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Leoni per Agnelli

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Leoni per Agnelli

Pubblicato il 22 luglio 2015 by redazione

Immagine di apertura

Quando esce nel 2007, il film Lions for lambs, Leoni per agnelli nella traduzione italiana, provoca numerose discussioni sia nella critica cinematografica, sia nella società americana.

L’attore e regista Robert Redford, uno dei volti più importanti del cinema americano, riesce a mettere davanti agli occhi di tutta l’opinione pubblica le contraddizioni della società statunitense, che dopo l’attacco alle torri gemelle di New York, sente minacciati i valori fondanti della democrazia. Lo scollamento fra la società e la classe politica è ormai evidente, la prima troppo distratta e impaurita e la seconda fortemente cinica e detentrice di un potere così grande, che nemmeno il presidente Roosevelt, durante i drammatici anni della seconda guerra mondiale, aveva mai neppure immaginato di poter esercitare.

Il pesantissimo prezzo di questa paradossale situazione viene pagato dalle giovani generazioni americane, che credendo patrioticamente alle parole d’ordine dei loro leader politici, sulla necessità della guerra al terrore e agli Stati canaglia, si sacrificano sui campi della guerra in Iraq e in Afghanistan, dove trovano poi la morte. Si contano 21000 morti, fra civile e militari, di cui solo 2300 saranno soldati americani: il conflitto più lungo della storia americana!

Morti Afghanistan

Morti Afghanistan_2

Sicuramente Robert Redford vuole fare un film non di guerra, ma sulla guerra.

Non un film di denuncia o di sostegno aperto a una tesi politica, dunque, ma un film che mostri la situazione della società americana e in generale di quella occidentale, per stimolare ogni persona a riflettere liberamente, e prendere posizione, superando un’impasse morale che sembra, ormai, affliggere molti.

Redford, regista e attore, è affiancato da un cast di tutto rispetto, in cui figurano Meryl Streep e Tom Cruise, nell’interpretazione magistrale del giovane e arrogante politico in carriera.

Ritornato alla regia, dopo essere stato negli ultimi 7 anni solo davanti alla macchina da presa, Redford si guadagna il favore della critica più tecnica, che gli riconosce il merito di aver costruito una trama mirabilmente inanellata in cui risalta l’interpretazione degli attori, che in un solo giorno restituiscono tutto il senso del film.

Non viene, però, apprezzato il ruolo che Redford ritaglia per sé, quello del saggio professore universitario che si sforza di spronare un giovane studente talentuoso, ma disimpegnato, giudicato un pò scontato e frutto di un furbo calcolo.

È piaciuto anche poco come il film non “affondasse il colpo”, sostenendo apertamente una posizione contro la politica del’Amministrazione Bush.

Ma Robert Redford, da sempre tra i protagonisti di Hollywood più impegnati politicamente (basti pensare solo alla sua attività a favore del Sundance Festival, la festa più rappresentativa del cinema indipendente americano), accetta anche copioni non facili da digerire per l’opinione pubblica del suo Paese: il film I tre giorni del condor, è un’aperta denuncia del potere occulto dei servizi segreti ed è diventato uno tra i film più importanti della cinematografia moderna.

Matthew Michael Carnahan.

Matthew Michael Carnahan.

La costruzione del film e la sua trama

L’idea alla base del film viene allo sceneggiatore Matthew Michael Carnahan, durante una sera a casa, mentre distrattamente vaga tra i canali televisivi.

Colpito da come si possa passare da un servizio sulla guerra in Iraq alle notizie di gossip o di sport, senza alcuna differenza, come se le notizie avessero tutte lo stesso peso, Carnahan si pone delle domande, quelle che saranno poi alla base della sceneggiatura del film: se nessuno può negare che la sicurezza nazionale non sia importante, si può sostenere senza ombra di dubbio che le vite dei soldati siano davvero sacrificabili per salvarne delle altre?

La difesa della libertà può veramente passare attraverso una sua limitazione?

Che Robert Redford, così come Tom Cruise o Meryl Streep, fossero contrari alla strategia militare e alla visione politica del governo repubblicano lo si sa per certo, ma le domande che stanno dietro a questo film, la sete di risposte e di riflessione sono ben più importanti e vanno sicuramente al di là di facili conclusioni.

