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L’Italia perde terreno: consumati 8 metri quadrati di suolo al secondo

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L’Italia perde terreno: consumati 8 metri quadrati di suolo al secondo

Pubblicato il 05 febbraio 2013 by redazione

Consumo suoloIn Europa divorato il  2,3%  del territorio e la nostra nazione è oltre la media

Negli ultimi anni il consumo di suolo in Italia è cresciuto ad una media di 8 metri quadrati al secondo e la serie storica dimostra che si tratta di un processo che dal 1956 non conosce battute d’arresto. Si è passati dal 2,8% del 1956 al 6,9% del 2010, con un incremento di 4 punti percentuali. In altre parole, sono stati consumati, in media, più di 7 metri quadrati al secondo per oltre 50 anni. Il fenomeno è stato più rapido negli anni 90, periodo in cui si sono sfiorati i 10 metri quadrati al secondo, ma il ritmo degli ultimi 5 anni si conferma comunque accelerato, con una velocità superiore agli 8 metri quadrati al secondo. Questo vuol dire che ogni 5 mesi viene cementificata una superficie pari a quella del comune di Napoli e ogni anno una pari alla somma di quella di Milano e Firenze.  In termini assoluti, l’Italia è passata da poco più di 8.000 km2 di consumo di suolo del 1956 ad oltre 20.500 km2nel 2010, un aumento che non si può spiegare solo con la crescita demografica: se nel 1956 erano irreversibilmente persi 170 m2 per ogni italiano, nel 2010 il valore raddoppia, passando a più di 340 m2.

Sono questi i risultati dell’indagine ISPRA, la più significativa collezione di dati a livello nazionale che ricostruisce l’andamento, dal 1956 al 2010, del consumo di suolo in Italia con una metodologia di rilevazione, aggiornata in grado di integrare i dati locali con i dati di osservazione della terra a livello europeo. Il lavoro analizza i valori relativi alla quota di superficie “consumata”, incluse aree edificate, coperture del suolo artificiali (cave, discariche e cantieri) e tutte le aree impermeabilizzate, non necessariamente urbane (infrastrutture). Escluse, invece, le aree urbane non coperte da cemento e non impermeabilizzate.

Stima del consumo di suolo in Italia

Anno Consumo di suolo in Italia
1956

2,8%

1989

5,1%

1996

5,7%

1998

5,9%

2006

6,6%

2010

6,9%

Fonte ISPRA, 2013

Stima del consumo di suolo per regione (anno 2010)

Piemonte

4,5% – 6,5%

Valle d’Aosta

< 2%

Lombardia

9% – 12%

Trentino-Alto Adige

2,5% – 4,5%

Veneto

8,5% – 10,5%

Friuli-Venezia Giulia

4,5% – 7,5%

Liguria

5% – 9%

Emilia Romagna

7,5% – 9%

Toscana

5% – 7%

Umbria

3,5% – 6,5%

Marche

4,5% – 8%

Lazio

7,5% – 9%

Abruzzo

2,5% – 5%

Molise

1% – 4%

Campania

7% – 10%

Puglia

8% – 11%

Basilicata

3,5% – 6,5%

Calabria

2,5% – 5%

Sicilia

7% – 8,5%

Sardegna

3% – 5%

Fonte ISPRA, 2013

Stima del consumo di suolo pro-capite in Italia

1956

1989

1996

1998

2006

2010

mq/abitante

 170

 272

 303

 313

 339

 343

Fonte ISPRA, 2013

Nel 1956 la graduatoria delle regioni più cementificate vede la Liguria, superare di poco la Lombardia con quasi il 5% di territorio sigillato, distaccando – Puglia a parte  (4%) – tutte le altre. La situazione cambia drasticamente nel 2010: la Lombardia, superando la soglia del 10%, si posiziona in vetta alla classifica, mentre quasi tutte le altre regioni (14 su 20) oltrepassano abbondantemente il 5% di consumo di suolo.

