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Se il petrolio finisse domani… Aftermath: World without oil

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Se il petrolio finisse domani… Aftermath: World without oil

Pubblicato il 10 novembre 2015 by redazione

Intro_petrolio

 

Quanto dipendiamo dall’oro nero lo ha ipotizzato Rob Minkoff

Vi siete mai chiesti cosa accadrebbe se il petrolio finisse domani, all’improvviso? Se non l’avete mai fatto (come è probabile che sia), sappiate che al posto vostro ci ha pensato Rob Minkoff, ideatore per la televisione canadese del documentario Aftermath: World without oil, in cui si ipotizzano gli effetti che avrebbe sulla nostra vita la scomparsa improvvisa di questo combustibile fossile. Il punto di partenza del documentario è sicuramente fantascientifico, in quanto (purtroppo o per fortuna) la fine del petrolio non è così imminente; tuttavia costituisce un’ottima base per andare ad analizzare quanto profonda sia la nostra dipendenza dall’oro nero. Esso, infatti, a causa della sua versatilità e del suo relativamente basso costo di estrazione, viene utilizzato per gli scopi più disparati, dalla produzione di energia (il 90% di quella utilizzata per i trasporti deriva dal petrolio), alla fabbricazione di materie plastiche, fertilizzanti, medicinali, cosmetici e molto altro.

 

Un giorno senza petrolio

AftermathWorldWithoutOil

Il primo giorno dopo la fine del petrolio viene ipotizzato come il più difficile da affrontare dal punto di vista psicologico: i Governi degli Stati, mossi dall’incertezza sul da farsi e dal panico dei cittadini, compiono mosse che cercano di diminuirne il più possibile il consumo. Le Nazioni esportatrici decidono, così, di richiamare le proprie navi cariche di greggio e, in generale, tutti i Paesi fermano i mezzi di trasporto che non ritengono di vitale importanza (compresi gli aerei).

Allo stesso tempo, l’economia e la finanza subiscono un grave tracollo: le contrattazioni in borsa vengono sospese a causa del panico (così com’è avvenuto dopo l’11 settembre) e milioni di lavoratori, legati direttamente o indirettamente al settore petrolifero, rimangono a casa disoccupati.

Uno dei Paesi a subire le conseguenze più gravi sono gli Stati Uniti, che, pur avendo a disposizione una riserva di 725 milioni di barili di greggio, ogni giorno ne importano 8 milioni e ne consumano più del doppio.

 

Cinque giorni senza petrolio

Dopo nemmeno una settimana senza petrolio, il mondo occidentale deve affrontare un numero sempre crescente di difficoltà dal punto di vista socio-economico. Le borse continuano a rimanere chiuse e la disoccupazione si attesta ormai oltre il 30%. Senza combustibile per i trasporti, inoltre, diventa impossibile rifornire di cibo le grandi città, circostanza che causa i primi disordini. Contemporaneamente, però, le persone sono costrette dalla necessità a tenere un comportamento più virtuoso: se prima della fine del petrolio il 30% del cibo veniva scartato (anche a causa di piccole imperfezioni), ora tutto ciò che è disponibile, e non pesantemente avariato, viene consumato.

Anche dal punto di vista dell’approvvigionamento energetico la situazione è in continuo peggioramento e i blackout sono ormai una realtà costante: il 40% dell’energia elettrica è prodotta dalla combustione del carbone, ma le centrali non possono più essere rifornite a causa dell’assenza di carburante per i treni. Nelle città questo implica sempre maggiori difficoltà nel portare avanti i servizi essenziali, in particolare quello sanitario.

 

Trenta giorni senza petrolio

Passato un mese senza petrolio, i Governi hanno ormai razionalizzato l’utilizzo delle proprie riserve, che vengono impiegate quasi esclusivamente per muovere i mezzi di soccorso e i treni, in modo tale da rifornire le città di cibo (anche i treni passeggeri vengono riconvertiti a questo scopo) e le centrali elettriche. Nel frattempo, tuttavia, si è sviluppata la ricerca di fonti alternative: in particolare iniziano gli investimenti nelle colture di canna da zucchero e mais, per la produzione di etanolo, e in quelle di soia, che può essere trasformata in biodiesel. I Paesi che producono già etanolo in grande quantità, infatti, sono ancora in grado di far circolare le proprie auto.

