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Milano 1969, funerali di piazza Fontana: il silenzio “assordante” di trecentomila persone salvò la democrazia del nostro paese.

Pubblicato il 11 dicembre 2023 by redazione

La Memoria come impegno civile: unica vera arma a difesa della democrazia.

Piazza Fontana, se non fosse per un particolare di arredo urbano, sarebbe una delle tante anonime zone di Milano, mentre oggi tutti noi la identifichiamo come un punto fondamentale della storia del nostro Paese perchè la memoria si impone su di essa come il più massicio dei monumenti. E’ una memoria tragicamente viva, che ci porta indietro nel tempo a quel fatale 12 dicembre 1969. Quando la bomba deflagrò all’interno della Banca Nazionale dell’Agricoltura (BNA), le vittime non furono solo diciassette, bensì milioni di cittadini italiani, martiri inconsapevoli di una subdola strategia volta a precipitare le loro vite in condizioni illiberali. E’ stato detto che in quel giorno l’Italia perse la propria innocenza, ma possiamo forse affermare che l’immacolato candore si dissolse in torbide macchinazioni già a Portella della Ginestra, culminando poi nell‘eccidio milanese. E “torbida“ fù anche l’indagine che ne segnò le vicende: troppo in fretta gli inquirenti si concentrarono sulla pista anarchica, forse per una strana acquiescenza della procura, oppure per una deliberata tattica dei poteri forti volta a spargere fumo ed incertezza. Poi, dopo trentotto anni di inchieste e innumerevoli processi, il 3 maggio 2005 la Cassazione assolse tutti gli imputati. Nessun colpevole, tranne i familiari delle vittime condannati al pagamento delle spese processuali e degli innumerevoli viaggi da un capo all’altro della penisola per poter assistere alle diverse udienze. La coscienza di noi tutti non dovrebbe accettarlo, ma trovare il coraggio di superare una contraddittoria verità processuale ed esigere chiarezza e giustizia. E’ tragico scoprire che lo stesso Stato covasse al suo interno la devianza che originò la strage. Con la più lucida delle intenzioni, porzioni dei servizi segreti complottarono per destabilizzare la vita pubblica, infiltrandosi nei gruppi terroristici e pilotandone le azioni in modo da giustificare in secondo luogo reazioni poliziesche e l’eventuale instaurazione di un regime liberticida. Questa politica, ormai nota come strategia della tensione, venne creata in nome della difesa dello Stato quale prevenzione contro movimenti ritenuti a loro volta pericolosi ed eversivi. Nel delirio politico, le istituzioni negarono se stesse. Del resto il clima sociale si prestava ad una simile manipolazione con cinque milioni di lavoratori che si preparavano ad una battaglia per i rinnovi contrattuali e migliaia di studenti manifestanti. L‘”Autunno caldo” fornì l’alibi migliore per mettere in pratica il piano. Non è purtroppo possibile affermare se le fondamenta del nostro Paese siano state irrimediabilmente scosse o se tale strategia abbia avuto un parziale successo, troppe domande restano infatti ancora sospese.  E’ comunque imperativo non dimenticare e tenere ben salda la memoria sui fatti, non per desiderio di vendetta, nè per semplice liturgia del dolore, ma per mantener fede al quel patto che lega noi tutti ad una idea democratica di convivenza e libertà. E se qualcuno dubitasse della forza di questo patto, il monumento della memoria ci mostrerà le trecentomila persone che compostamente presenziarono ai funerali delle vittime di Piazza Fontana, che con il loro silenzio assordante difesero e salvarono le istituzioni democratiche della nostra Nazione.

 

Risvegliare l’assopimento delle coscienze

Il sindaco di Bresso, Fortunato Zinni, impiegato nel 1969 alla BNA, e testimone oculare della strage del 12 Dicembre, da anni si batte in difesa dei parenti delle vittime. Molte le scuole visitate e gli interventi organizzati in memoria dei fatti di quegli anni, non ultimo il libro “Nessuno è Stato” distribuito gratuitamente in più di 120 mila copie.

Come ha conosciuto il brigatismo?

