ferroviari completati entro il 2020, una camicia di buona qualità a un prezzo medio di 5 euro.

In Europa questa pressione-concorrenza con gli altri grandi paesi del mondo non solo sta bloccando la crescita economica, l’occupazione e il potere d’acquisto di uno stipendio medio, ma sta già mettendo in crisi pericolosamente anche i servizi-diritti sociali (scuola, sanità, tutele sindacali e pensioni).

L’Unione Europea ha forti responsabilità verso tutti i Paesi membri perché non ha rifiutato la globalizzazione, ma si è lasciata attrarre anch’essa dai miraggi finanziari e invece di promuovere una vera integrazione, ha promosso solo una politica monetaria a favore di interessi privati, condannando i Paesi membri più poveri a pagare il prezzo e il sostegno delle politiche economiche dei Paesi europei più ricchi.

L’Europa ha dei doveri e delle responsabilità che ormai non può più rifiutare, fosse anche, e non è poco, perché con la sua moneta rappresenta la seconda potenza economica del mondo. Ma come potenza è decisamente stravagante, non dispone neppure di una rappresentanza internazionale unica e siede ai tavoli del mondo con tutti i suoi Stati membri che detengono il potere di voto. Ogni Stato membro mantiene la possibilità di fare nel suo territorio tutto quello che vuole, così ad esempio ogni stato può stabilire dei dazi interni. L’Unione non si fa carico degli impegni presi dalle istituzioni pubbliche locali, né dei debiti che le stesse maturano in ogni singolo Paese. L’Unione non si impegna ad aiutare i Paesi in difficoltà, salvo fargli un prestito. Se però uno Stato membro va a gonfie vele e alza il livello di qualità della vita e dei servizi europei, impone di fatto un impegno economico maggiore agli Stati membri più poveri (un po’ come in una società per azioni quando qualcuno fa un rialzo di capitale: chi non riesce a stare al passo è fuori) che decidono sempre meno e che, per pagare, si indebitano sempre di più proprio con le “banche centrali europee”. Eppure senza Unione Europea, non si resta nel mondo e anche questo è un fatto. Forse davvero,  si dovranno stampare gli eurobond, riservandone una parte per il rilancio economico di tutta l’Unione ma, cosa non meno importante, bisognerà guardare all’Europa come veicolo di salvezza della democrazia. Questa, infatti, investita dalla fine del capitalismo, dagli interessi della nuova finanza, dai nuovi imperi protezionistici, sta scivolando in un pericoloso populismo che richiama echi aberranti neofascisti e antisemiti. I Paesi membri più ricchi hanno dunque una forte responsabilità nei confronti del mondo occidentale, che nei prossimi anni non si dovrà limitare a ricercare soluzioni alla crisi economica, ma che si dovrà seriamente impegnare nella difesa della democrazia.

di Adriana Paolini

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Susanna Camusso 2012, Luciano Lama 1978: sono passati più di 60 anni, ma il diritto al lavoro è ancora là da venire

Pubblicato il 31 gennaio 2012 by redazione

“Quante differenze dagli anni di Lama: oggi la precarietà è il primo problema”

lettera a Rebubblica di SUSANNA CAMUSSO, Segretario generale della Cgil (30 gennaio 2012)

CARO DIRETTORE nel suo editoriale, del 29 gennaio 2012, cita un’intervista a Luciano Lama, della quale si tralascia di ricordare le affermazioni sui profitti e sulla funzione “programmatica” dell’accumulazione che è fondamentale nel pensiero di Lama, e nella svolta dell’Eur.

La Cgil oggi, come Lama ieri, mette al centro occupazione e lavoro, ma mentre allora i salari crescevano, anche se molto erosi dall’inflazione, oggi siamo alla perdita sistematica del loro potere d’acquisto e ciò rappresenta una ragione importante della recessione in atto. La distribuzione del reddito tra profitti e retribuzioni non aveva lo squilibrio di oggi. Tutti, ormai, leggono in questa diseguaglianza la ragione profonda della crisi che attraversiamo e il motivo per cui le politiche monetariste non ci porteranno fuori dal guado.

La diseguaglianza è dettata dallo spostamento progressivo dei profitti oltre che a reddito dei “capitalisti”, a speculazione (o si preferisce investimento?) di natura finanziaria. Così si riducono, oltre che la redistribuzione, anche gli investimenti in innovazione, ricerca, formazione e in prodotti a maggior valore e più qualificati.