 

Cinque mesi senza petrolio

La prolungata assenza dell’oro nero inizia ad avere il proprio forte impatto anche a livello igienico-sanitario: nelle grandi città la spazzatura non viene più smaltita, andando così a creare enormi accumuli di rifiuti, e, contemporaneamente, negli ospedali inizia a scarseggiare l’equipaggiamento sanitario (per la produzione di gran parte del quale viene utilizzato il petrolio), fenomeno che porta alla diffusione repentina di infezioni.

A livello internazionale, i Paesi estrattori di petrolio sono in enorme difficoltà (si pensi che l’Arabia Saudita basa il 90% della propria economia sull’estrazione del greggio), così come anche quei Paesi che dipendono in gran parte delle importazioni, come il Giappone.

La maggior parte degli Stati ha messo in campo piani per aumentare le colture di cereali e piante che permettano di produrre biodiesel ed etanolo, anche se, data la sempre maggior scarsità di cibo, risulta sempre più difficile scegliere se destinare le colture alla produzione alimentare o a quella di combustibile.

Dal canto loro, i cittadini dei Paesi più freddi cercano di affrontare l’imminente inverno in due modi: riciclando sostanze chimiche e producendo del combustibile in maniera artigianale, oppure dando vita a migrazioni di massa verso luoghi più caldi.

 

Un anno senza petrolio

Dopo 365 giorni senza petrolio, il fenomeno che salta più all’occhio è una sorta di “rivincita” della natura nei confronti dell’uomo: l’assenza di veicoli per le strade e per le città porta alcune specie animali a crescere di numero e ad avvicinarsi ai centri abitati, mentre molte persone, facendo di necessità virtù, iniziano a produrre esse stesse ciò che consumano, creando così dei piccoli orti cittadini. Allo stesso tempo, però, questa rivincita della natura sull’uomo si manifesta anche in maniera dannosa per la stessa umanità, dato che l’assenza di petrolio favorisce maggiormente la diffusione di carestie ed epidemie.

 

Dieci anni senza petrolio

benzina dismessa

Dopo un decennio senza oro nero, le priorità dell’umanità, e con esse la sua organizzazione, sono cambiate. I satelliti, su cui si basa gran parte della comunicazione moderna, non vengono più sostituiti, in quanto non c’è abbastanza carburante per mandarne in orbita di nuovi. Tra i mezzi di trasporto, invece, molte navi vengono smantellate e i suoi materiali riciclati. Non si ha ancora abbastanza carburante per far ripartire gli aerei; tuttavia, grazie alla produzione su vasta scala di biocombustibile ricavato dalle alghe, possono essere rimessi in moto i camion per il trasporto merci. Ogni acro di alga, infatti, produce trenta volta più energia di qualsiasi altro biocombustibile. Viene inoltre riscoperto il valore di tutte le materie plastiche e i componenti elettronici gettati nelle discariche, che vengono riutilizzati.

Contemporaneamente nuovi Paesi si affacciano sulla scena mondiale come leader economici: uno di questi è la Bolivia, che acquista un forte potere economico grazie ai propri giacimenti di litio, componente fondamentale per la produzione di batterie, strumento ormai indispensabile per un’umanità alla continua ricerca di energia da immagazzinare.

 

Quarant’anni senza petrolio

Trascorso quasi mezzo secolo, l’umanità è riuscita a risollevarsi dalla scomparsa del petrolio. La maggior parte dei mezzi di trasporto è tornata a funzionare: alcuni sono alimentati grazie al biocombustibile derivato dalle alghe, altri grazie all’energia elettrica. Tra quelli del secondo tipo vi sono anche le automobili, che però hanno un costo elevato a causa della scarsa disponibilità di litio per produrre batterie. Grazie a questa svolta, comunque, l’inquinamento si è ridotto drasticamente, tanto che solo in Nord America sono venuti meno 3,5 miliardi di tonnellate di agenti inquinanti all’anno. Questa svolta ecologica ha coinvolto anche la popolazione che, dopo essere tornata in parte a ripopolare le aree del nord del pianeta, ha riqualificato i centri urbani creando degli orti cittadini che possano soddisfare i bisogni primari di un mondo ormai non più iperconnesso come quello precedente.

