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Commons, un nuovo modo di pensare ai beni comuni

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Commons, un nuovo modo di pensare ai beni comuni

Pubblicato il 20 novembre 2012 by redazione

Per gli economisti e i sociologi, che studiano i beni comuni a livello globale, i commons sono le risorse materiali o immateriali condivise, cioè quelle che non sono di qualcuno in particolare e neppure rivali (cioè il cui uso da parte di qualcuno ne impedisca l’uso da parte di qualcun’altro), e che quindi sono usate (o prodotte) genericamente dalle comunità grandi e piccole.

Elinor OstromElinor Ostrom

La gestione dei beni comuni della collettività è rimasto uno tra i nodi più antichi, non ancora sciolti, della nostra civiltà. La domanda è sempre la stessa: come utilizzare le risorse comuni evitando eccessivi sfruttamenti e costi insostenibili. La privatizzazione è stata l’unica via fin qui sperimentata, ma ne esisterebbero altre che consentirebbero di creare istituzioni di autogoverno permanenti. Questo è quanto afferma Elinor Ostrom, Premio Nobel per l’Economia nel 2009, che ha postulato che i commons possono essere governati dal basso, assicurando così equità, rispetto degli ecosistemi e pari opportunità alle generazioni che verranno. Una via alternativa dunque, che spariglia completamente il sistema secolare della privatizzazione delle risorse, che imbriglia ancora oggi le politiche ambientali, ingessate da divieti, tasse, e limitazioni di ogni sorta al consumo. Questo nuovo modello genererebbe capitale sociale per e nelle comunità coinvolte e una maggior consapevolezza e responsabilità nello sperimentare nuovi modelli di gestione per risolvere le difficili situazioni in corso.

La nuova era post-industriale

La frenetica corsa alla produttività intensiva e massiccia, all’insegna di un imperante consumo per il consumo, è costato all’ambiente e all’umanità un innegabile degrado. Culturalmente ne è anche conseguito uno stravolgimento etico e valoriale del fare, e fare bene. Ora da più parti si avverte la necessità sempre più forte di un’inversione di tendenza. Molte sono infatti le iniziative che prospettano e sperimentano una nuova frontiera industriale, orientata a un ritorno alle origini. L’idea è quella di promuovere un sistema che pur avvalendosi di alte tecnologie, per dimensione e necessità produttive, si collochi a un livello quasi artigianale. L’obiettivo finale è soddisfare il mercato locale, quello dell’immediato circondario e da questo attingere ciò che serve per produrre quel che il mercato chiede. La nuova formula a chilometro zero, in uscita e in entrata, sia per la filiera produttiva sia per quella distributiva, permetterebbe di risparmiare maggiormente il costo dell’ambiente. Nulla che i nostri nonni non sapessero già.

orti verticali_3orti verticali_2Agricoltura pret-a-porté

Orti futuristi a chilometro zero sono già una realtà di alcune città americane. Questa è la risposta della Columbia University al disastro ambientale in atto in molte zone del pianeta. Si tratta di fattorie verticali costruite sulle pareti esterne di grandi edifici urbani. Una pista meccanica corre tutta intorno alle facciate di questi grattacieli agricoli e trasporta le cassette in cui vengono coltivati diversi tipi di verdure e ortaggi. Per proteggere la filiera agricola, tutto il circuito è rivestito da pannelli di vetro, che permettono alla luce naturale di filtrare e proteggono l’intero microclima dagli sbalzi di temperatura. Il periodo di coltura dei vegetali avviene ai piani alti. L’acqua e le sostanze nutritive vengono portate direttamente alle radici delle piante da un sistema di irrigazione e trattenute dall’argilla pomice che costituisce il terriccio di coltivazione. A crescita ultimata le cassette vengono portate dai “tapis roulants” ai piani inferiori della fattoria, dove il ciclo produttivo si conclude con il raccolto. La distribuzione locale dei prodotti annulla i costi di trasporto, che sono a chilometro zero. Alcuni grattacieli serra sono già attivi a Chicago, New York, Seattle e nel New Jersey. Queste coltivazioni futuristiche rispondono alla mancanza di terra fertile, alla desertificazione che minaccia un terzo del pianeta, alla diminuzione di acqua da cui dipendono le coltivazioni di un quinto delle risorse alimentari della Terra e alla sempre maggior richiesta di cibo dell’umanità. Rimane critico l’ambientalista George Monbiot, per il quale l’energia spesa per mantenere il consumo di luce artificiale di questi edifici è ancora troppo alto rispetto ai benefici. Massimo Iannetta, direttore del laboratorio di agrobiotecnologia, dell’Enea Casaccia, è invece ottimista: “Imparare a gestire edifici con funzioni tanto articolate significa affinare le tecniche di governo dei cicli nutrienti, dell’acqua, dell’energia: tutte competenze che si riveleranno sempre più preziose nel futuro.