Probabilmente è questo che convince Redford, così come Tom Cruise, oggi uno degli azionisti di riferimento della compagnia che ha prodotto il film, la United Artists, tra le più antiche degli Stati Uniti (fondata nel 1919 da un gruppo di attori, tra i quali Charlie Chaplin e Douglas Fairbanks) e oggi parte del potente gruppo Metro Goldwin Mayer.

Il film si svolge, come dicevamo, in tre luoghi diversi, ma nella stessa giornata.

Unico filo conduttore la guerra, che ha conseguenze sulla vita di chiunque, che lo si voglia o meno.

Ognuna delle scene, in continua alternanza fra loro, ruota attorno alla vicenda di due ex studenti della facoltà di scienze politiche, Ernest Rodriguez (interpretato da Michael Peña) e Arian Finch (impersonato da Derek Luke) che, convinti della necessità di fare qualcosa per il proprio Paese, lasciano l’università e si arruolano volontari.

Lions For Lambs

Ernest Rodriguez ( Michael Peña) e Arian Finch (Derek Luke) sull’elicottero che li sta portando nella missione fatale.

Sono loro i leoni coraggiosi e speranzosi del titolo del film, inviati in una tragica missione pianificata e gestita secondo le strategie supponenti del Governo americano e del Pentagono.

I due ragazzi cadranno in Afghanistan e la loro morte rappresenterà il tradimento del loro idealismo entusiasta e sincero, lo spreco dei loro talenti e delle loro giovani vite.

Lungo tutto il film si assiste al fallimento della missione e alla tragica morte dei due ragazzi, feriti e circondati dai mujaheddin nella neve delle montagne afghane, dove la superiorità tecnologica statunitense servirà a rendere i responsabili della missione solamente testimoni impotenti della loro morte.

Ma la scena centrale del film è il faccia faccia fra la giornalista d’assalto Janine Roth (Meryl Streep), ormai prossima ai sessant’anni e il giovane senatore Jasper Irving (Tom Cruise), lanciato nella carriera politica.

E sarà attraverso l’intervista della giornalista veterana al giovane politico rampante, che Redford mostrerà i diversi punti di vista sull’opportunità della guerra e sulle strategie per condurla.

Metaforicamente, in questo modo, Robert Reford mette anche a nudo la decadenza della classe giornalistica americana, baluardo durante gli anni Sessanta del diritto d’informazione contro gli abusi e le brutture del potere, di cui ne fu un esempio lo scandalo del Watergate, che portò alle dimissioni del presidente Richard Nixon.

Curiosamente, nel film del 1976 di Alan J. Pakula, Tutti gli uomini del presidente, proprio Redford interpreta il ruolo del giornalista Bob Woodward, a fianco di uno strepitoso Dustin Hoffman / Carl Bernstein.

Immagine 2

Janine Roth (Meryl Streep) intervista il senatore Jasper Irving (Tom Cruise).

 

Nella scena del film Janine Roth sembra esitare: con la sua esperienza potrebbe facilmente mettere in difficoltà il senatore Irving e invece si fa affascinare, quasi condurre dalla sua eloquenza.

Mentre ritorna in taxi al giornale per cui scrive, la giornalista riflette sulle cose che non la convincono e vorrebbe scrivere un pezzo sui quei lati oscuri dell’intervista che proprio non le tornano.

Litiga pesantemente con il caporedattore, il quale cinicamente e realisticamente sottolinea che oggi a dettare la linea del giornale non è la ricerca della verità, ma gli interessi degli azionisti.

Per cui un articolo critico verso il governo, se potenzialmente può allontanare lettori o sponsor, non verrà mai pubblicato.

È la sconfitta della libertà del giornalismo (e di conseguenza, della libertà di parola), ridotto ad altoparlante del potere politico ed economico.

L’amara presa di coscienza, che Redford persegue nel film, viene rappresentata dalla giornalista Janine Roth, che lascia la professione proprio mentre al telegiornale della sera passa la versione delle notizie che lei non voleva dare nel suo articolo.

Dall’altro lato, il senatore Irving incarna in pieno la figura del politico moderno, intelligente e volitivo, ma anche privo di scrupoli morali e di vero talento.

Di questo ruolo Tom Cruise ne da una grande interpretazione, l’incarnazione esatta che Robert Redford voleva far emergere del potere politico.

Cruise / Irving risulta credibile nel sostenere le sue argomentazioni, addirittura quando chiede scusa per gli errori compiuti in passato dal governo, illustrando alla giornalista la nuova strategia per la guerra in corso, ispirata a quanto fece l’Impero Romano nella sua opera di conquista: occupare le alture nel territorio nemico con piccole unità specializzate.