L’umanità ha saputo affrontare una sfida difficile come quella della fine del petrolio e uscirne in maniera vincente, dando vita a una nuova era.

 

Il petrolio finirà presto?

tipi di estrazione

Picco del petrolio e tipi di estrazione.

 

Lo scenario quasi apocalittico previsto da Aftermath: World without oil è sicuramente distante dalla realtà, in quanto la scomparsa del petrolio dalle nostre vite non è dietro l’angolo. Tuttavia è altrettanto certo che l’esaurimento delle riserve di oro nero è una questione che deve essere affrontata fin da ora, dato che probabilmente coinvolgerà già molte delle generazioni attuali. Sul tema esistono svariate ipotesi, ma quelle più accreditate stimano l’inizio del calo della produzione del petrolio in un arco temporale che va dal 2010 al 2030. Questi studi basano i loro risultati sulla teoria, in tema di fonti di energia non rinnovabili, elaborata dal geofisico americano Marion King Hubbert negli anni ’60 del secolo scorso. Hubbert, studiando quanto accaduto per altre fonti di energia non rinnovabili nei decenni precedenti, affermò che la loro produzione segue un andamento “a campana”. All’inizio, quando sono necessari pochi investimenti e vi è grande disponibilità, la sua crescita è esponenziale e i costi si mantengono bassi. Successivamente, con l’esaurimento dei giacimenti più facilmente raggiungibili, si rendono necessari investimenti più costosi che determinano una riduzione dell’estrazione rispetto alla fase precedente, diminuzione che si stabilizza in un preciso momento, chiamato “picco”. Passata questa seconda fase, divengono indispensabili investimenti ancora più onerosi rispetto a quelli iniziali e, quindi, la produzione della risorsa viene progressivamente abbandonata (in quanto non più conveniente) e diminuisce a un ritmo molto veloce.

Hubbert elaborò questa teoria in relazione alla produzione di petrolio negli USA, prevedendo che il picco sarebbe sopraggiunto agli inizi degli anni ’70. Secondo il geofisico americano, durante questo periodo si sarebbero verificati contemporaneamente due eventi: un aumento dei prezzi del petrolio e una fase di instabilità geo-politica, ai quali si sarebbe potuto rimediare trovando altre fonti alternative al petrolio o spostando il centro della produzione in un’altra area. Gli avvenimenti storici hanno dato ragione a Hubbert (tant’è che, dopo la crisi energetica del 1973, il baricentro mondiale del petrolio si è spostato in Medioriente) e così in molti ritengono che, applicando i suoi studi all’estrazione globale di greggio, l’attuale fase sia quella del picco, data la compresenza dell’instabilità politica e dell’aumento dei prezzi del petrolio. A sostegno di questa tesi, peraltro, bisogna sottolineare come negli ultimi anni sia aumentata la produzione dell’oro nero non convenzionale, ossia di petrolio che non viene ottenuto mediante la comune estrazione dai pozzi, ma per mezzo di altre tecniche particolari, segno che quello convenzionale probabilmente inizia a non essere più sufficiente per soddisfare il fabbisogno mondiale.

 

Il passaggio alle fonti di energia sostitutive

La consapevolezza che la fonte d’energia più diffusa sul nostro pianeta sia destinata a scomparire porta a prendere atto del fatto che, quando ciò accadrà, l’umanità intera vivrà un periodo di transizione più o meno lungo in dipendenza da quanto rapida ed efficace sarà la risposta dei Governi. Tuttavia non bisogna scordare come periodi di transizione di questo tipo siano già stati vissuti in passato: la già citata crisi energetica dei primi anni ’70, pur portando con sé un iniziale periodo di incertezza economica (manifestatasi in particolar modo attraverso l’aumento della disoccupazione e un’elevata crescita dell’inflazione), ha dimostrato come simili fasi siano “fisiologiche” per quanto riguarda l’approvvigionamento energetico da parte dell’uomo e come, pertanto, non vi siano da temere scenari apocalittici. Ciò che è certo, però, è che nei prossimi anni non sarà più possibile compiere una semplice rivoluzione geografica, spostando cioè il centro della produzione da un’area all’altra della terra, semplicemente perché non esiste un’altra Arabia Saudita. La soluzione, allora, sarà quella di una rivoluzione tecnologica, che porti possibilmente in primo piano fonti di energia rinnovabili che, a differenza di quelle non rinnovabili (carbone, petrolio, gas naturale o uranio), vengano prodotte secondo metoologie che non seguano l’andamento “a campana” teorizzato da Hubbert, ma si stabilizzino nel tempo.

