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I 43 ragazzi della scuola per maestri di Ayotzinapa

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I 43 ragazzi della scuola per maestri di Ayotzinapa

Pubblicato il 28 maggio 2015 by redazione

Scomparsi nel vento 

I volti dei 43 giovani aspiranti maestri scomparsi, reinterpretati da artisti messicani dello stato di Guerrero.

I volti dei 43 giovani aspiranti maestri scomparsi, reinterpretati da artisti messicani dello stato di Guerrero.

 

Nella storia del Centro e del Sud America, anche in quella più recente, molte pagine sono state scritte con la violenza e il terrore.

Quasi si trattasse di un ineluttabile destino degli stati di questa grande area continentale.

Storie di povertà e di ingiustizia sociale, ma anche di lotta per il potere.

I fatti accaduti nella notte del 26 settembre 2014 in Messico, nello Stato di Guerrero, nella città di Iguala, però hanno segnato profondamente non solo la società messicana, ma anche quella degli altri Paesi latino americani, creando uno spartiacque col passato.

In quella drammatica notte 43 studenti di una scuola rurale sparirono nel nulla, dopo essere stati fermati dalla polizia, altri sei vennero uccisi e più di venti restarono seriamente feriti.

Fondamentale per avere suscitato una ondata di indignazione internazionale è stato che si trattava di giovani inermi, figli di famiglie umili della campagna messicana, forse il fatto che autori del crimine siano stati poliziotti, proprio loro che avrebbero dovuto proteggere i cittadini dal crimine.

Nei mesi successivi, la ricerca dei ragazzi scomparsi  ha portato alla scoperta di fosse comuni e di resti umani attorno a Iguala, portando alla luce la realtà di violenza e corruzione in cui si dibatte da venti anni il Paese, costringendolo a fare i conti con la degenerazione della democrazia messicana.

Anche se in quelle fosse non furono rinvenuti in realtà i resti dei giovani studenti, ma di altri sventurati: anzi, questo fatto ha segnato la voglia del popolo messicano di dire basta, di non tollerare più e di tornare a chiedere il ritorno a uno stato di diritto.

 

Giovani maestri

I 43 ragazzi della scuola rurale per maestri di Ayotzinapa lottavano per avere un’istruzione, una professione, che evitasse loro il destino di migliaia di altri ragazzi, connazionali e non.

Destino fatto di servitù ai signori del narcotraffico, che col suo fiume di denaro sporco causa la morte di migliaia di persone ogni anno.

Oppure il destino degli emigranti, che tentano di attraversare  la frontiera con il grande, ricco e talvolta ingombrante vicino americano.

Dall’altra parte la speranza di un futuro migliore, almeno per i propri figli, assieme alla certezza di anni di lavoro come braccianti in California o lavapiatti in Texas, senza documenti in regola.

Chi si iscrive in queste scuole non solo vuole una istruzione per se, ma vuole tentare di strappare a questo stato di cose il maggior numero di ragazzi possibile, dare a tanti un futuro migliore.

Nate dopo la rivoluzione del 1900, le scuole rurali per maestri erano state il fulcro dell’alfabetizzazione in Messico.

Tradizionalmente orientate politicamente a sinistra, negli anni ’30 del secolo scorso erano arrivate a 36, ma molte vennero via via chiuse dal governo federale messicano, mentre procedeva la normalizzazione della vita sociale e l’uscita dal periodo dell’emergenza rivoluzionaria.

Nel 1968 ne erano rimaste 14.

Mentre si tornava man mano alle solite diseguaglianze di potere e reddito fra classi sociali, fra Stato e Stato (il Messico è una repubblica federale), fra città e campagna: le scuole restarono sempre un baluardo di denuncia delle ingiustizie e di formazione della coscienza popolare.

La scuola di  Ayotzinapa, aperta nel 1926, accoglie ogni anno 140 nuovi aspiranti maestri.

Anche se la retta è gratuita e lo stato sostiene il mantenimento dei futuri insegnanti versando 50 Pesos, circa 3 Euro, al giorno, la vita è tutt’altro che facile.

Gli studenti devono alloggiare in baracche, con letti di fortuna e mobili fatti con cassette e materiali di scarto.

La scuola viene autogestita dagli studenti in ogni aspetto logistico, ma l’aiuto della popolazione è fondamentale. Ayotzinapa è un esempio classico delle scuole rurali messicane.

Dato che per poter ottenere il diploma è necessario anche andare a sostenere esami e svolgere il praticantato in città, i pochi automezzi malridotti della scuola non bastavano di certo.

Così gli studenti si sono specializzati, sopratutto negli stati più poveri della federazione, nel prestito forzato dei mezzi di trasporto.

Ovvero, gli studenti vanno alla più vicina stazione delle corriere o si appostano alle fermate.

Scelgono un pullman e lo occupano, informando passeggeri e autista che l’autobus è prelevato per i fini didattici della scuola.

Questo vuol dire che gli autisti, una volta accompagnati i ragazzi alla loro meta, li attendono anche per settimane. Spese di carburante e vitto sono assicurati dagli studenti, i quali talvolta vanno a chiedere un aiuto ai dipendenti dei caselli autostradali, “convincendoli” a devolvere l’incasso giornaliero per le necessità della scuola….

Le autorità hanno sempre condannato queste azioni come furti, cercando di fermarle con azioni della polizia.

Il governatore dello stato di Guerrero, Angel Heladio Aguirre Rivero (dimessosi il 23 ottobre 2014), durante un’intervista sostenne che a sobillare gli studenti erano agitatori e terroristi di una qualche formazione, pronta a cavalcare il disagio sociale, non l’effettivo stato di indigenza delle scuole rurali.

 

La notte dell’orrore

I fatti di quel 26 settembre sono noti grazie alla testimonianza coraggiosa di 14 studenti scampati agli eventi, di alcuni cittadini di Iguala, il luogo della scomparsa dei ragazzi, insieme a 4 giornalisti locali, presenti per un evento politico.