Senza investimenti, si è scelto di produrre precarietà, traducendo l’idea di flessibilità invece che nella ricerca di maggior qualità del lavoro, di accrescimento professionale dei lavoratori, in quella precarietà che ha trasferito su lavoratori e lavoratrici le conseguenze alla via bassa dello sviluppo. In sintesi: lo spostamento sui lavoratori dei rischi del fare impresa.

Quale straordinaria differenza dal 1978! E ancora si potrebbe sottolineare che invece di avere attenzione ai redditi, si continua ad agire sulle accise, attuando una politica dei redditi senza nessun controllo dei prezzi.

Quanta disattenzione, poi, alle proposte vere della Cgil, quando indichiamo come priorità un Piano per il Lavoro, che per noi affronta i grandi temi del paese e interroga equità e crescita non come mantra per edulcorare, ma come scelte che devono intervenire sulla responsabilità e i comportamenti di ciascuno, se si vuole dare senso alla riduzione della diseguaglianza e riparlare di futuro.

Il Piano del Lavoro si misura con la funzione dell’intervento pubblico, troppo facilmente archiviato dal liberismo e dai suoi effetti evidenti, sulla funzione del welfare come motore di uno sviluppo attento alle persone e non mera “assicurazione” o costo, sulla funzione dello sviluppo che ha esaurito la spinta propulsiva del puro consumismo.

Ancora, un Piano del Lavoro per giovani e donne del nostro paese a cui non possiamo solo raccontare che avranno meno tutele perché i padri gli avrebbero mangiato il futuro. Un Piano per il Lavoro che voglia bene al nostro paese, non solo perché la Cgil (per troppo tempo da sola) ha indicato che non fare politiche industriali e di sistema ci avrebbe portato al declino, ma perché non ci sfugge il pericolo economico e democratico di una crisi prolungata di cui la disoccupazione è primo indicatore.

A noi è chiara l’emergenza così come la necessità di una nuova idea di sviluppo. Per questo, voler bene al paese e voler attivare i giovani, o meglio riconoscergli l’età adulta, può partire dalla scelta pubblica e politica di un Piano del Lavoro. Un Piano per il Lavoro guarda, ovviamente, all’immediato e alla capacità di programmare. In questo quadro intende affrontare anche i nodi della produttività, della contrattazione, della rappresentanza, del mercato del lavoro, e soprattutto del fisco.

Il coro sull’importanza del rilancio della produttività trascura di cimentarsi con le cause del suo declino in Italia. O inventa cause di comodo: qualcuno arriva a teorizzare l’assurdità che sarebbe per colpa dell’articolo 18. Al contrario, la produttività nel nostro paese decresce al crescere della precarietà, che non ha neanche incrementato l’occupazione, producendo, invece, quel lavoro povero su cui sarebbe bene interrogarsi.

Per noi l’urgenza è la riduzione della precarietà che viene prima, molto prima, di altri temi. Nella riduzione della precarietà vi è compresa certamente la riformulazione degli ammortizzatori, su cui da tre anni abbiamo proposto una riforma. Vorrei poi ricordare che la mobilità annunciata dall’intervista di Lama è realtà da molti anni, che la Cigs ha la durata di un anno rinnovabile a due, che comunque ha un tetto, come pure la Cig ordinaria, in ogni quinquennio, che una stagione di riorganizzazione del sistema produttivo non deve disperdere professionalità e competenze. Oppure si deve ritenere che la società della conoscenza è solo dei manager? Credo che sarebbe bene per tutti, discutere fuori dai pregiudizi e dagli slogan facili, e non confondere l’emergenza con l’idea che “qualunque cosa può essere fatta”.

Siamo i primi ad apprezzare che l’Italia sia tornata al tavolo dei grandi, a sostenere sforzi per far ripartire il paese, ma se ogni scelta presenta il conto solo al lavoro (nella finanziaria la cassa sulle pensioni; nelle liberalizzazioni il contratto ferrovie e l’equo compenso dei tirocinanti, ad esempio), abbiamo il legittimo dubbio, anzi la certezza, che si affronta il ” nuovo” con uno strumento antico e che il fine non sia far ripartire il paese, ma “salvare il soldato Ryan”. Se sarà così, non si salverà l’Italia ma una sua piccola parte, che forse non ha bisogno di salvarsi, perché lo fa già tra evasione, sommerso e lobbismo di ogni specie. Questa è un’ipotesi cui non intendiamo rassegnarci. Siamo seriamente impegnati al confronto su crescita e mercato dal lavoro: l’abbiamo preparato con un documento unitario, abbiamo guardato ai modelli europei, fra cui la Germania che usa l’orario ridotto finanziato dallo stato e non licenzia. Ci siamo trovati di fronte ad un documento del ministro, non condiviso da nessuno. Senza nostalgie di nessun tipo pensiamo sia utile proporre un negoziato vero e non affidarsi a ricette preconfezionate il cui fallimento è nei numeri della precarietà e della disoccupazione, a partire dai settecentomila posti di lavoro persi dell’industria in cinque anni.