Ai tempi di Piazza Fontana crescevano in seno alla contestazione operaia, e anche nelle banche, le prime cellule di ribellione che poi evolsero nelle sacche clandestine che diedero vita al brigatismo armato. Erano tempi in cui molti attivisti politici e sindacali premevano per confinare le contestazioni in spazi dialettici ben delimitati e soprattutto democratici.

Esistono connessioni tra stragismo e brigatismo?

Non bisogna confondere stragismo con brigatismo, due culture molto diverse. In particolare alcuni brigatisti hanno raccontato una storia mistificata sia del movimento operaio che della sinistra perché molti di loro a cominciare da quelli nati con Curcio si dichiaravano eredi della resistenza  partigiana. Ma in fondo ammazzarono dei civili: giornalisti, guardie carcerarie e magistrati. Bruno La Ronca che ammazzò Pasquale Iurilli, un ragazzo di 11 anni, uscito di scuola che stava andando a casa con la sua cartella e si trovò al centro di una sparatoria incrociata perché quel giorno i brigatisti volevano ammazzare un barista che aveva rivelato alla polizia che nel suo bar, una settimana prima, era passato un brigatista, si giustificò dicendo che lui era un soldato e il ragazzo si era messo sulla sua linea di fuoco e quindi lo aveva ucciso.

Pensa che questi focolai di brigatismo ancora resistono perché manca la politica e manca il sindacato?

Il vuoto che la politica lascia nel tessuto sociale crea delle sacche che diventano incubatori di violenza e di teorie folli. E’ evidente che l’ordinamento democratico e le forze politiche devono reagire, ma sembra che queste ultime e in particolare il sindacato si stia concentrando più sulla difesa degli interessi protetti che non dove queste sacche possono allineare e cioè nel precariato.”

Quanto questa serie di vicende ha contribuito a dissolvere le fondamenta della società civile e della convinzione etica delle istituzioni italiane?

Al fondo di tutta questa vicenda anche il popolo italiano ha una grande responsabilità perché, a parte i 300.000 milanesi a cui dovremmo erigere un monumento, non ha messo la necessaria rabbia e il necessario controllo democratico su quanto è successo. Perciò se la magistratura ha fallito, se la politica non ha svolto il suo compito, se l’opinione pubblica non ha messo in campo la giusta rabbia per evitare tutto questo, se “Nessuno è Stato” le conseguenze attuali sono quelle che viviamo.

La strategia della tensione ha quindi dato i suoi frutti?

Sì, ha portato all’insabbiamento e all’ammorbidimento delle coscienze, alla sonnolenza delle intelligenze e ad un abbassamento della vigilanza.

 

I giovani devono conoscere il passato per capire il presente.

La mattina del 28 maggio 1980 il giornalista Walter Tobagi viene assassinato con cinque colpi di pistola da un commando di brigatisti, a trentanni dall’assassionio la figlia Benedetta, che all’epoca ne aveva tre, ha voluto dedicargli un libro, “Come mi batte forte il tuo cuore”, gli abbiamo rivolto alcune domande.

Cosa l’ha spinta a scrivere un libro su suo padre?

Ho scritto il libro perché volevo che la figura di mio padre fosse conosciuta nella sua complessità umana e professionale e non solo confinata come vittima del terrorismo.

Molti terroristi e brigatisti di quegli anni oggi sono liberi e reintrodotti nella società. Si sente tradita dalla giustizia?

La riabilitazione del detenuto è sicuramente un fatto positivo, quello che ha ferito e che ferisce la sensibilità di molte persone, non solo vittime o loro famigliari è l’eccessivo spazio mediatico che hanno avuto questi ex-terroristi. Per molto tempo la ricostruzione degli anni del terrorimo è stata affidata alla loro voce, ovviamente non obiettiva e corretta, impedendo un reale confronto pubblico.

Molti parlano di guerra civile strisciante degli anni 70. E’ d’accordo con questa interpretazione?

In Italia non c’è stata una guerra civile, neppure strisciante. Parlare di guerra civile offende le vittime e può dare un’alibi agli ex-terroristi ma anche a quella parte di Stato italiano che con questa scusa ha adottato in alcuni casi misure di repressione molto dure. C’è stato un’attacco portato da vari terrorismi di vario orientamento, prima lo stragismo neofascista, poi  il terrorismo rosso, di cui sono state vittime normali cittadini che non erano in guerra con nessuno.