Tutto è partito dalla volontà dei ragazzi di partecipare alle celebrazioni di Tlatelolco, per commemorare l’uccisione, avvenuta il 2 ottobre del 1968 durante una manifestazione, di centinaia di studenti universitari da parte della polizia antisommossa .

Purtroppo la violenza usata dalle autorità è una amara costante nella vita sociale del Messico, lo è stata di più in passato, certamente, ma oggi, con interi stati assoggettati agli interessi dei narcos e dei politici corrotti è tornata a salire pesantemente.

Già nel 2006 sotto la presidenza di Vicente Fox Quesada in diverse occasioni lavoratori e studenti erano stati vittime di una repressione con fini politici, per condizionare l’opposizione politica e la denuncia delle ingiustizie sociali.

Durante il mandato del suo successore, Felipe Calderòn, le forze  dell’ordine messicane con la scusa ufficiale della guerra al narcotraffico dilagante, si sono rese responsabili di tutta una serie di arresti illegali, torture, omicidi e sparizioni (denunciate anche da Amnesty International), che hanno riportato sul Messico un’ombra sinistra.

Nel novembre del 2010 due studenti dell’Istituto Tecnologico di Monterrey, Jorge Antonio Mercado e Javier Francisco Arredondo, vennero prelevati da un commando di militari, uccisi e i loro volti sfigurati, per poi tentare di presentarli come appartenenti al famigerato gruppo criminale Los Zetas.

Questi fatti, come le centinaia di campesinos massacrati dai narcos con la complicità delle forze speciali dell’esercito (un fatto successo nel 2011 nella città di Allende) suscitarono la nascita di movimenti di protesta della società civile.

Il Movimento por la paz con justicia y dignidad, guidato dal poeta Javier Sicilia, denunciò apertamente che non tutti i morti nella guerra al narcotraffico erano criminali affiliati alle bande, al contrario molto spesso erano persone innocenti, che avevano a cuore la democrazia e la giustizia nel Paese.

Era anche per tutto questo che i ragazzi di Ayotzinapa volevano andare a manifestare a Città del Messico.

Ma gli autobus già in possesso della scuola come sempre non bastavano, così nel pomeriggio un gruppo di studenti del secondo e del primo anno andarono a Huiutzco, a circa 100 chilometri dalla scuola, per prelevare almeno un altro autobus.

Secondo alcuni studenti la situazione era tranquilla, sembrava quasi di essere a una gita scolastica.

Dopo esser riusciti a fermare un bus, l’autista chiese ai ragazzi di fare tappa nella città di Iguala, per lasciare gli altri passeggeri e chiedere l’autorizzazione a seguire gli studenti.

Il pullman con 9 studenti e l’autista arrivò a Iguala verso le 20.00 della sera.

A poca distanza dalla stazione delle corriere, in Plaza Civica de las Tres Garancias, i vertici politici della provincia, assieme a circa 4.000 persone fatte arrivare per l’occasione, ascoltavano, almeno ufficialmente, il rapporto annuale dell’Agenzia per lo sviluppo della famiglia.

In realtà era un evento di pubblicità elettorale, organizzato dal sindaco José Luis Abarca per la moglie, Marìa de Los Angeles Pineda, in corsa per succedere al marito nella carica.

Abarca era stato accusato apertamente dagli studenti e da molte organizzazioni civili di peculato e uso personale del danaro pubblico, di aver trasformato Iguala in un feudo personale.

La famiglia della moglie era stata indicata spesso come a capo del gruppo criminale Guerreros Unidos, i cui componenti in gran parte sono anche agenti di polizia.

 

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Un agente speciale della polizia nello Stato del Guerrero.

 

Per molti,  Guerreros Unidos e polizia locale erano ormai la stessa cosa.

Abarca minacciò personalmente un giornalista perché smettesse di denunciare questi fatti, tra cui anche la morte dell’attivista Arturo Hernandez Cardona, pare ucciso personalmente da Abarca.

Ma gli studenti sul bus quella sera non sapevano della manifestazione elettorale, come della presenza di Abarca e il suo entourage.

Vedendo l’autista attardarsi a parlare con degli agenti, i ragazzi temerono di essere denunciati, così chiamarono i loro colleghi ancora fuori in autostrada col telefonino.

Gli altri due bus di studenti giunsero a Iguala poco dopo: assieme ai nove ragazzi già sul posto sequestrarono altri 3 bus.

Adesso, distribuiti su 5 automezzi, i leader del gruppo chiesero agli autisti di andare via, c’era qualcosa di strano che non faceva stare tranquilli gli studenti più anziani, quasi un presentimento…

Due bus andarono verso l’autostrada, ma gli autisti degli altri 3  decisero di attraversare la città, passando vicino alla Plaza civil, dove la manifestazione politica era finita e alcune bande musicali intrattenevano il pubblico.

Nonostante le proteste dei ragazzi, l’autista del bus in testa al convoglio viaggiava molto lentamente.

Quando arrivarono alla Plaza Civil, furono immediatamente circondati dalle camionette accorse a sirene spiegate e dagli agenti antisommossa.

Gli studenti scesero dai bus e cercarono di aprirsi la strada lanciando pietre e oggetti raccolti da terra e già portati sui mezzi, nell’aria c’era già qualcosa di strano e si erano preparati a difendersi.

Ma la polizia iniziò subito a sparare sui bus.

Nonostante questo, gli studenti riuscirono a sfondare il blocco, dirigendosi verso il Periferico Norte, un viale a  scorrimento veloce.

Inseguiti dalle camionette, da cui proveniva un forte tiro di armi automatiche, i tre pullman vennero bloccati da un’altra autoblindo proprio all’ingresso del Periferico.

A quel punto l’autista del primo autobus fuggì, mentre gli studenti cercavano di liberare il blocco, come avevano fatto poco prima.

Ma dai mezzi della polizia partì una nuova raffica di colpi.

Gli studenti più anziani avevano rassicurato i novellini: che erano spari in aria, per spaventare e disperdere le persone.