Massimo Banziarduino scheda

La visione di Massimo Banzi, co-fondatore del progetto Arduino

Interaction designer, educatore, promotore del movimento hardware open source e co-fondatore del progetto Arduino, Banzi è il fondatore del primo FabLab italiano, da cui è nato a Torino un FabLab/Makerspace, l’Officine Arduino. Nel suo intervento durante una giornata di dibattito svoltosi al Made in Mage, a Sesto San Giovanni, tenutosi il 16 Novembre, Banzi ha ribadito la forza del cazzeggio o meglio del tempo speso a pensare, sperimentare e creare.

Alan_Kay

The Full Alan Kay Quote. “Don’t worry about what anybody else is going to do… The best way to predict the future is to invent it. Really smart people with reasonable funding can do just about anything that doesn’t violate too many of Newton’s Laws!” — Alan Kay, in an email on Sept 17, 1998 to Peter W. Lount

Come diceva Alan Kay, “Non preoccuparti di cosa sta per fare qualcun altro. Il miglior modo per predire il futuro è inventarlo”. Un modello alternativo, dunque, per immaginare l’innovazione, definita da Tim O’Reilly, sostenitore del software libero e dei movimenti open source, come un processo a 4 cilindri. Il primo cilindro è il divertimento: fare una cosa prima di tutto perché è divertente. Il secondo cilindro è sognare in grande. Terzo cilindro è quello di essere capaci di trasformare questo sogno in un’idea, in un prodotto. E alla fine se si vuole che questo sistema funzioni, il quarto cilindro consiste nel dare valore al mondo, più di quello che da questo si prende. Questo plus è quello che genera un sistema positivo e che ha determinato il successo dell’avventura dei fratelli Write, che pur non essendo ingegnieri sognavano di volare, o di Apple che sognava di portare il computer in tutte le case, di Google che con un click aspirava a “cercare e trovare” qualsiasi cosa in tutta la rete.

Il successo di piattaforme come Arduino, che ha realizzato una scheda made in Italy a micro-controller, utilizzata da tutti i creativi del mondo, è stato quello di provare a insegnare e distribuire conoscenza a chi non ha know-how, ma che desidera creare e inventare. Impari facendo e poi scopri i tuoi errori appoggiandoti a una comunità che cazzeggia come te per il piacere di capire e provare a inventare.

E ciò che viene creato dai cazzeggiatori, i maker, diventa valore anche per gli altri che fanno parte della comunità e condividono la piattaforma. Questa condivisione open source si estende a qualsiasi cosa, anche informazione o design e permette a tutti i condivisori di scalare la filiera della creazione fino a partorire un prodotto reale e originale.

di Adriana Paolini

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Quando si fa strada l’antipolitica

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Quando si fa strada l’antipolitica

Pubblicato il 09 giugno 2012 by redazione

democrazia

Perchè, dopo gli anni ’80, la principale occupazione della politica è diventata quella di fare selezione elettorale?