Ovviamente questo comporterà un profondo cambiamento nel sistema economico (in senso lato) del nostro pianeta, i cui effetti sono però difficilmente prevedibili.

di Alessio Bilardo

 

Linkografia:

http://www.nationalgeographic.it/popoli-culture/2011/01/28/video/l_alba_del_giorno_dopo_-_petrolio_1-175710/1/

https://www.youtube.com/watch?v=S56y0AzwdVk

http://www.aspoitalia.it/index.php/introduzione-alla-teoria-di-hubbert-mainmenu-32

http://www.massacritica.eu/larabia-saudita-corre-verso-il-solare-2/10783/

 

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La guerra dei droni: un affare da 130 miliardi di dollari

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La guerra dei droni: un affare da 130 miliardi di dollari

Pubblicato il 20 novembre 2013 by redazione

drone 2

Piloti da terra, si preparano a guidare in remoto il caccia X-47B.

Su wikipedia si legge che un Drone è un aeromobile a pilotaggio remoto o APR Il suo volo è, quindi, controllato dal computer a bordo del velivolo, sotto il controllo remoto di un navigatore o pilota, sul terreno o in un altro veicolo.

Il loro utilizzo è molto diffuso in tutti i casi in cui tali sistemi possono consentire l’esecuzione di missioni “noiose, sporche e pericolose” (dull, dirty and dangerous) spesso con costi minori rispetto ai velivoli tradizionali.

Noiose, sporche e pericolose, dunque una vera manna dal cielo …

La velocità di diffusione di questi velivoli negli ultimi tempi ha visto schizzare le ordinazioni delle industrie militari, al punto che in alcune aziende si lavora giorno e notte per soddisfare le richieste. Un vero boom economico per il mercato aeromobile, civile e militare, soprattutto americano, cinese e israeliano. Ma la vera novità non è la nascita di un nuovo businnes, quanto piuttosto le implicazioni che un velivolo di questo tipo innescano.

X-47B è un drone americano, costruito per poter decollare e atterrare direttamente su una portaerei, quindi senza alcun vincolo di atterraggio o decollo subordinati alle autorizzazioni di altri Paesi per l’eventuale uso delle loro basi.

Questo drone è un aeromobile grande come un caccia, che viaggia senza pilota e, che grazie all’uso delle portaerei potrà dirigersi ovunque nel mondo, incrementando di molto il suo potenziale spazio aereo, oltre alle aumentate possibilità operative militari, soprattutto negli attacchi missilistici contro obiettivi terroristici in Iraq, Afghanistan, Pakistan e Yemen. Lo stesso ammiraglio Ted Branch, a capo delle forze navali nell’Atlantico, subito dopo il primo decollo di prova, dalle coste della Virginia, ha esclamato “Oggi è una giornata storica”.

L’unico vero problema è che un drone di questo tipo, al momento di un raid militare, anche se supportato da un pilota remoto, potrebbe mietere numerose vittime tra i civili, come è già stato ormai ribadito da più parti nel mondo e negli stessi Stati Uniti.

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Le industrie americane premono per facilitare l’esportazione di droni oltremare.

Le industrie americane costruttrici di guerra cercano, come è ovvio, di influenzare se possibile le scelte politiche del proprio Paese, contribuendo con fiumi di dollari alle diverse campagne elettorali.

Alcuni diplomatici hanno rivelato a WikiLeaks che ci sono regimi, come quelli degli Emirati Arabi Uniti e dell’Arabia Saudita, che hanno già chiesto di poter acquistare droni armati da fornitori americani, anche se finora pare non ci siano riusciti.

In realtà sia la General Atomics sia la Northrop Grumman e altre aziende costruttrici starebbero spingendo le lobby del Congresso a facilitare le attuali restrizioni che regolano l’esportazione di droni.