Ma i colpi erano ad altezza di uomo, sparati contro i finestrini dei bus, sugli studenti allo scoperto sulla strada, gli agenti chiaramente sparavano per uccidere.

Lo studente Aldo Gutierrez Solano fu il primo a cadere, colpito alla testa.

Mentre i compagni cercavano riparo tra gli autobus, tirando sassi sui poliziotti per allentare la loro presa, qualcuno disperatamente tentava di chiamare un’ambulanza.

Quando questa arrivò, ai paramedici fu impedito di attraversare il campo di battaglia, dovettero fare un giro attorno agli autobus per raggiungerlo. Solano arrivò già morto al pronto soccorso.

A quel punto i poliziotti irruppero sui pullman, fecero scendere i ragazzi e li stesero sull’asfalto.

Poi, secondo i pochi testimoni sfuggiti alla cattura, dopo circa un’ora e mezza furono brutalmente fatti salire sui furgoni cellulari.

Erano circa 30 ragazzi, dal momento in cui salirono sugli automezzi non se ne seppe più nulla.

Alcuni ragazzi e cittadini riuscirono a scattare foto e a filmare alcune delle scene fortunosamente.

Sono le uniche prove oggettive a sostegno della loro testimonianza.

Gli altri due autobus, che si erano diretti verso l’autostrada, finirono per dividersi nel traffico della sera.

Su uno di questi vi era anche la squadra di calcio di serie C di Ayotzinapa, che rientrava dalla partita con l’Iguala.

I ragazzi videro all’ultimo cavalcavia che l’altro autobus era stato fermato dalla polizia, nonostante i tentativi dell’autista di sfuggire al blocco.

Pure l’autobus della squadra di lì a pochi minuti sarebbe stato fermato.

I poliziotti inseguirono gli studenti su una collina, sparando e urlando, finché questi non sparirono nascosti dalla vegetazione.

Anche sull’autobus della squadra venne aperto il fuoco, senza alcun motivo, causando la morte di un giocatore quattordicenne, dell’autista del bus e di una donna che passava in taxi.

Intanto alla Plaza civil, verso le 23.30 i poliziotti si erano allontanati, dopo aver sommariamente ripulito dai bossoli e dal sangue la strada.

I ragazzi si diedero da fare come potevano per proteggere i resti dello scontro, delimitando i bossoli rimasti e macchie di sangue con indumenti, pietre, anche rifiuti, altrimenti non avrebbero avuto prove dell’accaduto.

I giornalisti presenti nella piazza, assieme a alcuni residenti, si sono avvicinati: l’interno dei bus era pieno di vetri infranti e di sangue, specialmente il terzo.

Da  Ayotzinapa era arrivato un camioncino con alcuni appartenenti al comitato studentesco, i giornalisti avevano appena iniziato a intervistarli quando la sparatoria riprese.

Daniel Solis Gallardo e Julio Cesar Ramirez Nava morirono in quel momento.

Uomini a volto coperto, senza distintivi, sparavano a altezza d’uomo con i fucili d’assalto: ormai per le calle del centro si stava svolgendo una vera caccia all’uomo.

Alcuni ragazzi vennero nascosti nelle case dei dintorni dagli abitanti, altri feriti cercarono riparo in una piccola clinica privata, che però non poteva accogliere tutti.

Gli studenti chiesero al personale almeno di chiamare l’ambulanza per i feriti più gravi.

Arrivò invece dopo circa venti minuti il direttore accompagnato dai soldati del 21mo battaglione di fanteria, che sbrigativamente buttarono fuori tutti.

Intanto i giornalisti presenti nella piazza coraggiosamente continuarono la loro opera di registrazione dei fatti, arrivando verso la 1.30 all’incrocio con il Periferico Norte, il luogo del secondo agguato.

Videro i bossoli, gli autobus crivellati di proiettili e i cadaveri dei due studenti, ma non poterono avvicinarsi perché i soldati presidiavano la zona a armi spianate.

Il giorno dopo, gli studenti scampati , accompagnati dai rappresentanti delle associazioni per i diritti civili si presentarono coraggiosamente alla prefettura di Iguala con la lista dei ragazzi arrestati.

Fu in quel momento che scoprirono che nessuno di loro era arrivato al carcere, la polizia negava fossero stati fermati o arrestati.

Da quel momento iniziò l’incubo per gli amici, per le famiglie, per la società messicana intera.

Nelle stesse ore, una foto dello studente Julio Cesar Mondragon Fuentes iniziava a girare sui social network.

Fuentes era irriconoscibile: il corpo pieno di tumefazioni, il naso e le orecchie tagliati, gli occhi strappati dalle orbite.

Il suo cadavere orribilmente mutilato fu riconosciuto dai compagni di studi solo per gli indumenti che indossava.

Voleva solo un diploma che gli avrebbe permesso di mantenere la moglie e il figlioletto.

Gli studenti, nonostante l’emozione della notte terribile appena vissuta, identificarono almeno 22 poliziotti presenti sul luogo dell’assalto e li denunciarono all’autorità.

 

Quale verità?

Quando la notizia del massacro di Iguala e della sparizione degli studenti incominciò a circolare, il Messico sembrava stesse uscendo dal momento più buio.

Sotto la presidenza di Enrique Pena Nieto, eletto nel 2012, il Paese sembrava essersi riavviato alla normalità civile.

Gli arresti dei capi del cartello dei narcotrafficanti erano diventati numerosi, i membri della polizia e delle forze armate responsabili di violenze e soprusi erano stati denunciati e processati, una cosa difficilmente immaginabile sotto il governo del predecessore Calderòn.

Eppure le stragi, gli attentati erano aumentati rispetto al passato.

Le sparizioni nel 2007 erano state 739, sotto la presidenza di Felipe Calderòn, ma erano arrivate nel 2014 a ben 5.098, con Nieto presidente, almeno contando quelle ufficialmente denunciate.

Coinvolti spesso erano gli emigranti provenienti da altri Paesi latinoamericani, anche loro richiamati dal miraggio di un lavoro come frontalieri almeno, negli stati confinanti con gli U.S.A.