 

Il Maresciallo Bazzega, un eroe invisibile

Sergio Bazzega, maresciallo di Pubblica Sicurezza, appartiene a quella schiera di invisibili servitori dello Stato che hanno dato la propria vita per la difesa delle istituzioni democratiche. Caduto a soli 32 anni sotto i colpi del brigatista Walter Alasia lasciò un figlio, Giorgio che vive ancora a Sesto e che abbiamo voluto intervistare.

In questi anni la sua famiglia ha sentito la vicinanza del comune Sesto San Giovanni, dove lei ancora vive, o delle istituzioni in generale?

In questi anni non abbiamo sentito vicino alcuna istituzione, solo qualche ex collega di mio padre. Da 30anni siamo tenuti da tutti in un cono d’ombra, purtroppo noi  vittime siamo la prova vivente degli sbagli sia della destra, sia della sinistra che di alcuni pezzi dello Stato.

Si sente tradito dallo Stato e cosa pensa degli ex-brigatisti ?

L’unico vero tradimento dello Stato è quello di tenere nascoste le verità che tutti noi vogliamo sapere riguardo allo stragismo e quelle poche cose che ancora non si sanno sulle Brigate Rosse. Non sono un pasdaran della memoria, spero solo che gli ex-brigatisti aiutino i giovani a capire quanto sia stata folle la loro scelta.

Lo stragismo prima e il terrorismo poi hanno insegnato qualcosa alla nostra società?

Io trovo disgustoso che la politica oggi continui a trasformare in un nemico l’avversario politico, in una logica di contrapposizione che abbiamo già visto anni fa a cosa  porta. Evidentemente chi ci governa, le lezioni del passato non le impara o non le conosce bene. Questo è proprio un retaggio di quel periodo che non è stato affrontato e superato in modo corretto.

 

Il film La Prima Linea

Pochi l’hanno visto, molti ne parlano. Il film “La Prima Linea” sugli anni di piombo in Italia, dal libro “Miccia corta” di Sergio Segio, ex Prima Linea, interpretato da Riccardo Scamacio e da  Giovanna Mezzoggiorno, è un’occasione persa di fare chiarezza sugli anni più bui del nostro dopoguerra. Al centro della vicenda vi sono le azioni e i ricordi di Segio e della sua compagna Susanna Ronconi, senza però l’analisi delle cause e del contesto socio-politico in cui il brigatismo affonda le sue radici. Nel film ad esempio non appare mai la figura di Marco Donat Cattin figlio di Carlo, esponente della Democrazia Cristiana e più volte Ministro, che era uno dei membri di spicco di Prima Linea e che uccise insieme a Segio il giudice Alessandrini. Il regista utilizza come alter ego del terrorista un suo compagno degli anni delle lotte studentesche, che nel film fa il barista a Sesto San Giovanni, e che in seguito non aderisce alla scelta armata dell’amico. Il rapporto tra la città e il brigatismo inizia negli anni ’70, sopprattutto alla Breda Fucine, con la propaganda alla lotta armata, cui si contrapponevano le battaglie sindacali e apparivano le prime scritte sui muri e i volantini con la stella a 5 punte. La realtà della lotta armata si manifesterà il 15 dicembre 1976 con l’irruzione degli agenti dell’Ufficio Politico della Questura di Milano e del Commissariato di Sesto, che irrompono nella case dei genitori di Walter Alasia, operai all’Ortofrigo e alla Pirelli, in via Leonardi a Sesto. Il brigatista, appena 21enne reagisce, apre il fuoco e uccide il vicequestore Padovani (47 anni) e il maresciallo Bazzega (32 anni) si lancia quindi dalla finestra nel cortile sottostante dove viene ucciso da altri agenti. E’ interessante leggere quello che Renato Curcio scrive di lui nel suo A viso aperto: “Quando lo incontrai nell’hinterland milanese aveva vent’anni: figlio di operai ancora orgogliosi del loro lavoro, apparteneva a quella nuova realtà di giovani arrabbiatissimi nati nei desolati centri della cintura industriale (…), ma con un forte senso di solidarietà sociale”. A partire dalla sua morte la colonna milanese delle Brigate Rosse porterà il suo nome e si coprirà di atroci delitti. Sebbene nelle sue fabbriche il movimento sindacale condanni ed emargini la lotta armata con manifestazioni e presidi, il  brigatismo colpisce più volte Sesto: il 15 marzo 1977 gambizza Restelli Guglielmo, capo squadra della Breda, il 12 novembre 1980 uccide sulla metropolitana Renato Briano, direttore del personale della Ercole Marelli, fredda il 28 novembre 1980 l’Ing. Mazzanti, direttore tecnico della Falk e a seguire l’11 dicembre 1980 gambizza l’Ing. Caramello all’Italtrafo. Con la fine degli anni di piombo, ad opera dei carabinieri del Generale dalla Chiesa, sembra che il capitolo sia destinato al dibattito storico. Purtroppo il brusco risveglio da questa illusione, avviene la mattina del 15 febbraio 2007 con l’arresto di 15 persone nel nord Italia, tra cui Massimiliano Gaeta di 31 anni, operaio e delegato sindacale della Alstom Power di Sesto San Giovanni, con l’accusa di appartenere alle nuove Brigate Rosse. Il gruppo progettava attentati a SKY, Mediaset, Eni e alla villa di Berlusconi a Milano.  Massimiliano Gaeta viene condannato, in primo grado, a otto anni e tre mesi di carcere.