Ma l’impero romano è lontano nel tempo e l’Afghanistan non è la Gallia dei tempi di Giulio Cesare…

Che Irving rappresenti il solito politico moralmente corrotto e interessato solo alla carriera non appare in maniera diretta, ma traspare quasi, come una sensazione, qualcosa che fa nascere il sospetto nella giornalista.

Difatti, la frase che il senatore dice al termine dell’intervista, cioè che non ha alcuna intenzione di candidarsi alle elezioni presidenziali, in una delle scene iniziali del film viene indicata dagli studenti proprio come la frase più tipica del politico bugiardo e corrotto… Jasper Irving è la personificazione degli agnelli, pavidi e inetti, nelle cui mani sono le redini della nazione.

La terza scena riguarda Robert Redford, che interpreta il Professor Sthepen Malley, contrapposto nel dialogo al giovane studente di talento, Todd Hayes, interpretato da Andrew Garfield.

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Il professor Stephen Malley (Robert Redford) e lo studente Todd Hayes (Andrew Garfield).

Il professor Malley era stato l’insegnante all’università di Ernest Rodriguez e Arian Finch, i due volontari partiti per l’Afghanistan, e aveva sempre cercato di infondere nei due ragazzi l’importanza dell’impegno sociale, cercando di orientare il loro entusiasmo.

Durante una esercitazione in facoltà, i due ragazzi presentano un progetto, un sistema di volontariato sociale.

Davanti alle critiche superficiali e allo scetticismo di buona parte dei compagni, i due ragazzi dimostrano drammaticamente quanto credano veramente nella necessità di dover fare qualcosa per il loro Paese, mostrando a tutti le loro domande di arruolamento.

Malley resta profondamente sconvolto: non era quello che avrebbe voluto insegnargli.

Avrebbe voluto trasmettere loro lo spirito dell’impegno, del senso della società, rappresentato dalla famosa frase del presidente John Fitzgerald Kennedy “non pensate a cosa può fare il paese per voi, ma cosa potete fare voi per il Paese”.

Ma i due ragazzi lo travisano, conquistati dal loro stesso entusiasmo, dimentichi di quello che nel film Redford indica proprio come il grande assente nella società americana di oggi (e non solo): il senso critico necessario a interpretare la realtà.

Il professor Malley vede nel giovane e svogliato allievo Todd Hayes l’occasione per non ripetere gli errori, per evitare che un’altra intelligenza vivida venga sprecata, questa volta non sui campi di battaglia, ma sull’altare dell’egoismo e del disimpegno.

Hayes è scettico, vorrebbe lasciare l’università per seguire le sirene delle opportuinità di carriera immediata.

Il dialogo coll’anziano Professore talvolta è teso e pieno di cinismo, come quando Hayes accusa Malley in fondo di essere responsabile dell’arruolamento dei due ex compagni di facoltà, anzi che fosse stato uno dei suoi fini sin dall’inizio.

Lo scontro fra Malley e Hayes rappresenta la lotta contro il torpore che attraversa la società, la tendenza al disinteresse per la cosa pubblica, al delegare al potere politico la gestione del Paese, senza rivendicare il fondamentale diritto di conoscere e di giudicare quanto viene fatto in nome della democrazia.

Il film si conclude con Todd Hayes che ritorna al campus e davanti alla tv parla con un compagno di quel che è successo nel colloquio con Malley.

Dovrà decidere se tornare a lezione il martedì successivo oppure lasciare gli studi per la carriera.

 

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Lo studente Todd Hayes (Andrew Garfield) nella scena finale.

 

Durante il dialogo, notizie di gossip prive di importanza, sport e finanzia, che si susseguono a quelle provenienti dalle zone di guerra, che annunciano la morte in combattimento di altri militari americani, tra cui i due studenti Ernest Rodriguez e Arian Finch.

Come nella situazione che aveva ispirato lo sceneggiatore, Todd Hayes incomincia a pensare alle parole del professore, mentre ascolta la marea di inutili sciocchezze che anestetizzano il cervello del pubblico.

Nella scena finale, il compagno chiede a Todd cosa vuol fare del suo futuro, mentre la camera stringe in primo piano sul suo volto.

A questo punto si apre una quarta scena virtuale, in cui il protagonista è ogni spettatore.