Nonostante tutto, l’aumento degli episodi di violenza, come delle sparizioni, non riusciva a suscitare una scossa nell’opinione pubblica.  C’era una sorta di torpore, di rassegnazione.

L’idea che quelle morti fossero un doloroso corollario della pur necessaria lotta al crimine organizzato frenava la reazione civile.

Nemmeno l’assassinio nel 2011 del figlio del poeta e attivista civile Javier Sicilia era riuscita a smuovere il governo dalle sue posizioni ufficiali.

Ma in realtà si tendeva a negare l’evidenza: il ricorso alla tortura nelle questure era diventato endemico, la corruzione era arrivata a un livello tale che gli esponenti della malavita frequentavano apertamente le più alte cariche dello stato e dei partiti più grandi.

Anzi, in molti stati della federazione, funzionari e agenti erano integrati nelle famiglie mafiose.

Ma la notte del 26 settembre a Iguala ha cambiato le carte in tavola.

 

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Alcune madri dei ragazzi scomparsi protestano pacificamente chiedendo di conoscere la sorte dei loro figli. Nelle mani le foto dei loro ragazzi.

 

Per la prima volta i cittadini messicani sentivano il dolore composto di quei genitori che  chiedevano notizie  di giovani figli scomparsi nel nulla, sentivano la rabbia degli amici testimoni di tanta ferocia inutile, per cui qualcosa cambiò nell’indice di gradimento del presidente.

Un cambiamento  capito al volo da Pena Nieto.

Il 27  settembre gli agenti identificati come presenti durante l’assalto di Iguala vennero denunciati e arrestati, mentre il 30 settembre il presidente Nieto cancellò un viaggio programmato nel Guerrero per motivi meterologici, affermando nelle interviste che sugli omicidi e sulla corruzione le autorità locali dovessero assumersi le loro responsabilità. Un bel gioco allo scaricabarile, non c’è che dire…

Mentre gli inquirenti si limitavano a interrogare studenti e residenti di Iguala sui fatti di quella notte, il procuratore dello stato  aveva indicato in una discarica a Cocula, a pochi chilometri  da Iguala, il luogo dell’ultimo riposo per i 43 sfortunati studenti.

Consegnati dai poliziotti corrotti a una banda di narcos, i sicari di questa si sarebbero occupati dell’uccisione degli studenti e dell’eliminazione dei cadaveri, bruciati assieme ai rifiuti e seppelliti in fosse comuni, almeno secondo le dichiarazioni di un agente corrotto, messo alle strette.

Dopo che effettivamente i medici legali rinvennero resti umani nelle fosse indicate, genitori e parenti degli scomparsi giunsero a Iguala in preda all’angoscia.

In una durissima conferenza stampa, il comitato dei genitori e degli studenti pretese uno scatto di orgoglio dalle autorità: la verità sul destino dei loro figli.

L’inchiesta venne avocata dalla procura federale di Città del Messico, mentre venne incaricato un pool indipendente di medici antropologi argentini per condurre le indagini sui poveri resti ritrovati.

Manifestazioni a sostegno dei genitori dei ragazzi scomparsi sorgevano spontaneamente ovunque.

Quando i primi risultati delle indagini dei medici argentini sul DNA dimostrarono che non si trattava dei ragazzi scomparsi, la rabbia per il tempo perso e per la superficialità delle indagini esplose.

Del resto, l’eliminazione rapida di così tanti cadaveri avrebbe comportato fiamme e colonne di fumo ben visibili a  distanza, cosa che non fu notata da nessuno nei dintorni della discarica.

Per di più, il tempo molto piovoso in quei giorni di settembre avrebbe reso l’opera assai difficile.

Il sindaco di Iguala Josè Luis Abarca, sua moglie Maria de Los Angeles Pineda e il capo della polizia locale di Iguala vennero ufficialmente accusati di aver organizzato l’attacco agli studenti temendo che fossero venuti in città per sabotare la campagna elettorale della signora Abarca, oltre che denunciare pubblicamente le malefatte della sua famiglia.

Il 29 ottobre, durante un incontro col presidente della repubblica Enrique Pena Nieto, i rappresentanti dei genitori e degli studenti di Ayotzinapa dissero senza mezzi termini al capo dello Stato che pretendevano la verità sui 43 ragazzi, che li volevano in fretta di nuovo a casa, vivi. Altrimenti avrebbe fatto meglio a seguire l’esempio del governatore di Guerrero, Aguirre, che si era dimesso il 23 ottobre…

Il 4 novembre i coniugi Abarca vennero fermati a Città del Messico, mentre l’ex capo della polizia restava latitante, ma ormai li fatti di Iguala erano diventati una vergogna per tutto il Messico e la peggiore disfatta politica per il presidente.

Il 7 novembre 2014, durante una conferenza stampa, il Procuratore Generale Jesùs Murillo Karam ricostruì la traballante versione ufficiale sulla fine dei ragazzi, secondo cui in realtà tre appartenenti a una banda di narcos, già identificati,  avrebbero ucciso e bruciato i ragazzi, consegnati loro da pochi poliziotti corrotti, chiuso i resti inceneriti dentro sei sacchi, svuotandoli in un fiume in seguito.

Tranne due, che furono recuperati in seguito dalla polizia durante le indagini.

Nulla quadrava veramente nella versione ufficiale dei fatti.

Perché i colpevoli avrebbero dovuto tenere due sacchi pieni di prove? Come avrebbero fatto pochi narcos in poche ore sotto la pioggia battente, a eliminare completamente ben 43 cadaveri?

Perché non vi era traccia del gasolio e dei pneumatici, che il poliziotto corrotto sosteneva nella sua deposizione essere stati usati per incendiare i corpi?

Perché sarebbero stati uccisi i ragazzi, se non era assolutamente nelle loro intenzioni di quella sera andare a Iguala per la campagna elettorale della signora Pineda?