Dal volontariato e l’impegno civile dei primi anni della storia dei partiti, si passa al vivere per la politica, al costruire una classe dirigente non necessariamente rappresentativa di una particolare classe sociale. I nuovi politici non fanno altri lavori e quindi sono attaccattissimi al loro impiego: possibilmente a tempo indeterminato. Quest’andamento non ha consentito, però, negli ultimi vent’anni, il ricambio della classe dirigente e la democrazia è andata in crisi. D’altra parte, risponde qualche studioso della politica, se il ricambio fosse stato troppo frequente, come avremmo potuto verificarne l’operato? Un secondo mandato era necessario. Certo, ma è proprio da questa fase in avanti che la classe politica si stabilizza, diviene più fragile e spesso corruttibile.

Il Francia per contenere questo rischio, l’opinione pubblica ha sempre avuto più spazio e proprio per questo è sempre stata molto temuta dalla classe politica, che è riuscita a controbilanciare efficacemente, operando una continua frizione, accompagnata a volte anche da urli, fischi e megafoni. In effetti, senza frizione, senza mettere in pubblico i problemi, la politica evolve in una pericolosa oligarchia. Ma per disporre di una frizione continua, che garantisca una reale democrazia, occorrono mezzi di comunicazione funzionanti, che facciano informazione al di sopra dei poteri forti e soprattutto non asserviti ad un solo unico padrone. Per mantenere sotto controllo il potere occorre frammentarlo il più possibile e adoperarsi per mantenerlo diviso nel tempo.

Perché la nostra democrazia, come molte altre, è andata in crisi?

La democrazia nasce contro il totalitarismo, concede il voto a tutti, uomini e donne, e conclude il suo perfezionamento, dopo la fine della II guerra mondiale, come compromesso tra il capitalismo industriale e la democrazia rappresentativa. Compromesso quindi tra chi disponeva dei mezzi e chi non li aveva. Chi non aveva mezzi otteneva, in cambio del patto sociale, un lavoro e con esso il diritto di esistere. Il patto era sostanzialmente questo: lavorare, creare dei beni, consumarli, pagare le tasse e quindi ottenere i servizi.

I partiti politici nascevano, quindi, unicamente come mediatori per moderare, attraverso le leggi, i rapporti fra queste due classi, che altrimenti non avrebbero potuto fidarsi le une delle altre perché, chiaramente, in aperto conflitto di interessi.

Il capitalista daltronde, aveva tutto l’interesse a creare questo rapporto perché non solo trovava le braccia che gli servivano per produrre, ma alla fine del ciclo “lavoro, creazione dei beni, consumo dei beni, tasse e servizi”, recuperava il proprio capitale, moltiplicato in modo esponenziale.

Alla fine del ciclo, infatti, i capitali investiti producono beni, destinati agli stessi che li hanno prodotti e che saranno sempre poi gli stessi a consumare, acquistandoli a proprie spese, con il proprio salario, a beneficio degli investitori, che moltiplicheranno così il loro capitale iniziale.

Ora la democrazia sta fallendo proprio perché non c’è più circolazione di capitale. I grandi investitori di allora, oggi, attraverso l’economia finanziaria, non hanno più bisogno di far circolare il capitale, ne tanto meno di garantire un lavoro alle masse. E, a dimostrazione di ciò, si sta riaffacciando la differenza tra classi, perché queste non riescono più ad essere mediate dalla politica, ne tanto meno a essere rappresentate.

La politica ha perso così il suo significato/mandato originario, ed è diventa oligarchica e autoreferenziale. Con la crisi mondiale dell’occupazione, nel mondo occidentale, è poi precipitato tutto il sistema, che diventa sempre più difficile salvare.

Il lavoro, che era infatti il cuore dell’intero sistema, ha cambiato di significato e si è completamente dissociato dai diritti. Anzi, esso stesso non è più un diritto, come invece recita ancora l’articolo 4 della nostra Costituzione Italiana: ” La Repubblica riconosce a tutti i cittadini il diritto al lavoro e promuove le condizioni che rendono effettivo questo diritto. Ogni cittadino ha il dovere di svolgere, secondo le proprie possibilità e la propria scelta, un’attività o una funzione che concorra al progresso materiale o spirituale della società”.