Attualmente, infatti, le leggi sono molto rigide e servono ad evitare che i droni venduti ad altri Paesi vengano poi utilizzati contro gli interessi americani, come ad esempio dall’Iran.

Queste nuove tecnologie belliche, in effetti, stanno già cambiando il modo di fare la guerra. Chi le possiede, grazie a loro, potrà risparmiare denaro, capitale umano, pattugliare meglio i confini dei propri territori e avere più garanzie di successo nelle azioni militari.

Nessuna meraviglia, quindi che i costruttori di droni militari premano per riuscire a facilitare le vendite oltremare, soprattutto se all’orizzonte intravedono un giro d’affari mondiale, che dagli attuali 7 miliardi di dollari è destinato a crescere entro il 2021 fino 130 miliardi di dollari.

Va sottolineato, infatti, che mentre il prezzo di un caccia F35 si aggira sui 130 milioni di euro, il prezzo di un drone militare oscilla al massimo fra 3,7 e 10 milioni di euro, in particolare per i Reaper di ultima generazione.
Va anche ricordato che negli Stati Uniti, solo negli ultimi 10 anni, il Pentagono è passato da un impiego di droni iniziale di poche decine di unità a un flotta di 7 mila Uav (Unmanned aerial vehicle). Senza contare tutto il mercato indotto delle semplici manutenzioni.

L’Unione Europea pensa a droni Made in Europe: nasce un nuovo consorzio a sostegno del progetto Dassault.

Entro il 2016 Bruxelles dovrebbe aprire lo spazio aereo civile ai droni e la stessa Frontex, l’agenzia militare che controlla i confini europei, sta pensando di impiegare molto presto i velivoli a controllo remoto.

In un documento redatto a Settembre del 2012, dalla Commissione europea, l’UE invita le imprese a investire in questo nuovo mercato che promette miliardi di euro e molteplici applicazioni, non solo in ambito militare, ma anche civile, come ad esempio per il monitoraggio degli eventi di massa, delle calamità naturali o più semplicemente per la supervisione degli spostamenti di migranti in mare in direzione di Lampedusa.

Cassidian, del gruppo franco-tedesco-spagnolo Eads, la francese Dassault Aviation e l’italiana Alenia Aermacchi (Finmeccanica), hanno lanciato un’iniziativa congiunta, con cui chiedono ai rispettivi Paesi di partire nella produzione di un drone di sorveglianza (eventualmente armato) di classe MALE (Medium-Altitude Long-Endurance). Nella lettera comune si legge «Un programma europeo sarebbe in grado di rispondere ai nuovi requisiti delle forze armate e di ottimizzare nel contempo la difficile situazione dei budget della difesa». Assente in questa iniziativa, l’importante colosso inglesi Bae Systems.

In ogni caso l’Europa intende seriamente recuperare un gap di quasi 10 anni di ritardo sulle industrie americane e israeliane. Si tratta in parte di una scelta scontata, perché per poter armare questi nuovi velivoli occorre sempre richiedere l’autorizzazione ai loro produttori statunitensi. E’ già successo all’Italia, che dopo aver acquistato due Reaper americani, che intendeva usare in Afghanistan, attende da più di due anni l’autorizzazione Usa per poterli armare. Anche la Germania ha dovuto abbandonare il programma Euro Hawk perché si è accorta che per armare i vecchi Global Hawk americani e poterli usare in Europa, avrebbe dovuto spendere un sacco di soldi aggiuntivi a quelli già investiti per acquistarli. La Francia, infine, dopo aver comperato alcuni droni, sempre di fabbricazione statunitense, da impiegare in Mali, si è resa conto di poterli usare solo in condizioni di libertà operatività ridotta.

Guardare, perciò, a una produzione di droni europei non è poi così fuori luogo. L’argomento potrebbe già essere discusso questo dicembre, tra i temi dell’ultimo Consiglio Europeo del 2013.

Anche l’Italia si lancia nella progettazione e fabbricazione di droni.

Dopo la Gran Bretagna, l’Italia è stato il primo Paese europeo ad attrezzarsi con droni americani, non armati, a scopo ricognitivo e d’intelligence.