E sopratutto, perché non erano stati resi pubblici i video degli interrogatori dei 22 poliziotti identificati e arrestai, i tabulati delle comunicazioni della polizia di quella notte, quelli dei cellulari del sindaco, del capo della polizia e degli altri dirigenti del municipio?

Incalzato dalle domande dei giornalisti, Murillo Karam sbottò che si era stancato, si alzò dal tavolo e se ne andò.

 

La protesta per la scomparsa dei 43 studenti e l'uccisione di 6 loro compagni continua ancora adesso e si è allargata non solo nel resto dell'America Latina, ma in tutto il mondo.

La protesta per la scomparsa dei 43 studenti e l’uccisione di 6 loro compagni continua ancora adesso e si è allargata non solo nel resto dell’America Latina, ma in tutto il mondo.

 

L’opinione pubblica nazionale e internazionale si scatenò, i principali giornali dichiararono apertamente che obbiettivo dell’indagine governativa sin dall’inizio non era scoprire la verità sulla notte del 26 settembre 2014, ma nascondere il fatto che a Iguala la polizia è il narcotraffico.

I reparti ombra di poliziotti, bene armati e equipaggiati, che fanno capo alla famiglia della signora Pineda, rapiscono e ammazzano a loro piacimento, il tutto a poca distanza da una base militare.

Dopo la disastrosa conferenza stampa, a Ayotzinapa le finestre della questura vennero prese a pietrate, le macchine della polizia date alle fiamme.

Il 20 novembre, una folla di migliaia di persone accompagnò a Città del Messico i genitori dei giovani studenti desaparecidos durante le celebrazioni del 104° anniversario della Rivoluzione messicana.

Quando il 6 dicembre 2014 il laboratorio di analisi austriaco, incaricato di analizzare i frammenti ossei rinvenuti nel fiume San Juan riuscì a identificare i resti dello studente diciannovenne Alexander Mora Venancio, il Procuratore Murillo Karam si affrettò a dichiarare che i dati scientifici confermavano le confessioni raccolte dai poliziotti arrestati.

La discarica di Cocula era il luogo della morte dei 43 studenti, così come confermati erano le modalità e il movente.

Le dichiarazioni del procuratore generale però vennero immediatamente smentite il giorno dopo dai medici antropologi argentini, che da mesi lavoravano sui resti della discarica.

Nessun dato scientifico poteva indicare con ragionevole sicurezza che i resti recuperati nel fiume San Juan corrispondessero in maniera soddisfacente a quelli rinvenuti nelle fosse comuni della discarica di Cocula.

La fretta del procuratore generale era invece lo specchio fedele della preoccupazione del governo perché il caso venisse definitivamente chiuso, possibilmente secondo la verità ufficiale.

In realtà non esiste a oggi una verità accertata su cosa sia successo agli studenti scomparsi nelle ore successive a quella drammatica notte.

Corrisponde a verità che vennero uccise sei persone, nel corso di due attacchi distinti condotti dalle forze di polizia, ma anche da persone senza distintivi e a volto coperto.

Corrisponde a verità accertata che oltre venti rimasero gravemente ferite e che 43 altre persone vennero rapite. Niente altro più di questo.

Se il destino di Alexander Mora Venancio è stato chiarito, il Paese non si fermerà finché non lo sarà anche quello degli altri 42 ragazzi: fino a quel momento resterà non solo l’incubo dei genitori di Ayotzinapa, ma dell’intero Messico.

di Davide Migliore

 

Bibliografia e Linkografia: 

Non rispondono all’appello” di John Gibler, Internazionale, n. 1089 del 13 febbraio 2015

http://it.wikipedia.org/wiki/Messico

http://archivio.internazionale.it/news/messico/2014/10/23/il-sindaco-di-iguala-accusato-di-essere-il-mandante-della-scomparsa-dei-43-ragazzi

http://www.internazionale.it/opinione/cynthia-rodriguez/2015/04/29/messico-studenti-scomparsi-italia

http://www.corriere.it/esteri/14_novembre_08/studenti-scomparsi-confessano-tre-sicari-uccisi-bruciati-vivi-77e12884-66d5-11e4-a5a4-2fa60354234f.shtml

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La guerra dei droni: un affare da 130 miliardi di dollari

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La guerra dei droni: un affare da 130 miliardi di dollari

Pubblicato il 20 novembre 2013 by redazione

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Piloti da terra, si preparano a guidare in remoto il caccia X-47B.

Su wikipedia si legge che un Drone è un aeromobile a pilotaggio remoto o APR Il suo volo è, quindi, controllato dal computer a bordo del velivolo, sotto il controllo remoto di un navigatore o pilota, sul terreno o in un altro veicolo.

Il loro utilizzo è molto diffuso in tutti i casi in cui tali sistemi possono consentire l’esecuzione di missioni “noiose, sporche e pericolose” (dull, dirty and dangerous) spesso con costi minori rispetto ai velivoli tradizionali.

Noiose, sporche e pericolose, dunque una vera manna dal cielo …

La velocità di diffusione di questi velivoli negli ultimi tempi ha visto schizzare le ordinazioni delle industrie militari, al punto che in alcune aziende si lavora giorno e notte per soddisfare le richieste. Un vero boom economico per il mercato aeromobile, civile e militare, soprattutto americano, cinese e israeliano. Ma la vera novità non è la nascita di un nuovo businnes, quanto piuttosto le implicazioni che un velivolo di questo tipo innescano.

X-47B è un drone americano, costruito per poter decollare e atterrare direttamente su una portaerei, quindi senza alcun vincolo di atterraggio o decollo subordinati alle autorizzazioni di altri Paesi per l’eventuale uso delle loro basi.

Questo drone è un aeromobile grande come un caccia, che viaggia senza pilota e, che grazie all’uso delle portaerei potrà dirigersi ovunque nel mondo, incrementando di molto il suo potenziale spazio aereo, oltre alle aumentate possibilità operative militari, soprattutto negli attacchi missilistici contro obiettivi terroristici in Iraq, Afghanistan, Pakistan e Yemen. Lo stesso ammiraglio Ted Branch, a capo delle forze navali nell’Atlantico, subito dopo il primo decollo di prova, dalle coste della Virginia, ha esclamato “Oggi è una giornata storica”.