La discussione politica ha perso così di interesse e di conseguenza la democrazia si è svuotata di significato. Perché discutere, protestare, votare. Non serve a nulla. Il leader governa e la massa guarda come in un programma televisivo in cui non c’è controparte, ma solo un pubblico, un audience, che attraverso gli share esprime il suo minor o maggior gradimento. In realtà non riesce a guardare granché, perché non è lei a decidere da che parte guardare.

La democrazia non è in pericolo solo nel nostro paese o in Europa, ma in tutto il mondo occidentale. La globalizzazione infatti costituisce un rischio reale e favorisce l’evolversi di grandi imperi, alcuni già in corsa. La democrazia, invece, richiede spazi piccoli, nei quali le persone possano esprimersi in un reale face to face. Lo spazio mondo è troppo grande e più adatto ai despoti.

L’Europa resta quindi forse l’unica vera candidata a preservare e difendere ciò che lei stessa, in un passato non molto lontano, ha partorito e sempre a lei tocca l’onere di provare a costruire le condizioni per una nuova democrazia, che tengano conto di tutti i nuovi sviluppi, economici e sociali.

Questa società democratica, in cui abbiamo avuto la fortuna di nascere e formarci, sembra oggi così scontata, ma si tratta di uno spazio temporale brevissimo, e unico nella storia dell’umanità, in cui tutte le classi sociali, in un modo o in un altro, erano riuscite a esistere e a esprimersi. La politica deve tornare a fare il suo mestiere e trovare delle soluzioni che imbriglino la finanza con leggi e norme che tutelino tutte le parti sociali e i loro diritti, che non sono più solo quelli di un territorio, piuttosto che di un’altro, ma più spesso sono planetari…e come non potrebbe essere, visto che gli interessi finanziari si estendono a tutto il globo.

I Movimenti e l’antipolitica

“Occorre una nuova politica che rimetta il cittadino al centro”. Questo è ciò che affermano i movimenti delle diverse regioni del mondo, rivendicando la loro autonomia nelle scelte politiche, al di fuori dei partiti, perché non credono che la politica possa più cambiare la società.

Anche i social network hanno dato a questi movimenti una forte spinta e una sede di coesione che ha travalicato le sedi dei partiti, i confini locali e nazionali e ha dato l’opportunità, a persone residenti in diversi angoli della Terra, di mettere sul tavolo della discussione i problemi più urgenti, facendosi loro stessi rappresentanti del bene comune, posizionandosi a livello planetario e saltando a pié pari i ruoli e i luoghi della politica.

La flessibilità della rete, negli ultimi 10 anni, ha infatti contribuito a creare un tavolo di discussione di ampio respiro, estremamente democratico, in cui difficilmente un leader riesce ad imporsi per lungo tempo, perché la discussione di fatto viene gestita da una vera assemblea e non da una struttura gerarchica come quella di un partito.

Per comprendere questi movimenti e le loro richieste occorre comprenderne la leggerezza, la freschezza della loro idea di mondo, senza necessariamente interpretarla come antipolitica, m acome spunto ispirazione per un nuovo corso politico.

Forse la politica, troverebbe in questi movimenti proprio i nuovi spunti di rinnovamento che sta disperatamente cercando e che non coincidono con un leader piuttosto che con un altro, ma con una serie di sentimenti generalizzati che partono da grandi masse di individui e a cui occorre dare forma e consistenza  e per le quali occorrono risposte e riforme istituzionali. Avere il coraggio di creare occasioni di incontro con la gente, gli intellettuali, i giovani e tutti coloro che ne fanno parte o ne condividono le discussioni in atto; e prendersi le proprie responsabilità, in particolare quella di essersi persi per strada, quella parte di società da sempre più viva, creativa e partecipativa, che proprio la politica ha rimbalzato ed escluso dal dibattito della cosa pubblica, usandola solo, opportunisticamente, come fornitrice di parole d’ordine, con le quali vincere le elezioni del momento, per nascondersi, subito dopo, negli impegni di partito e di governo.