Questa nuova tecnologia, già testata nella guerra in Iraq, ha posto il nostro Paese al primo posto in Europa per competenza e capacità di impiego e anche per lo sviluppo di nuovi velivoli a controllo remoto.

Sono già molte le giovani aziende italiane, specializzate in robotica, che si sono attivate per progettare droni terrestri, aerei e marini, capeggiate dalle big company europee per la Difesa, tra cui Alenia Aermacchi.

L’Italia, quest’anno con Piaggio Aero Industries ha presentato il nuovo aereo Uav P.1HH Hammerhead, sempre per le missioni di sorveglianza, intelligence e ricognizione. Si sta progettando anche il drone killer Male – Medium Altitude Long Endurance – per bombardamenti a lunga gittata. Il progetto, ancora molto riservato, sembra essere già stato avviato da Finmeccanica.

Sigonella

L’Italia è candidata a diventare tra i più grandi Hub mondiali di droni.

Entro il 2017, faranno il loro ingresso, nel “parco macchine” Nato di Sigonella, i primi cinque droni dei 20 previsti, per potenziare il piano Nato Smart Defence (difesa satellitare intelligente), per un investimento di diverse centinaia di milioni di dollari.

Sigonella si prepara così a diventare un grande hub mondiale per i droni.
Da qui Eurosur dell’Ue, proteggerà le frontiere europee, anche usando le moderne tecnologie Uav.
Tra la Puglia, la Sardegna, le basi di Sigonella e Trapani in Sicilia e l’isola di Pantelleria, il nostro ministero della Difesa ha anche creato speciali «corridoi di volo» per gestire al meglio la zona del Mediterraneo.

Dal 18 Ottobre, anche nel Canale di Sicilia, gli UAV sono già al lavoro e affiancano la nave anfibia San Marco, sorvegliando le rotte dei migranti, e la Frontex, deputata a gestire le frontiere esterne dell’UE.

Al momento il parco droni italiani include 6 Reaper (falciatori) e 6 Predator, assegnati al 32esimo stormo della Base di Amendola in Puglia. I 12 aerei teleguidati sono stati acquistati fra il 2001 e il 2008, per un importo complessivo di circa 380 milioni di dollari.

Mentre i Predator sono destinati a operazioni di pattugliamento dei territori, attraverso lo scatto di immagini fotografiche, i Reaper sono in grado anche di sganciare ordigni. Considerando che in Afghanistan ci sono circa 4 mila nostri uomini, oltre a mezzi aerei e terrestri da proteggere, i 6 Predator servono appunto per le ricognizioni e d’appoggio ai militari.

I droni d’attacco Reaper, sono invece impiegati dagli americani nei raid anti-qaedisti in Pakistan e Yemen – dove avrebbero intercettato jihadisti e sventato attacchi terroristici. In occasione della campagna Nato in Libia, del 2011, i Predator italiani sono partiti per aiutare gli analisti americani a identificare i targhet sensibili.

All’inizio di quest’anno, infine, l’Italia ha fornito il supporto logistico ai francesi per il loro intervento in Mali, contribuendo, poi, con i propri droni a rifornimenti e osservazione in volo.

Disposition Matrix e la guerra dei droni.

Da un’inchiesta del Washington Post del 2012, sembra che gli Stati Uniti abbiano creato un sistema, il disposition matrix, che in ogni angolo del mondo individua, cattura e uccide le persone sospettate di terrorismo, attraverso l’impiego anche di droni. Secondo il documento del Washington Post, si calcola che a partire da un primo drone usato per uccidere alcuni presunti membri di Al-Qaeda nello Yemen, le vittime degli ultimi 10 anni siano già più di 3000.

Da un punto di vista strettamente giuridico non esiste una legge specifica per casi come questi, salvo l’autorizzazione del Congresso, successiva ai fatti dell’11 settembre 2001, che consente l’uso della forza militare per fini antiterroristici e più in generale il diritto all’autodifesa. Così è lo stesso Presidente Obama, che sotto la sua personale responsabilità, esamina la lista dei presunti terroristi e ne autorizza l’attacco.