L’unico vero problema è che un drone di questo tipo, al momento di un raid militare, anche se supportato da un pilota remoto, potrebbe mietere numerose vittime tra i civili, come è già stato ormai ribadito da più parti nel mondo e negli stessi Stati Uniti.

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Le industrie americane premono per facilitare l’esportazione di droni oltremare.

Le industrie americane costruttrici di guerra cercano, come è ovvio, di influenzare se possibile le scelte politiche del proprio Paese, contribuendo con fiumi di dollari alle diverse campagne elettorali.

Alcuni diplomatici hanno rivelato a WikiLeaks che ci sono regimi, come quelli degli Emirati Arabi Uniti e dell’Arabia Saudita, che hanno già chiesto di poter acquistare droni armati da fornitori americani, anche se finora pare non ci siano riusciti.

In realtà sia la General Atomics sia la Northrop Grumman e altre aziende costruttrici starebbero spingendo le lobby del Congresso a facilitare le attuali restrizioni che regolano l’esportazione di droni.

Attualmente, infatti, le leggi sono molto rigide e servono ad evitare che i droni venduti ad altri Paesi vengano poi utilizzati contro gli interessi americani, come ad esempio dall’Iran.

Queste nuove tecnologie belliche, in effetti, stanno già cambiando il modo di fare la guerra. Chi le possiede, grazie a loro, potrà risparmiare denaro, capitale umano, pattugliare meglio i confini dei propri territori e avere più garanzie di successo nelle azioni militari.

Nessuna meraviglia, quindi che i costruttori di droni militari premano per riuscire a facilitare le vendite oltremare, soprattutto se all’orizzonte intravedono un giro d’affari mondiale, che dagli attuali 7 miliardi di dollari è destinato a crescere entro il 2021 fino 130 miliardi di dollari.

Va sottolineato, infatti, che mentre il prezzo di un caccia F35 si aggira sui 130 milioni di euro, il prezzo di un drone militare oscilla al massimo fra 3,7 e 10 milioni di euro, in particolare per i Reaper di ultima generazione.
Va anche ricordato che negli Stati Uniti, solo negli ultimi 10 anni, il Pentagono è passato da un impiego di droni iniziale di poche decine di unità a un flotta di 7 mila Uav (Unmanned aerial vehicle). Senza contare tutto il mercato indotto delle semplici manutenzioni.

L’Unione Europea pensa a droni Made in Europe: nasce un nuovo consorzio a sostegno del progetto Dassault.

Entro il 2016 Bruxelles dovrebbe aprire lo spazio aereo civile ai droni e la stessa Frontex, l’agenzia militare che controlla i confini europei, sta pensando di impiegare molto presto i velivoli a controllo remoto.

In un documento redatto a Settembre del 2012, dalla Commissione europea, l’UE invita le imprese a investire in questo nuovo mercato che promette miliardi di euro e molteplici applicazioni, non solo in ambito militare, ma anche civile, come ad esempio per il monitoraggio degli eventi di massa, delle calamità naturali o più semplicemente per la supervisione degli spostamenti di migranti in mare in direzione di Lampedusa.

Cassidian, del gruppo franco-tedesco-spagnolo Eads, la francese Dassault Aviation e l’italiana Alenia Aermacchi (Finmeccanica), hanno lanciato un’iniziativa congiunta, con cui chiedono ai rispettivi Paesi di partire nella produzione di un drone di sorveglianza (eventualmente armato) di classe MALE (Medium-Altitude Long-Endurance). Nella lettera comune si legge «Un programma europeo sarebbe in grado di rispondere ai nuovi requisiti delle forze armate e di ottimizzare nel contempo la difficile situazione dei budget della difesa». Assente in questa iniziativa, l’importante colosso inglesi Bae Systems.

In ogni caso l’Europa intende seriamente recuperare un gap di quasi 10 anni di ritardo sulle industrie americane e israeliane. Si tratta in parte di una scelta scontata, perché per poter armare questi nuovi velivoli occorre sempre richiedere l’autorizzazione ai loro produttori statunitensi. E’ già successo all’Italia, che dopo aver acquistato due Reaper americani, che intendeva usare in Afghanistan, attende da più di due anni l’autorizzazione Usa per poterli armare. Anche la Germania ha dovuto abbandonare il programma Euro Hawk perché si è accorta che per armare i vecchi Global Hawk americani e poterli usare in Europa, avrebbe dovuto spendere un sacco di soldi aggiuntivi a quelli già investiti per acquistarli. La Francia, infine, dopo aver comperato alcuni droni, sempre di fabbricazione statunitense, da impiegare in Mali, si è resa conto di poterli usare solo in condizioni di libertà operatività ridotta.

Guardare, perciò, a una produzione di droni europei non è poi così fuori luogo. L’argomento potrebbe già essere discusso questo dicembre, tra i temi dell’ultimo Consiglio Europeo del 2013.

Anche l’Italia si lancia nella progettazione e fabbricazione di droni.

Dopo la Gran Bretagna, l’Italia è stato il primo Paese europeo ad attrezzarsi con droni americani, non armati, a scopo ricognitivo e d’intelligence.

Questa nuova tecnologia, già testata nella guerra in Iraq, ha posto il nostro Paese al primo posto in Europa per competenza e capacità di impiego e anche per lo sviluppo di nuovi velivoli a controllo remoto.

Sono già molte le giovani aziende italiane, specializzate in robotica, che si sono attivate per progettare droni terrestri, aerei e marini, capeggiate dalle big company europee per la Difesa, tra cui Alenia Aermacchi.