E ora non c’è da meravigliarsi se per l’Europa imperversano strani movimenti di destra di pericolosa memoria: per i movimenti, destra e sinistra sono solo parole.

Quest’anno, dal 20 al 22 Giugno, a Rio de Janeiro, si svolgerà il Summit sui problemi della Terra, organizzato interamente dai movimenti, e naturalmente questo appuntamento non figura nell’agenda politica di alcun partito, come manca il Social Forum, che quest’anno compie il suo primo decennio …

di Adriana Paolini

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Le radici della crisi economica del mondo occidentale

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Le radici della crisi economica del mondo occidentale

Pubblicato il 06 maggio 2012 by redazione

L’Italia si sfalda e sfuma il progetto di un’economia nazionale

Triangolo-To-Mi-GeNegli anni 50’ si parlava del Nord Italia come del triangolo industriale, Milano-Torino-Genova, deputato e demandato allo sviluppo del Paese.

Negli anni 80’ cresceva la media impresa, che esportava sul mercato internazionale il “made in Italy” e al triangolo industriale si aggiungevano Treviso, Vicenza, Cuneo e Alessandria: l’occupazione cresceva in maniera straordinaria. Allora la Lombardia era il fulcro del Pil nazionale. Milano, dunque, capitale del terziario e della moda, e Torino votata all’industria; Milano città mercato, Torino l’organizzazione. La Lombardia negli anni si stabilizza e si rafforza e Milano si fa città globale, secondo alcuni la 7° città globale del Mondo. Torino invece resta indietro, perde la sfida e manca l’affaccio sui mercati internazionali.

Nel 2008 inizia la crisi, o meglio si manifesta. Milano, internazionale, sfrutta l’occasione europea e si colloca oltre oceano, non rispecchia più l’Italia risorgimentale che vedeva il Sud come grande serbatoio interno di manodopera a basso costo per le grande industrie del Nord, o per quelle trasversali al Paese come le autostrade, ma guarda ai grandi mercati del mondo, spingendosi verso la produzione di beni immateriali,  completamente scollata dal resto del Paese e ad un certo punto ottusamente votata al federalismo con un’assoluta mancanza di senso dello Stato e di Nazione, fino alle estreme conseguenze, che vedono la nascita della Lega e del Berlusconismo. Una Milano egoista, che sogna per sé e non ne vuol sapere del resto dell’Italia.

Dall’altra parte il Sud dopo varie migrazioni, prima verso l’America, tra la fine dell’Ottocento e i primi quarant’anni del Novecento, poi, alla fine della seconda guerra mondiale, verso il Nord del paese, si rivolge infine allo Stato come Welfaregate, per trovare le risposte ai propri bisogni economici: lo Stato si fa volano dello sviluppo economico e sociale del Paese.