di Adriana Paolini

 

Per trovare tutti gli atti in digitale vai al sito:

http://www.memoria.san.beniculturali.it/web/memoria/home;jsessionid=2063BEC87B0C896AE17E68C476422BCF.sanmemoria_JBOSS

 

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Susanna Camusso 2012, Luciano Lama 1978: sono passati più di 60 anni, ma il diritto al lavoro è ancora là da venire

Pubblicato il 31 gennaio 2012 by redazione

“Quante differenze dagli anni di Lama: oggi la precarietà è il primo problema”

lettera a Rebubblica di SUSANNA CAMUSSO, Segretario generale della Cgil (30 gennaio 2012)

CARO DIRETTORE nel suo editoriale, del 29 gennaio 2012, cita un’intervista a Luciano Lama, della quale si tralascia di ricordare le affermazioni sui profitti e sulla funzione “programmatica” dell’accumulazione che è fondamentale nel pensiero di Lama, e nella svolta dell’Eur.

La Cgil oggi, come Lama ieri, mette al centro occupazione e lavoro, ma mentre allora i salari crescevano, anche se molto erosi dall’inflazione, oggi siamo alla perdita sistematica del loro potere d’acquisto e ciò rappresenta una ragione importante della recessione in atto. La distribuzione del reddito tra profitti e retribuzioni non aveva lo squilibrio di oggi. Tutti, ormai, leggono in questa diseguaglianza la ragione profonda della crisi che attraversiamo e il motivo per cui le politiche monetariste non ci porteranno fuori dal guado.

La diseguaglianza è dettata dallo spostamento progressivo dei profitti oltre che a reddito dei “capitalisti”, a speculazione (o si preferisce investimento?) di natura finanziaria. Così si riducono, oltre che la redistribuzione, anche gli investimenti in innovazione, ricerca, formazione e in prodotti a maggior valore e più qualificati.

Senza investimenti, si è scelto di produrre precarietà, traducendo l’idea di flessibilità invece che nella ricerca di maggior qualità del lavoro, di accrescimento professionale dei lavoratori, in quella precarietà che ha trasferito su lavoratori e lavoratrici le conseguenze alla via bassa dello sviluppo. In sintesi: lo spostamento sui lavoratori dei rischi del fare impresa.

Quale straordinaria differenza dal 1978! E ancora si potrebbe sottolineare che invece di avere attenzione ai redditi, si continua ad agire sulle accise, attuando una politica dei redditi senza nessun controllo dei prezzi.