La domanda, in fondo, è rivolta a ciascuno di noi, perché valida ancora oggi: cosa intendiamo farne del nostro futuro?

di Davide Migliore

 

Linkografia

https://it.wikipedia.org/wiki/Leoni_per_agnelli

http://www.filmtv.it/film/37407/leoni-per-agnelli/

http://www.cinemadelsilenzio.it/index.php?mod=interview&id=7496

http://www.cinemadelsilenzio.it/index.php?mod=film&id=7165

http://filmup.leonardo.it/lionsforlambs.htm

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Commons, un nuovo modo di pensare ai beni comuni

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Commons, un nuovo modo di pensare ai beni comuni

Pubblicato il 20 novembre 2012 by redazione

Per gli economisti e i sociologi, che studiano i beni comuni a livello globale, i commons sono le risorse materiali o immateriali condivise, cioè quelle che non sono di qualcuno in particolare e neppure rivali (cioè il cui uso da parte di qualcuno ne impedisca l’uso da parte di qualcun’altro), e che quindi sono usate (o prodotte) genericamente dalle comunità grandi e piccole.

Elinor OstromElinor Ostrom

La gestione dei beni comuni della collettività è rimasto uno tra i nodi più antichi, non ancora sciolti, della nostra civiltà. La domanda è sempre la stessa: come utilizzare le risorse comuni evitando eccessivi sfruttamenti e costi insostenibili. La privatizzazione è stata l’unica via fin qui sperimentata, ma ne esisterebbero altre che consentirebbero di creare istituzioni di autogoverno permanenti. Questo è quanto afferma Elinor Ostrom, Premio Nobel per l’Economia nel 2009, che ha postulato che i commons possono essere governati dal basso, assicurando così equità, rispetto degli ecosistemi e pari opportunità alle generazioni che verranno. Una via alternativa dunque, che spariglia completamente il sistema secolare della privatizzazione delle risorse, che imbriglia ancora oggi le politiche ambientali, ingessate da divieti, tasse, e limitazioni di ogni sorta al consumo. Questo nuovo modello genererebbe capitale sociale per e nelle comunità coinvolte e una maggior consapevolezza e responsabilità nello sperimentare nuovi modelli di gestione per risolvere le difficili situazioni in corso.

La nuova era post-industriale

La frenetica corsa alla produttività intensiva e massiccia, all’insegna di un imperante consumo per il consumo, è costato all’ambiente e all’umanità un innegabile degrado. Culturalmente ne è anche conseguito uno stravolgimento etico e valoriale del fare, e fare bene. Ora da più parti si avverte la necessità sempre più forte di un’inversione di tendenza. Molte sono infatti le iniziative che prospettano e sperimentano una nuova frontiera industriale, orientata a un ritorno alle origini. L’idea è quella di promuovere un sistema che pur avvalendosi di alte tecnologie, per dimensione e necessità produttive, si collochi a un livello quasi artigianale. L’obiettivo finale è soddisfare il mercato locale, quello dell’immediato circondario e da questo attingere ciò che serve per produrre quel che il mercato chiede. La nuova formula a chilometro zero, in uscita e in entrata, sia per la filiera produttiva sia per quella distributiva, permetterebbe di risparmiare maggiormente il costo dell’ambiente. Nulla che i nostri nonni non sapessero già.

orti verticali_3orti verticali_2Agricoltura pret-a-porté

Orti futuristi a chilometro zero sono già una realtà di alcune città americane. Questa è la risposta della Columbia University al disastro ambientale in atto in molte zone del pianeta. Si tratta di fattorie verticali costruite sulle pareti esterne di grandi edifici urbani. Una pista meccanica corre tutta intorno alle facciate di questi grattacieli agricoli e trasporta le cassette in cui vengono coltivati diversi tipi di verdure e ortaggi. Per proteggere la filiera agricola, tutto il circuito è rivestito da pannelli di vetro, che permettono alla luce naturale di filtrare e proteggono l’intero microclima dagli sbalzi di temperatura. Il periodo di coltura dei vegetali avviene ai piani alti. L’acqua e le sostanze nutritive vengono portate direttamente alle radici delle piante da un sistema di irrigazione e trattenute dall’argilla pomice che costituisce il terriccio di coltivazione. A crescita ultimata le cassette vengono portate dai “tapis roulants” ai piani inferiori della fattoria, dove il ciclo produttivo si conclude con il raccolto. La distribuzione locale dei prodotti annulla i costi di trasporto, che sono a chilometro zero. Alcuni grattacieli serra sono già attivi a Chicago, New York, Seattle e nel New Jersey. Queste coltivazioni futuristiche rispondono alla mancanza di terra fertile, alla desertificazione che minaccia un terzo del pianeta, alla diminuzione di acqua da cui dipendono le coltivazioni di un quinto delle risorse alimentari della Terra e alla sempre maggior richiesta di cibo dell’umanità. Rimane critico l’ambientalista George Monbiot, per il quale l’energia spesa per mantenere il consumo di luce artificiale di questi edifici è ancora troppo alto rispetto ai benefici. Massimo Iannetta, direttore del laboratorio di agrobiotecnologia, dell’Enea Casaccia, è invece ottimista: “Imparare a gestire edifici con funzioni tanto articolate significa affinare le tecniche di governo dei cicli nutrienti, dell’acqua, dell’energia: tutte competenze che si riveleranno sempre più preziose nel futuro.