Giuristi di varie parti del mondo non ritengono sia legittimo autorizzare l’attacco a individui di identità ignota, le famose signature strikes, semplicemente sulla base di alcune attività, che siano assimilabili a 14 casi di riferimento specificati dal programma e analizzati da Kevin J. Heller dell’Universitá di Melbourne. Tra le attività indicate vi sono per esempio quelle di: pianificare un attacco; trasportare armi; maneggiare esplosivi; essere in un compound o in un campo di addestramento di Al-Qaeda, essere un uomo ‘in età militare’ in territori in cui sono in corso attività terroristiche, essere in compagnia di militari o muoversi armati nelle zone controllate da Al-Quaeda.

Secondo uno studio pubblicato dall’Università di Staford, il diritto internazionale umanitario (quello applicato in tempo di guerra) che permette l’uso intenzionale di forze letali, unicamente se assolutamente necessario e in proporzione alla situazione, non concorda con questi “omicidi intenzionali e premeditati”.

Anche nello Special Rapporteur dell’Onu, sulle esecuzioni extragiudiziali, si legge: “In base al diritto dei diritti umani, un omicidio mirato, nel senso di un omicidio intenzionale, premeditato e deliberato, eseguito da forze di polizia non può mai essere legale perché, a differenza che in un conflitto armato, non è mai permesso che il solo obiettivo dell’operazione sia l’uccisione”.

La questione è stata, recentemente, di nuovo sollevata alle Nazioni Unite dalla Francia, attraverso un’interpellanza scritta in cui si chiede di aprire un formale dibattito. Jean-Hugues Simon-Michel, durante la Conferenza del Disarmo a Ginevra, ha sottolineato la questione dell’arbitrio degli uomini nel decidere se utilizzare la forza letale. Anche il rappresentante egiziano si è mostrato preoccupato e ha fatto un’altra interpellanza scritta per la messa al bando a priori di questo tipo di armi.

Amnesty International a Human Rights Watch, hanno già dato il via a una campagna di sensibilizzazione dell’opinione pubblica mondiale,  la Campagna “Stop Killer Robots”.

Nel sito della campagna si legge: “Diverse nazioni con eserciti hi-tech, tra cui Cina, Israele, Russia, Gran Bretagna e Stati Uniti si stanno muovendo verso sistemi che danno sempre più autonomia alle macchine nei combattimenti. Se uno o più di loro decidesse di impiegare armi pienamente autonome, un passo ancora più in là rispetto ai droni armati e controllati da remoto, altri potrebbero sentirsi obbligati ad abbandonare le loro politiche restrittive in materia, e tutto ciò porterebbe a una corsa alle armi robotiche. Per cui è necessario ora un accordo per stabilire dei controlli prima che gli investimenti, la spinta tecnologica e nuove dottrine militari rendano difficile cambiare il corso delle cose”.

Nel documento Will I be next? US drone strikes in Pakistan, “Sarò io il prossimo? Gli attacchi con i droni USA in Pakistan”, preparato da Amnesty International negli ultimi mesi, sugli omicidi eseguiti dagli Stati Uniti attraverso i droni nel nord-ovest del Pakistan, Amnesty accusa gli americani di assassinio di civili, terrore, mancata trasparenza e crimini contro l’umanità.

Di recente il segretario di Stato John Kerry ha reso noto che gli attacchi negli ultimi tempi sono diminuiti e che la Casa Bianca starebbe anche pensando di chiudere il programma.

Il terzo millennio sarà quello della guerra dei droni

Secondo un rapporto del Governo di Washington i paesi dotati di droni sono 76. Più di 50 Paesi stanno progettando e costruendo almeno un centinaio di tipi di droni. Di tutti questi Paesi, però, solo Israele, Gran Bretagna e Stati Uniti utilizzano droni armati. I modelli più noti sono i Reaper e i Predator.

Americani e israeliani sono anche i più grandi esportatori di droni. Tra il 2005 e il 2010 gli americani hanno autorizzato il trasferimento di tecnologia a quindici Paesi alleati, tra cui anche Italia, Danimarca, Lituania, Australia, Colombia e Singapore. A maggio del 2012 sul Wall Street Journal si leggeva che gli USA avevano accettato di armare i droni dell’aeronautica militare italiana, ma a Roma l’autorizzazione del Congresso non è ancora arrivata.