In base ai dati omogenei e disponibili a livello europeo – ma di minor dettaglio rispetto a quelli nazionali – riportati dal rapporto “Overview on best practices for limiting soil sealing and mitigating its effects”, presentato per la prima volta in Italia dalla Commissione Europea  durante il convegno ISPRA, circa il 2,3% del territorio continentale è ricoperto da cemento.Dai 1000 Km2 stimati nel 2011 dalla Commissione Europea – estensione che supera la superficie della città di Berlino – circa 275 ettari al giorno (1990 e il 2000), si è passati ai 920 km² l’anno (252 ettari al giorno) in soli 6 anni (2000 – 2006). Il risultato è che nel 2006 ogni cittadino dell’Ue consuma 390 m² di suolo, vale a dire 15 m² in più rispetto al 1990. Di questi 390 m², circa 200 m² sono effettivamente impermeabilizzati – coperti da cemento o asfalto- per un totale di 100 000 km.  L’impermeabilizzazione di per sé, ricorda l’Europa, diminuisce molti degli effetti benefici del suolo. Ad esempio, riducendo l’assorbimento di pioggia – in casi estremi impedendolo completamente – si avranno una serie di effetti diretti sul ciclo idrologico e indiretti sul microclima, producendo un aumento del rischio inondazioni. Non a caso, infatti, il Reno, uno dei maggiori fiumi d’Europa, ha perso, 4/5 delle sue pianure alluvionali naturali e Londra il 12% dei suoi giardini in soli 10 anni, sostituiti da circa 2. 600 ettari di manto stradale. Ancora, impermeabilizzando un ettaro di suolo di buona qualità con elevata capacità di ritenzione idrica (4.800 m3), si riduce in modo significativo anche l’evapotraspirazione. L’energia necessaria per far evaporare quella quantità di acqua, equivale al consumo energetico annuo di circa 9.000 congelatori, quasi 2,5 milioni di kWh. In termini economici, supponendo che l’energia elettrica costi 0,2 EUR/kWh, un ettaro di suolo impermeabilizzato comporterebbe una perdita di quasi 500 mila euro. Inoltre, l’espansione urbana e la cementificazione delle aree agricole pongono problemi anche sulla sicurezza e l’approvvigionamento alimentare. Tra il 1990 e il 2006, 19 Stati membri hanno perso una capacità di produzione agricola complessiva pari a 6,1 milioni di tonnellate di frumento (l’1% del loro potenziale agricolo, circa 1/6 del raccolto annuale in Francia, il maggior produttore d’Europa). Numeri tutt’altro che insignificanti visto che, per compensare la perdita di un ettaro di terreno fertile in Europa, servirebbe la messa in uso di un’area dieci volte maggiore.

Commissione europea, 5 febbraio 2013

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Commons, un nuovo modo di pensare ai beni comuni

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Commons, un nuovo modo di pensare ai beni comuni

Pubblicato il 20 novembre 2012 by redazione

Per gli economisti e i sociologi, che studiano i beni comuni a livello globale, i commons sono le risorse materiali o immateriali condivise, cioè quelle che non sono di qualcuno in particolare e neppure rivali (cioè il cui uso da parte di qualcuno ne impedisca l’uso da parte di qualcun’altro), e che quindi sono usate (o prodotte) genericamente dalle comunità grandi e piccole.

Elinor OstromElinor Ostrom

La gestione dei beni comuni della collettività è rimasto uno tra i nodi più antichi, non ancora sciolti, della nostra civiltà. La domanda è sempre la stessa: come utilizzare le risorse comuni evitando eccessivi sfruttamenti e costi insostenibili. La privatizzazione è stata l’unica via fin qui sperimentata, ma ne esisterebbero altre che consentirebbero di creare istituzioni di autogoverno permanenti. Questo è quanto afferma Elinor Ostrom, Premio Nobel per l’Economia nel 2009, che ha postulato che i commons possono essere governati dal basso, assicurando così equità, rispetto degli ecosistemi e pari opportunità alle generazioni che verranno. Una via alternativa dunque, che spariglia completamente il sistema secolare della privatizzazione delle risorse, che imbriglia ancora oggi le politiche ambientali, ingessate da divieti, tasse, e limitazioni di ogni sorta al consumo. Questo nuovo modello genererebbe capitale sociale per e nelle comunità coinvolte e una maggior consapevolezza e responsabilità nello sperimentare nuovi modelli di gestione per risolvere le difficili situazioni in corso.

La nuova era post-industriale

La frenetica corsa alla produttività intensiva e massiccia, all’insegna di un imperante consumo per il consumo, è costato all’ambiente e all’umanità un innegabile degrado. Culturalmente ne è anche conseguito uno stravolgimento etico e valoriale del fare, e fare bene. Ora da più parti si avverte la necessità sempre più forte di un’inversione di tendenza. Molte sono infatti le iniziative che prospettano e sperimentano una nuova frontiera industriale, orientata a un ritorno alle origini. L’idea è quella di promuovere un sistema che pur avvalendosi di alte tecnologie, per dimensione e necessità produttive, si collochi a un livello quasi artigianale. L’obiettivo finale è soddisfare il mercato locale, quello dell’immediato circondario e da questo attingere ciò che serve per produrre quel che il mercato chiede. La nuova formula a chilometro zero, in uscita e in entrata, sia per la filiera produttiva sia per quella distributiva, permetterebbe di risparmiare maggiormente il costo dell’ambiente. Nulla che i nostri nonni non sapessero già.