anni50Alla fine degli anni 80’ si tirano le somme di questo forte statalismo, che ora è visto come impedimento allo sviluppo, e si decide di tagliare le strutture pubbliche e insieme a queste anche i grandi poli industriali come, per esempio, quello dell’Italsider, con la dismissione di 5000 operai. Questo è l’inizio della fine della grande industria e al contempo della grande classe operaia. In quegli anni qualcuno, semplificando, denunciava che non c’erano più soldi, che bisognava darsi da fare, che lo Stato assistenziale era finito e che al Sud l’industria non era riuscita a decollare perché c’era stato troppo Stato. Al Nord nel frattempo nascono e fioriscono invece le piccole e medie imprese, orfane di un progetto economico comune e nazionale, che la Lega traduce come ragione e giustificazione del non dover più stare insieme. A seguito di questo e di una maggior globalizzazione, anche lo Stato nazionale perde un po’ della sua funzione, ma soprattutto cambiano i presupposti capitalistici, che evolvono da industria a finanza: il capitale non più ancorato al territorio, va dove vuole, dove ha più convenienza. Nel Sud del Paese le risorse dello Stato si interrompono, così come quelle europee e il Meridione si arena completamente, privato di ogni ammortizzatore sociale. Anche le infrastrutture restano carenti e l’alta velocità riesce ad arrivare solo fino a Napoli. Il centro del Mediterraneo, il cuore del Sud dell’Europa, sembra proprio aver perso l’opportunità di affermare la propria centralità geopolitica e di far emergere tutte le sue possibili valenze, che se ben valorizzate e incanalate potrebbero evolvere in nuove economie sostenibili. C’è poi il problema della criminalità organizzata che con il suo clientelismo e la sua nuova vocazione finanziaria non permette facilmente l’evolversi di aziende e imprese terziarie. Anzi, i fiumi di denaro destinati alle imprese del Sud vengono invece recuperati dalle aziende del Nord e gli impianti acquistati, rivenduti ai Paesi del Terzo Mondo. E’ una battaglia difficile, che si combatte direttamente sul territorio e vede impegnate tutte le forze dell’ordine e della magistratura, ma che ha parte dei suoi gangli, radicati proprio nell’amministrazione e nella politica, troppo legata ai grandi interessi economici del territorio. L’integrità morale è saltata, cosi come la correttezza, e lo sviluppo economico si ritrova strettamente imbrigliato nelle sue maglie, così come il suo destino. Anche per questo l’Europa rappresentava per l’Italia una grande via di fuga, uno sbocco verso lo sviluppo, in ritardo di 40 anni rispetto a tutti gli altri paesi, persino verso la Spagna.


2006 crisi immobiliare degli Stati Uniti d’America

Nell’America di Grissman la politica monetaria pompava prestiti a gogò, e a basso interesse, alimentando bombe speculative, sia per i mutui delle case che per le aziende e invogliando gli americani a vivere al di sopra dei propri mezzi per almeno una decina d’anni. Raggiunto un alto livello di indebitamento individuale rifinanziavano il mutuo, basandosi su una tenuta stabile del valore delle case. Le banche a quel punto, dovendo accollarsi il rischio, decisero di impacchettare questi debiti e di cederli a terze parti finanziarie, facendo così crescere il rischio immobiliare fino all’esplosione della bolla e della crisi totale di tutto il sistema finanziario della cartolarizzazione (alias derivati), che provocò la sfiducia massiccia degli investitori e degenerò in un effetto domino globale, che mandò in crisi imprese e stati: dopo quella del 29’, questa è stata la crisi economica più pericolosa. I governi sapevano già dove si stava andando, ma non dove si sarebbe arrivati. All’inizio era infatti tutto abbastanza scontato: abbassare il costo delle case, facilitare l’accesso ai mutui, spingere verso una ripresa economica, movimentare il denaro liquido. In Spagna l’indebitamento immobiliare è arrivato al 27%. L’azzardo si è spinto molto oltre fino a incriccare il sistema finanziario globale, ma nessuno ha chiesto conto a questi esperti finanziari, confezionatori di derivati avariati, di assumersi le proprie responsabilità. Perché le banche non hanno controllato, perché le società di raiting cinesi, francesi, americane, non hanno segnalato i forti guadagni che entravano a fiumi nelle casse dei protagonisti di questo colossale affare. Quali sono gli organismi mondiali che dovevano monitorare, segnalare e porre rimedio ai danni ancora in essere, creando nuove regole a garanzia di tutti. Sta di fatto che la forbice tra ricchi e poveri si è aperta molto di più. Anche lo squilibrio tra le grandi nazioni come Cina e America è aumentato drasticamente e vede il 50% dei debiti americani concentrati sulle spese militari e solo il 25% sullo sviluppo. Di contro l’impegno cinese sullo sviluppo è massimo e su quello militare è quasi nullo. Risultato: la crescita economica cinese galoppa e la Cina siede ai tavoli più importanti del mondo e fa pesare il proprio voto nelle grandi decisioni globali. Il mondo è visibilmente cambiato e gli stipendi medi cinesi stanno raggiungendo quelli medi americani (lo stipendio di un ingegnere cinese è già pari alla metà di un ingegnere europeo), fermi invece al 1973 (30000 dollari netti all’anno), proprio come lo sviluppo economico americano.