Quanta disattenzione, poi, alle proposte vere della Cgil, quando indichiamo come priorità un Piano per il Lavoro, che per noi affronta i grandi temi del paese e interroga equità e crescita non come mantra per edulcorare, ma come scelte che devono intervenire sulla responsabilità e i comportamenti di ciascuno, se si vuole dare senso alla riduzione della diseguaglianza e riparlare di futuro.

Il Piano del Lavoro si misura con la funzione dell’intervento pubblico, troppo facilmente archiviato dal liberismo e dai suoi effetti evidenti, sulla funzione del welfare come motore di uno sviluppo attento alle persone e non mera “assicurazione” o costo, sulla funzione dello sviluppo che ha esaurito la spinta propulsiva del puro consumismo.

Ancora, un Piano del Lavoro per giovani e donne del nostro paese a cui non possiamo solo raccontare che avranno meno tutele perché i padri gli avrebbero mangiato il futuro. Un Piano per il Lavoro che voglia bene al nostro paese, non solo perché la Cgil (per troppo tempo da sola) ha indicato che non fare politiche industriali e di sistema ci avrebbe portato al declino, ma perché non ci sfugge il pericolo economico e democratico di una crisi prolungata di cui la disoccupazione è primo indicatore.

A noi è chiara l’emergenza così come la necessità di una nuova idea di sviluppo. Per questo, voler bene al paese e voler attivare i giovani, o meglio riconoscergli l’età adulta, può partire dalla scelta pubblica e politica di un Piano del Lavoro. Un Piano per il Lavoro guarda, ovviamente, all’immediato e alla capacità di programmare. In questo quadro intende affrontare anche i nodi della produttività, della contrattazione, della rappresentanza, del mercato del lavoro, e soprattutto del fisco.

Il coro sull’importanza del rilancio della produttività trascura di cimentarsi con le cause del suo declino in Italia. O inventa cause di comodo: qualcuno arriva a teorizzare l’assurdità che sarebbe per colpa dell’articolo 18. Al contrario, la produttività nel nostro paese decresce al crescere della precarietà, che non ha neanche incrementato l’occupazione, producendo, invece, quel lavoro povero su cui sarebbe bene interrogarsi.

Per noi l’urgenza è la riduzione della precarietà che viene prima, molto prima, di altri temi. Nella riduzione della precarietà vi è compresa certamente la riformulazione degli ammortizzatori, su cui da tre anni abbiamo proposto una riforma. Vorrei poi ricordare che la mobilità annunciata dall’intervista di Lama è realtà da molti anni, che la Cigs ha la durata di un anno rinnovabile a due, che comunque ha un tetto, come pure la Cig ordinaria, in ogni quinquennio, che una stagione di riorganizzazione del sistema produttivo non deve disperdere professionalità e competenze. Oppure si deve ritenere che la società della conoscenza è solo dei manager? Credo che sarebbe bene per tutti, discutere fuori dai pregiudizi e dagli slogan facili, e non confondere l’emergenza con l’idea che “qualunque cosa può essere fatta”.

Siamo i primi ad apprezzare che l’Italia sia tornata al tavolo dei grandi, a sostenere sforzi per far ripartire il paese, ma se ogni scelta presenta il conto solo al lavoro (nella finanziaria la cassa sulle pensioni; nelle liberalizzazioni il contratto ferrovie e l’equo compenso dei tirocinanti, ad esempio), abbiamo il legittimo dubbio, anzi la certezza, che si affronta il ” nuovo” con uno strumento antico e che il fine non sia far ripartire il paese, ma “salvare il soldato Ryan”. Se sarà così, non si salverà l’Italia ma una sua piccola parte, che forse non ha bisogno di salvarsi, perché lo fa già tra evasione, sommerso e lobbismo di ogni specie. Questa è un’ipotesi cui non intendiamo rassegnarci. Siamo seriamente impegnati al confronto su crescita e mercato dal lavoro: l’abbiamo preparato con un documento unitario, abbiamo guardato ai modelli europei, fra cui la Germania che usa l’orario ridotto finanziato dallo stato e non licenzia. Ci siamo trovati di fronte ad un documento del ministro, non condiviso da nessuno. Senza nostalgie di nessun tipo pensiamo sia utile proporre un negoziato vero e non affidarsi a ricette preconfezionate il cui fallimento è nei numeri della precarietà e della disoccupazione, a partire dai settecentomila posti di lavoro persi dell’industria in cinque anni.