 

STRALCIO DELL’INTERVISTA A LUCIANO LAMA DEL 1978

Stralcio di una lunga intervista a Luciano Lama, del gennaio del 1978, allora segretario generale della Cgil. Anno che ebbe il suo culmine col rapimento di Aldo Moro. Lama parlava in quell’intervista a nome della Federazione sindacale che vedeva uniti Cgil, Cisl e Uil. In quegli anni furono i sindacati e le classi operaie che difesero la democrazia del paese contro le Brigate Rosse e lo stragismo di Gladio e della P2.

* * *

Quando il sindacato mette al primo posto del suo programma la disoccupazione vuol dire che si è reso conto che il problema è angoscioso e tragico e che ad esso debbono essere sacrificati tutti gli altri obiettivi. Per esempio quello, peraltro pienamente legittimo per il movimento sindacale, di migliorare le condizioni degli operai occupati.

Ebbene, se vogliono esser coerenti con l’obiettivo di far diminuire la disoccupazione, è chiaro che il miglioramento delle condizioni degli operai occupati passa in seconda linea. La politica salariale nei prossimi anni dovrà essere molto contenuta e il meccanismo della cassa integrazione dovrà esser rivisto da cima a fondo. Non possiamo più obbligare le aziende a trattenere un numero di lavoratori che supera le loro possibilità produttive, né possiamo continuare a pretendere che la cassa integrazione assista in via permanente i lavoratori eccedenti. La cassa può assistere i lavoratori per un anno e non oltre salvo casi eccezionalissimi che debbono essere esaminati dalle commissioni regionali di collocamento.

Insomma, mobilità effettiva della manodopera e fine del sistema del lavoro assistito in permanenza. Si tratta d’una svolta di fondo. Dal 1969 in poi il sindacato ha puntato le sue carte sulla rigidità della forza-lavoro, ma ora ci siamo resi conto che un sistema economico aperto non sopporta variabili indipendenti. I capitalisti sostengono che il profitto è una variabile indipendente.

I lavoratori e il sindacato, quasi per ritorsione, hanno sostenuto che il salario e la forza-lavoro sono variabili indipendenti. Sono sciocchezze perché in un’economia aperta le variabili sono tutte dipendenti una dall’altra. Se il livello salariale è troppo elevato rispetto alla produttività, il livello dell’occupazione tenderà a scendere e la disoccupazione aumenterà perché le nuove leve giovani non troveranno sbocco. Naturalmente non possiamo abbandonare i licenziati al loro destino. Il salto che si fa ammettendo il principio del licenziamento degli esuberi e limitando l’assistenza della cassa integrazione a un anno è enorme ed è interesse generale quello di non rendere drammatica ed esplosiva questa situazione sociale. Perciò dobbiamo tutelare con precedenza assoluta i lavoratori licenziati.

Alla base di tutto però c’è il problema dello sviluppo. Se l’economia ristagna o retrocede la situazione sociale può diventare insostenibile. La sola soluzione è la ripresa dello sviluppo. Quando si deve rinunciare al proprio “particulare” in vista di obiettivi nobili ma che in concreto impongono sacrifici, ci vuole una dose molto elevata di coscienza politica e di classe. Si è parlato molto, da parte della borghesia italiana, del guaio che in Italia ci sia un sindacato di classe. Ebbene, se non ci fosse un’alta coscienza di classe, discorsi come questo sarebbero improponibili. Abbiamo detto che la soluzione delle presenti difficoltà e il riassorbimento della disoccupazione sta tutto nell’avviare un’intensa fase di sviluppo. Per collaborare a questo obiettivo noi chiamiamo la classe operaia ad un programma di sacrifici, ad un grande programma di solidarietà nazionale.

Naturalmente tutte le categorie e tutti i gruppi sociali debbono fare altrettanto. Se questo programma non dovesse passare vorrebbe dire che avrebbero vinto gli egoismi di settore e non ci sarebbe più speranza per questo Paese.

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