Massimo Banziarduino scheda

La visione di Massimo Banzi, co-fondatore del progetto Arduino

Interaction designer, educatore, promotore del movimento hardware open source e co-fondatore del progetto Arduino, Banzi è il fondatore del primo FabLab italiano, da cui è nato a Torino un FabLab/Makerspace, l’Officine Arduino. Nel suo intervento durante una giornata di dibattito svoltosi al Made in Mage, a Sesto San Giovanni, tenutosi il 16 Novembre, Banzi ha ribadito la forza del cazzeggio o meglio del tempo speso a pensare, sperimentare e creare.

Alan_Kay

The Full Alan Kay Quote. “Don’t worry about what anybody else is going to do… The best way to predict the future is to invent it. Really smart people with reasonable funding can do just about anything that doesn’t violate too many of Newton’s Laws!” — Alan Kay, in an email on Sept 17, 1998 to Peter W. Lount

Come diceva Alan Kay, “Non preoccuparti di cosa sta per fare qualcun altro. Il miglior modo per predire il futuro è inventarlo”. Un modello alternativo, dunque, per immaginare l’innovazione, definita da Tim O’Reilly, sostenitore del software libero e dei movimenti open source, come un processo a 4 cilindri. Il primo cilindro è il divertimento: fare una cosa prima di tutto perché è divertente. Il secondo cilindro è sognare in grande. Terzo cilindro è quello di essere capaci di trasformare questo sogno in un’idea, in un prodotto. E alla fine se si vuole che questo sistema funzioni, il quarto cilindro consiste nel dare valore al mondo, più di quello che da questo si prende. Questo plus è quello che genera un sistema positivo e che ha determinato il successo dell’avventura dei fratelli Write, che pur non essendo ingegnieri sognavano di volare, o di Apple che sognava di portare il computer in tutte le case, di Google che con un click aspirava a “cercare e trovare” qualsiasi cosa in tutta la rete.

Il successo di piattaforme come Arduino, che ha realizzato una scheda made in Italy a micro-controller, utilizzata da tutti i creativi del mondo, è stato quello di provare a insegnare e distribuire conoscenza a chi non ha know-how, ma che desidera creare e inventare. Impari facendo e poi scopri i tuoi errori appoggiandoti a una comunità che cazzeggia come te per il piacere di capire e provare a inventare.

E ciò che viene creato dai cazzeggiatori, i maker, diventa valore anche per gli altri che fanno parte della comunità e condividono la piattaforma. Questa condivisione open source si estende a qualsiasi cosa, anche informazione o design e permette a tutti i condivisori di scalare la filiera della creazione fino a partorire un prodotto reale e originale.

di Adriana Paolini

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Keith Haring: fumetti e lotta contro l’AIDS

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Keith Haring: fumetti e lotta contro l’AIDS

Pubblicato il 12 luglio 2012 by redazione

Keith Haring

“La tela come materiale in sé è meravigliosa. È robusta, può essere venduta e in un certo senso è duratura. Ma mi inibisce. Spendo 8 dollari per una tela di 75 centimetri per 100 e per la pittura a olio; poi vado in paranoia per come riuscirà perché ho speso 12 dollari per quel quadro e penso che debba valere qualcosa. Invece, quando dipingo su un pezzo di carta che ho trovato oppure ho comprato a poco prezzo, e uso l’inchiostro ad acqua, faccio un intero quadro di 120 centimetri per 270 senza aver speso praticamente nulla”. Così, il 14 ottobre del 1978, appuntava sui suoi diari uno dei capi della corrente neo-pop, il padre indiscusso del graffitismo di frontiera, il lungimirante sperimentatore dell’arte pubblica nello spazio urbano: Keith Haring.