orti verticali_3orti verticali_2Agricoltura pret-a-porté

Orti futuristi a chilometro zero sono già una realtà di alcune città americane. Questa è la risposta della Columbia University al disastro ambientale in atto in molte zone del pianeta. Si tratta di fattorie verticali costruite sulle pareti esterne di grandi edifici urbani. Una pista meccanica corre tutta intorno alle facciate di questi grattacieli agricoli e trasporta le cassette in cui vengono coltivati diversi tipi di verdure e ortaggi. Per proteggere la filiera agricola, tutto il circuito è rivestito da pannelli di vetro, che permettono alla luce naturale di filtrare e proteggono l’intero microclima dagli sbalzi di temperatura. Il periodo di coltura dei vegetali avviene ai piani alti. L’acqua e le sostanze nutritive vengono portate direttamente alle radici delle piante da un sistema di irrigazione e trattenute dall’argilla pomice che costituisce il terriccio di coltivazione. A crescita ultimata le cassette vengono portate dai “tapis roulants” ai piani inferiori della fattoria, dove il ciclo produttivo si conclude con il raccolto. La distribuzione locale dei prodotti annulla i costi di trasporto, che sono a chilometro zero. Alcuni grattacieli serra sono già attivi a Chicago, New York, Seattle e nel New Jersey. Queste coltivazioni futuristiche rispondono alla mancanza di terra fertile, alla desertificazione che minaccia un terzo del pianeta, alla diminuzione di acqua da cui dipendono le coltivazioni di un quinto delle risorse alimentari della Terra e alla sempre maggior richiesta di cibo dell’umanità. Rimane critico l’ambientalista George Monbiot, per il quale l’energia spesa per mantenere il consumo di luce artificiale di questi edifici è ancora troppo alto rispetto ai benefici. Massimo Iannetta, direttore del laboratorio di agrobiotecnologia, dell’Enea Casaccia, è invece ottimista: “Imparare a gestire edifici con funzioni tanto articolate significa affinare le tecniche di governo dei cicli nutrienti, dell’acqua, dell’energia: tutte competenze che si riveleranno sempre più preziose nel futuro.

Massimo Banziarduino scheda

La visione di Massimo Banzi, co-fondatore del progetto Arduino

Interaction designer, educatore, promotore del movimento hardware open source e co-fondatore del progetto Arduino, Banzi è il fondatore del primo FabLab italiano, da cui è nato a Torino un FabLab/Makerspace, l’Officine Arduino. Nel suo intervento durante una giornata di dibattito svoltosi al Made in Mage, a Sesto San Giovanni, tenutosi il 16 Novembre, Banzi ha ribadito la forza del cazzeggio o meglio del tempo speso a pensare, sperimentare e creare.

Alan_Kay

The Full Alan Kay Quote. “Don’t worry about what anybody else is going to do… The best way to predict the future is to invent it. Really smart people with reasonable funding can do just about anything that doesn’t violate too many of Newton’s Laws!” — Alan Kay, in an email on Sept 17, 1998 to Peter W. Lount

Come diceva Alan Kay, “Non preoccuparti di cosa sta per fare qualcun altro. Il miglior modo per predire il futuro è inventarlo”. Un modello alternativo, dunque, per immaginare l’innovazione, definita da Tim O’Reilly, sostenitore del software libero e dei movimenti open source, come un processo a 4 cilindri. Il primo cilindro è il divertimento: fare una cosa prima di tutto perché è divertente. Il secondo cilindro è sognare in grande. Terzo cilindro è quello di essere capaci di trasformare questo sogno in un’idea, in un prodotto. E alla fine se si vuole che questo sistema funzioni, il quarto cilindro consiste nel dare valore al mondo, più di quello che da questo si prende. Questo plus è quello che genera un sistema positivo e che ha determinato il successo dell’avventura dei fratelli Write, che pur non essendo ingegnieri sognavano di volare, o di Apple che sognava di portare il computer in tutte le case, di Google che con un click aspirava a “cercare e trovare” qualsiasi cosa in tutta la rete.

Il successo di piattaforme come Arduino, che ha realizzato una scheda made in Italy a micro-controller, utilizzata da tutti i creativi del mondo, è stato quello di provare a insegnare e distribuire conoscenza a chi non ha know-how, ma che desidera creare e inventare. Impari facendo e poi scopri i tuoi errori appoggiandoti a una comunità che cazzeggia come te per il piacere di capire e provare a inventare.

E ciò che viene creato dai cazzeggiatori, i maker, diventa valore anche per gli altri che fanno parte della comunità e condividono la piattaforma. Questa condivisione open source si estende a qualsiasi cosa, anche informazione o design e permette a tutti i condivisori di scalare la filiera della creazione fino a partorire un prodotto reale e originale.

di Adriana Paolini

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