Il mercato israeliano delle Elbit Systems e della Israel Aerospace Industries, promuove l’80% delle sue esportazioni verso Gran Bretagna, Asia, America Latina (Colombia, Ecuador, Brasile, Cile, Perù, Venezuela) e recentemente anche India.

Gli americani di General Atomics, invece, con l’autorizzazione governativa firmata, hanno già concluso un accordo con gli Emirati Arabi Uniti per una fornitura non armata di Predator, per un totale di circa 200 milioni di dollari. L’Arabia Saudita ha poi chiesto al Governo di Washington, di poter acquistare droni armati, ma naturalmente la risposta è stata negativa.

Resta l’esercito britannico, la Royal Air Force, con al suo attivo 500 droni, ma l’obiettivo di avere, entro il 2030, un terzo della flotta aerea completamente comandata a distanza. Per questo progetto è anche già stato stabilito il punto di raccolta nella città di Waddington, nel Lincolnshire.

E arriviamo infine alla Cina. Pechino in ritardo, come tutti, rispetto a Stati Uniti e Israele, sta sviluppando i suoi droni, molto simili ai Reaper americani, e che intende utilizzare per sorvegliare i confini con Giappone, India, Vietnam e Filippine e le zone del Pacifico di influenza americana.

A una certa distanza sembra lo scacchiere di un banale Risiko. Di certo l”economia americana ha trovato una via per un suo nuovo e redditizio sviluppo economico, ma anche un modo per mantenere attivo e onnipresente il suo ruolo e la sua supremazia militare nel mondo.

La Guerra dei Mondi, racconta da Herbert George Wells sembra proprio dispiegarsi sopra le nostre teste.

di Adriana Paolini

Linkografia:

– Articolo apparso su Daily Mail “Killer Robot”:

http://www.dailymail.co.uk/news/article-2324571/U-S-Navys-X-47B-stealth-drone-launches-aircraft-carrier-time–critics-warn-heralds-rise-killer-robots.html

– Articolo apparso su The New American:

http://thenewamerican.com/

– Documento redatto a Settembre del 2012, dalla Commissione europea:

http://www.google.it/url?sa=t&rct=j&q=&esrc=s&source=web&cd=1&ved=0CDEQFjAA&url=http%3A%2F%2Fdronewarsuk.files.wordpress.com%2F2012%2F09%2Fec-swd_civilrpas.pdf&ei=a0mJUuj6M4i47Qam9oCYBA&usg=AFQjCNGGv-ftxKARiYjA_6cMyHsJPwgONg&sig2=2s0cfLiU947rIZ39FJBMuw&bvm=bv.56643336,d.bGE&cad=rja

Piano Nato Smart Defence:

http://www.nato.int/cps/en/natolive/topics_84268.htm?

http://www.nato.int/cps/en/natolive/official_texts_87594.htm

– Inchiesta Washington Post:

http://www.washingtonpost.com/world/national-security/plan-for-hunting-terrorists-signals-us-intends-to-keep-adding-names-to-kill-lists/2012/10/23/4789b2ae-18b3-11e2-a55c-39408fbe6a4b_story.html

– Kevin J. Heller:

https://papers.ssrn.com/sol3/papers.cfm?abstract_id=2169089

– Studio dell’Università di Stanford:

http://blogs.law.stanford.edu/newsfeed/2012/09/25/living-under-drones%E2%80%9D-new-report-issued-by-the-international-human-rights-and-conflict-resolution-clinic/

– Special Rapporteur dell’Onu:

http://unispal.un.org/UNISPAL.NSF/0/69633D6116C53C898525773D004E8C13

Interpellanza della Francia durante la Conferenza del Disarmo a Ginevra:

http://www.reachingcriticalwill.org/images/documents/Disarmament-fora/1com/1com13/statements/8Oct_France.pdf

– Interpellanza del rappresentante egiziano durante la Conferenza del Disarmo a Ginevra:

http://www.reachingcriticalwill.org/images/documents/Disarmament-fora/1com/1com13/statements/8Oct_Egypt.pdf

– Campagna “Stop Killer Robots”:

http://www.stopkillerrobots.org/

http://www.unog.ch/80256EE600585943/%28httpPages%29/4F0DEF093B4860B4C1257180004B1B30?OpenDocument

 

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