L’Italia, quest’anno con Piaggio Aero Industries ha presentato il nuovo aereo Uav P.1HH Hammerhead, sempre per le missioni di sorveglianza, intelligence e ricognizione. Si sta progettando anche il drone killer Male – Medium Altitude Long Endurance – per bombardamenti a lunga gittata. Il progetto, ancora molto riservato, sembra essere già stato avviato da Finmeccanica.

Sigonella

L’Italia è candidata a diventare tra i più grandi Hub mondiali di droni.

Entro il 2017, faranno il loro ingresso, nel “parco macchine” Nato di Sigonella, i primi cinque droni dei 20 previsti, per potenziare il piano Nato Smart Defence (difesa satellitare intelligente), per un investimento di diverse centinaia di milioni di dollari.

Sigonella si prepara così a diventare un grande hub mondiale per i droni.
Da qui Eurosur dell’Ue, proteggerà le frontiere europee, anche usando le moderne tecnologie Uav.
Tra la Puglia, la Sardegna, le basi di Sigonella e Trapani in Sicilia e l’isola di Pantelleria, il nostro ministero della Difesa ha anche creato speciali «corridoi di volo» per gestire al meglio la zona del Mediterraneo.

Dal 18 Ottobre, anche nel Canale di Sicilia, gli UAV sono già al lavoro e affiancano la nave anfibia San Marco, sorvegliando le rotte dei migranti, e la Frontex, deputata a gestire le frontiere esterne dell’UE.

Al momento il parco droni italiani include 6 Reaper (falciatori) e 6 Predator, assegnati al 32esimo stormo della Base di Amendola in Puglia. I 12 aerei teleguidati sono stati acquistati fra il 2001 e il 2008, per un importo complessivo di circa 380 milioni di dollari.

Mentre i Predator sono destinati a operazioni di pattugliamento dei territori, attraverso lo scatto di immagini fotografiche, i Reaper sono in grado anche di sganciare ordigni. Considerando che in Afghanistan ci sono circa 4 mila nostri uomini, oltre a mezzi aerei e terrestri da proteggere, i 6 Predator servono appunto per le ricognizioni e d’appoggio ai militari.

I droni d’attacco Reaper, sono invece impiegati dagli americani nei raid anti-qaedisti in Pakistan e Yemen – dove avrebbero intercettato jihadisti e sventato attacchi terroristici. In occasione della campagna Nato in Libia, del 2011, i Predator italiani sono partiti per aiutare gli analisti americani a identificare i targhet sensibili.

All’inizio di quest’anno, infine, l’Italia ha fornito il supporto logistico ai francesi per il loro intervento in Mali, contribuendo, poi, con i propri droni a rifornimenti e osservazione in volo.

Disposition Matrix e la guerra dei droni.

Da un’inchiesta del Washington Post del 2012, sembra che gli Stati Uniti abbiano creato un sistema, il disposition matrix, che in ogni angolo del mondo individua, cattura e uccide le persone sospettate di terrorismo, attraverso l’impiego anche di droni. Secondo il documento del Washington Post, si calcola che a partire da un primo drone usato per uccidere alcuni presunti membri di Al-Qaeda nello Yemen, le vittime degli ultimi 10 anni siano già più di 3000.

Da un punto di vista strettamente giuridico non esiste una legge specifica per casi come questi, salvo l’autorizzazione del Congresso, successiva ai fatti dell’11 settembre 2001, che consente l’uso della forza militare per fini antiterroristici e più in generale il diritto all’autodifesa. Così è lo stesso Presidente Obama, che sotto la sua personale responsabilità, esamina la lista dei presunti terroristi e ne autorizza l’attacco.

Giuristi di varie parti del mondo non ritengono sia legittimo autorizzare l’attacco a individui di identità ignota, le famose signature strikes, semplicemente sulla base di alcune attività, che siano assimilabili a 14 casi di riferimento specificati dal programma e analizzati da Kevin J. Heller dell’Universitá di Melbourne. Tra le attività indicate vi sono per esempio quelle di: pianificare un attacco; trasportare armi; maneggiare esplosivi; essere in un compound o in un campo di addestramento di Al-Qaeda, essere un uomo ‘in età militare’ in territori in cui sono in corso attività terroristiche, essere in compagnia di militari o muoversi armati nelle zone controllate da Al-Quaeda.

Secondo uno studio pubblicato dall’Università di Staford, il diritto internazionale umanitario (quello applicato in tempo di guerra) che permette l’uso intenzionale di forze letali, unicamente se assolutamente necessario e in proporzione alla situazione, non concorda con questi “omicidi intenzionali e premeditati”.

Anche nello Special Rapporteur dell’Onu, sulle esecuzioni extragiudiziali, si legge: “In base al diritto dei diritti umani, un omicidio mirato, nel senso di un omicidio intenzionale, premeditato e deliberato, eseguito da forze di polizia non può mai essere legale perché, a differenza che in un conflitto armato, non è mai permesso che il solo obiettivo dell’operazione sia l’uccisione”.

La questione è stata, recentemente, di nuovo sollevata alle Nazioni Unite dalla Francia, attraverso un’interpellanza scritta in cui si chiede di aprire un formale dibattito. Jean-Hugues Simon-Michel, durante la Conferenza del Disarmo a Ginevra, ha sottolineato la questione dell’arbitrio degli uomini nel decidere se utilizzare la forza letale. Anche il rappresentante egiziano si è mostrato preoccupato e ha fatto un’altra interpellanza scritta per la messa al bando a priori di questo tipo di armi.

Amnesty International a Human Rights Watch, hanno già dato il via a una campagna di sensibilizzazione dell’opinione pubblica mondiale,  la Campagna “Stop Killer Robots”.

Nel sito della campagna si legge: “Diverse nazioni con eserciti hi-tech, tra cui Cina, Israele, Russia, Gran Bretagna e Stati Uniti si stanno muovendo verso sistemi che danno sempre più autonomia alle macchine nei combattimenti. Se uno o più di loro decidesse di impiegare armi pienamente autonome, un passo ancora più in là rispetto ai droni armati e controllati da remoto, altri potrebbero sentirsi obbligati ad abbandonare le loro politiche restrittive in materia, e tutto ciò porterebbe a una corsa alle armi robotiche. Per cui è necessario ora un accordo per stabilire dei controlli prima che gli investimenti, la spinta tecnologica e nuove dottrine militari rendano difficile cambiare il corso delle cose”.