Nato il 4 maggio 1958 in Pennsylvania, mostra una precoce predilezione per la grafica di fumetti e di cartoni animati; incoraggiato in questa sua passione dal padre, Allen Haring, dopo il liceo si iscrive all’Ivy School of Professional Art di Pittsburgh, un istituto d’arte commerciale, che frequenta per quattro anni al termine dei quali si iscrive all’università. Ma nel frattempo, sull’onda della nuova contestazione giovanile e della culture hippie datata 1976, abbandona gli studi per girare gli Stati Uniti in autostop, facendo tappa nelle varie città del paese allo scopo di osservare più da vicino i lavori degli artisti della scena americana e soggiornando per diverso tempo a San Francisco, dove inizia a manifestare il proprio orientamento omosessuale.

Forte di questa esperienza di vita, nel 1978 sceglie di recarsi alla School of Visual Art (SVA) di New York: qui trova una prosperosa e alternativa comunità d’artisti che stanno sviluppando il proprio lavoro al di fuori dei circuiti commerciali d’arte costituiti da musei e gallerie, preferendo le strade, le metropolitane, i club e le dance-hall. Dopo aver fatto conoscenza con alcuni degli esponenti della nuova cultura underground, Andy Warhol e Jean-Michel Basquiat per fare dei nomi, decide così di aderire a questa nuova corrente culturale, esponendo le sue opere fra locali di vario genere (il Club 57 su tutti) e vernissage più o meno improvvisati; ma il suo cavallo di battaglia rimane la grafica, che egli decide di condividere con i suoi concittadini adottivi sui muri della metropolitana newyorkese: qui, nel 1980, nota la presenza di un pannello pubblicitario abbandonato ricoperto di carta nera opaca che cerca di abbellire con disegni a fumetto realizzati a gesso bianco.

Dal 1980 al 1985 omini stilizzati bianchi invadono la metropolitana della Grande Mela, rendendola non solo un “laboratorio” per promuovere idee e sperimentare linee grafiche, ma anche un vero e proprio museo a cielo aperto, dove Haring si fa conoscere e addirittura arrestare. Inizia così una (breve) vita di successo, che esplode nel 1982 alla Tony Shafrazi Gallery della frizzante SoHo, grazie alla quale approderà alla Documenta 7 di Kassel, alla Biennale di San Paolo e alla Withney Biennal.
Nell’aprile del 1986, poi, apre a New York il primo Pop Shop (il secondo, datato 1988, si trova a Tokyo), dove è possibile acquistare t-shirts, giocattoli, posters, magneti e accessori recanti le sue opere più famose: il negozio vuole così permettere la fruizione dell’arte di Haring al grande pubblico, che può a sua volta acquistare prodotti di qualità a basso prezzo, e dà inoltre la possibilità di vedere l’artista lavorare live.

Keith Haring AIDS

Ma nel 1988 la sua carriera viene stroncata dall’AIDS: “Nella mia vita ho fatto un sacco di cose, ho guadagnato un sacco di soldi e mi sono divertito molto. Ma ho anche vissuto a New York negli anni del culmine della promiscuità sessuale. Se non prenderò l’AIDS io, non lo prenderà nessuno”, aveva da poco dichiarato alla rivista “Rolling Stone”. Nel 1989, un anno prima di morire, fonda la Keith Harin Foundation, che si propone tutt’oggi di continuare la sua opera di supporto alle organizzazione no-profit a favore dei bambini e della lotta contro l’AIDS. Muore il 16 febbraio 1990, all’età di 31 anni.

Durante la sua breve ma intensa carriera, Haring ha fortemente influenzato la morale pubblica realizzando opere di intenso significato sociale con le quali ha invaso gli spazi pubblici delle città: la lotta contro la malattia, la pace, la dignità umana, sono messaggi che l’artista ha lasciato ai cittadini di più di 100 città nel mondo, tra le quali New York, Londra, Tokyo, Amsterdam, Pisa e San Francisco. Il suo successo ha inoltre contribuito alla formazione di una vera sensibilità artistica nei confronti della nuova forma d’arte urbana: immediate, semplici e dirette, le sue composizioni attirano l’attenzione di chi guarda a più livelli, da un piano più superficiale e divertito a uno graffiante e allucinato.

di Clara Amodeo

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