Quo vadis EuropeQuo vadis Europa ?

L’Europa dal canto suo resta unita solo come moneta, interessata unicamente a salvare gli interessi dei paesi membri più forti, ma non a costituire una vera unità economica, politica e sociale: ovunque si sta facendo politica industriale, mediata dal governo e dal sindacato, il governo Obama ne è un esempio lampante, ma non in Europa.

L’attuale situazione produttiva europea, nell’ambito delle aziende manifatturiere è sinteticamente questa: Germania 27%, Francia 11%, Spagna e Inghilterra 11% e Italia (Nord) 6%.

La disparità con il sistema mondo è enorme. C’è di buono che la Cina riconosce ancora oggi il primato della moneta all’euro e non al dollaro, e implicitamente con questa preferenza mette in crisi e sottolinea di non accettare la supremazia, fino ad ora incontrastata, dell’egemonia economica americana. Fatto non da poco se si pensa al peso demografico cinese: 1/5 dell’intero mondo, 22.000 km di binari ferroviari completati entro il 2020, una camicia di buona qualità a un prezzo medio di 5 euro.

In Europa questa pressione-concorrenza con gli altri grandi paesi del mondo non solo sta bloccando la crescita economica, l’occupazione e il potere d’acquisto di uno stipendio medio, ma sta già mettendo in crisi pericolosamente anche i servizi-diritti sociali (scuola, sanità, tutele sindacali e pensioni).

L’Unione Europea ha forti responsabilità verso tutti i Paesi membri perché non ha rifiutato la globalizzazione, ma si è lasciata attrarre anch’essa dai miraggi finanziari e invece di promuovere una vera integrazione, ha promosso solo una politica monetaria a favore di interessi privati, condannando i Paesi membri più poveri a pagare il prezzo e il sostegno delle politiche economiche dei Paesi europei più ricchi.

L’Europa ha dei doveri e delle responsabilità che ormai non può più rifiutare, fosse anche, e non è poco, perché con la sua moneta rappresenta la seconda potenza economica del mondo. Ma come potenza è decisamente stravagante, non dispone neppure di una rappresentanza internazionale unica e siede ai tavoli del mondo con tutti i suoi Stati membri che detengono il potere di voto. Ogni Stato membro mantiene la possibilità di fare nel suo territorio tutto quello che vuole, così ad esempio ogni stato può stabilire dei dazi interni. L’Unione non si fa carico degli impegni presi dalle istituzioni pubbliche locali, né dei debiti che le stesse maturano in ogni singolo Paese. L’Unione non si impegna ad aiutare i Paesi in difficoltà, salvo fargli un prestito. Se però uno Stato membro va a gonfie vele e alza il livello di qualità della vita e dei servizi europei, impone di fatto un impegno economico maggiore agli Stati membri più poveri (un po’ come in una società per azioni quando qualcuno fa un rialzo di capitale: chi non riesce a stare al passo è fuori) che decidono sempre meno e che, per pagare, si indebitano sempre di più proprio con le “banche centrali europee”. Eppure senza Unione Europea, non si resta nel mondo e anche questo è un fatto. Forse davvero,  si dovranno stampare gli eurobond, riservandone una parte per il rilancio economico di tutta l’Unione ma, cosa non meno importante, bisognerà guardare all’Europa come veicolo di salvezza della democrazia. Questa, infatti, investita dalla fine del capitalismo, dagli interessi della nuova finanza, dai nuovi imperi protezionistici, sta scivolando in un pericoloso populismo che richiama echi aberranti neofascisti e antisemiti. I Paesi membri più ricchi hanno dunque una forte responsabilità nei confronti del mondo occidentale, che nei prossimi anni non si dovrà limitare a ricercare soluzioni alla crisi economica, ma che si dovrà seriamente impegnare nella difesa della democrazia.

di Adriana Paolini

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