Nel documento Will I be next? US drone strikes in Pakistan, “Sarò io il prossimo? Gli attacchi con i droni USA in Pakistan”, preparato da Amnesty International negli ultimi mesi, sugli omicidi eseguiti dagli Stati Uniti attraverso i droni nel nord-ovest del Pakistan, Amnesty accusa gli americani di assassinio di civili, terrore, mancata trasparenza e crimini contro l’umanità.

Di recente il segretario di Stato John Kerry ha reso noto che gli attacchi negli ultimi tempi sono diminuiti e che la Casa Bianca starebbe anche pensando di chiudere il programma.

Il terzo millennio sarà quello della guerra dei droni

Secondo un rapporto del Governo di Washington i paesi dotati di droni sono 76. Più di 50 Paesi stanno progettando e costruendo almeno un centinaio di tipi di droni. Di tutti questi Paesi, però, solo Israele, Gran Bretagna e Stati Uniti utilizzano droni armati. I modelli più noti sono i Reaper e i Predator.

Americani e israeliani sono anche i più grandi esportatori di droni. Tra il 2005 e il 2010 gli americani hanno autorizzato il trasferimento di tecnologia a quindici Paesi alleati, tra cui anche Italia, Danimarca, Lituania, Australia, Colombia e Singapore. A maggio del 2012 sul Wall Street Journal si leggeva che gli USA avevano accettato di armare i droni dell’aeronautica militare italiana, ma a Roma l’autorizzazione del Congresso non è ancora arrivata.

Il mercato israeliano delle Elbit Systems e della Israel Aerospace Industries, promuove l’80% delle sue esportazioni verso Gran Bretagna, Asia, America Latina (Colombia, Ecuador, Brasile, Cile, Perù, Venezuela) e recentemente anche India.

Gli americani di General Atomics, invece, con l’autorizzazione governativa firmata, hanno già concluso un accordo con gli Emirati Arabi Uniti per una fornitura non armata di Predator, per un totale di circa 200 milioni di dollari. L’Arabia Saudita ha poi chiesto al Governo di Washington, di poter acquistare droni armati, ma naturalmente la risposta è stata negativa.

Resta l’esercito britannico, la Royal Air Force, con al suo attivo 500 droni, ma l’obiettivo di avere, entro il 2030, un terzo della flotta aerea completamente comandata a distanza. Per questo progetto è anche già stato stabilito il punto di raccolta nella città di Waddington, nel Lincolnshire.

E arriviamo infine alla Cina. Pechino in ritardo, come tutti, rispetto a Stati Uniti e Israele, sta sviluppando i suoi droni, molto simili ai Reaper americani, e che intende utilizzare per sorvegliare i confini con Giappone, India, Vietnam e Filippine e le zone del Pacifico di influenza americana.

A una certa distanza sembra lo scacchiere di un banale Risiko. Di certo l”economia americana ha trovato una via per un suo nuovo e redditizio sviluppo economico, ma anche un modo per mantenere attivo e onnipresente il suo ruolo e la sua supremazia militare nel mondo.

La Guerra dei Mondi, racconta da Herbert George Wells sembra proprio dispiegarsi sopra le nostre teste.

di Adriana Paolini

Linkografia:

– Articolo apparso su Daily Mail “Killer Robot”:

http://www.dailymail.co.uk/news/article-2324571/U-S-Navys-X-47B-stealth-drone-launches-aircraft-carrier-time–critics-warn-heralds-rise-killer-robots.html

– Articolo apparso su The New American:

http://thenewamerican.com/

– Documento redatto a Settembre del 2012, dalla Commissione europea:

http://www.google.it/url?sa=t&rct=j&q=&esrc=s&source=web&cd=1&ved=0CDEQFjAA&url=http%3A%2F%2Fdronewarsuk.files.wordpress.com%2F2012%2F09%2Fec-swd_civilrpas.pdf&ei=a0mJUuj6M4i47Qam9oCYBA&usg=AFQjCNGGv-ftxKARiYjA_6cMyHsJPwgONg&sig2=2s0cfLiU947rIZ39FJBMuw&bvm=bv.56643336,d.bGE&cad=rja

Piano Nato Smart Defence:

http://www.nato.int/cps/en/natolive/topics_84268.htm?

http://www.nato.int/cps/en/natolive/official_texts_87594.htm

– Inchiesta Washington Post:

http://www.washingtonpost.com/world/national-security/plan-for-hunting-terrorists-signals-us-intends-to-keep-adding-names-to-kill-lists/2012/10/23/4789b2ae-18b3-11e2-a55c-39408fbe6a4b_story.html

– Kevin J. Heller:

https://papers.ssrn.com/sol3/papers.cfm?abstract_id=2169089

– Studio dell’Università di Stanford:

http://blogs.law.stanford.edu/newsfeed/2012/09/25/living-under-drones%E2%80%9D-new-report-issued-by-the-international-human-rights-and-conflict-resolution-clinic/

– Special Rapporteur dell’Onu:

http://unispal.un.org/UNISPAL.NSF/0/69633D6116C53C898525773D004E8C13

Interpellanza della Francia durante la Conferenza del Disarmo a Ginevra:

http://www.reachingcriticalwill.org/images/documents/Disarmament-fora/1com/1com13/statements/8Oct_France.pdf

– Interpellanza del rappresentante egiziano durante la Conferenza del Disarmo a Ginevra:

http://www.reachingcriticalwill.org/images/documents/Disarmament-fora/1com/1com13/statements/8Oct_Egypt.pdf

– Campagna “Stop Killer Robots”:

http://www.stopkillerrobots.org/

http://www.unog.ch/80256EE600585943/%28httpPages%29/4F0DEF093B4860B4C1257180004B1B30?OpenDocument

 

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