 

STRALCIO DELL’INTERVISTA A LUCIANO LAMA DEL 1978

Stralcio di una lunga intervista a Luciano Lama, del gennaio del 1978, allora segretario generale della Cgil. Anno che ebbe il suo culmine col rapimento di Aldo Moro. Lama parlava in quell’intervista a nome della Federazione sindacale che vedeva uniti Cgil, Cisl e Uil. In quegli anni furono i sindacati e le classi operaie che difesero la democrazia del paese contro le Brigate Rosse e lo stragismo di Gladio e della P2.

* * *

Quando il sindacato mette al primo posto del suo programma la disoccupazione vuol dire che si è reso conto che il problema è angoscioso e tragico e che ad esso debbono essere sacrificati tutti gli altri obiettivi. Per esempio quello, peraltro pienamente legittimo per il movimento sindacale, di migliorare le condizioni degli operai occupati.

Ebbene, se vogliono esser coerenti con l’obiettivo di far diminuire la disoccupazione, è chiaro che il miglioramento delle condizioni degli operai occupati passa in seconda linea. La politica salariale nei prossimi anni dovrà essere molto contenuta e il meccanismo della cassa integrazione dovrà esser rivisto da cima a fondo. Non possiamo più obbligare le aziende a trattenere un numero di lavoratori che supera le loro possibilità produttive, né possiamo continuare a pretendere che la cassa integrazione assista in via permanente i lavoratori eccedenti. La cassa può assistere i lavoratori per un anno e non oltre salvo casi eccezionalissimi che debbono essere esaminati dalle commissioni regionali di collocamento.

Insomma, mobilità effettiva della manodopera e fine del sistema del lavoro assistito in permanenza. Si tratta d’una svolta di fondo. Dal 1969 in poi il sindacato ha puntato le sue carte sulla rigidità della forza-lavoro, ma ora ci siamo resi conto che un sistema economico aperto non sopporta variabili indipendenti. I capitalisti sostengono che il profitto è una variabile indipendente.

I lavoratori e il sindacato, quasi per ritorsione, hanno sostenuto che il salario e la forza-lavoro sono variabili indipendenti. Sono sciocchezze perché in un’economia aperta le variabili sono tutte dipendenti una dall’altra. Se il livello salariale è troppo elevato rispetto alla produttività, il livello dell’occupazione tenderà a scendere e la disoccupazione aumenterà perché le nuove leve giovani non troveranno sbocco. Naturalmente non possiamo abbandonare i licenziati al loro destino. Il salto che si fa ammettendo il principio del licenziamento degli esuberi e limitando l’assistenza della cassa integrazione a un anno è enorme ed è interesse generale quello di non rendere drammatica ed esplosiva questa situazione sociale. Perciò dobbiamo tutelare con precedenza assoluta i lavoratori licenziati.

Alla base di tutto però c’è il problema dello sviluppo. Se l’economia ristagna o retrocede la situazione sociale può diventare insostenibile. La sola soluzione è la ripresa dello sviluppo. Quando si deve rinunciare al proprio “particulare” in vista di obiettivi nobili ma che in concreto impongono sacrifici, ci vuole una dose molto elevata di coscienza politica e di classe. Si è parlato molto, da parte della borghesia italiana, del guaio che in Italia ci sia un sindacato di classe. Ebbene, se non ci fosse un’alta coscienza di classe, discorsi come questo sarebbero improponibili. Abbiamo detto che la soluzione delle presenti difficoltà e il riassorbimento della disoccupazione sta tutto nell’avviare un’intensa fase di sviluppo. Per collaborare a questo obiettivo noi chiamiamo la classe operaia ad un programma di sacrifici, ad un grande programma di solidarietà nazionale.

Naturalmente tutte le categorie e tutti i gruppi sociali debbono fare altrettanto. Se questo programma non dovesse passare vorrebbe dire che avrebbero vinto gli egoismi di settore e non ci sarebbe più speranza per questo Paese.

* * *

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