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Se il petrolio finisse domani… Aftermath: World without oil

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Se il petrolio finisse domani… Aftermath: World without oil

Pubblicato il 10 novembre 2015 by redazione

Intro_petrolio

 

Quanto dipendiamo dall’oro nero lo ha ipotizzato Rob Minkoff

Vi siete mai chiesti cosa accadrebbe se il petrolio finisse domani, all’improvviso? Se non l’avete mai fatto (come è probabile che sia), sappiate che al posto vostro ci ha pensato Rob Minkoff, ideatore per la televisione canadese del documentario Aftermath: World without oil, in cui si ipotizzano gli effetti che avrebbe sulla nostra vita la scomparsa improvvisa di questo combustibile fossile. Il punto di partenza del documentario è sicuramente fantascientifico, in quanto (purtroppo o per fortuna) la fine del petrolio non è così imminente; tuttavia costituisce un’ottima base per andare ad analizzare quanto profonda sia la nostra dipendenza dall’oro nero. Esso, infatti, a causa della sua versatilità e del suo relativamente basso costo di estrazione, viene utilizzato per gli scopi più disparati, dalla produzione di energia (il 90% di quella utilizzata per i trasporti deriva dal petrolio), alla fabbricazione di materie plastiche, fertilizzanti, medicinali, cosmetici e molto altro.

 

Un giorno senza petrolio

AftermathWorldWithoutOil

Il primo giorno dopo la fine del petrolio viene ipotizzato come il più difficile da affrontare dal punto di vista psicologico: i Governi degli Stati, mossi dall’incertezza sul da farsi e dal panico dei cittadini, compiono mosse che cercano di diminuirne il più possibile il consumo. Le Nazioni esportatrici decidono, così, di richiamare le proprie navi cariche di greggio e, in generale, tutti i Paesi fermano i mezzi di trasporto che non ritengono di vitale importanza (compresi gli aerei).

Allo stesso tempo, l’economia e la finanza subiscono un grave tracollo: le contrattazioni in borsa vengono sospese a causa del panico (così com’è avvenuto dopo l’11 settembre) e milioni di lavoratori, legati direttamente o indirettamente al settore petrolifero, rimangono a casa disoccupati.

Uno dei Paesi a subire le conseguenze più gravi sono gli Stati Uniti, che, pur avendo a disposizione una riserva di 725 milioni di barili di greggio, ogni giorno ne importano 8 milioni e ne consumano più del doppio.

 

Cinque giorni senza petrolio

Dopo nemmeno una settimana senza petrolio, il mondo occidentale deve affrontare un numero sempre crescente di difficoltà dal punto di vista socio-economico. Le borse continuano a rimanere chiuse e la disoccupazione si attesta ormai oltre il 30%. Senza combustibile per i trasporti, inoltre, diventa impossibile rifornire di cibo le grandi città, circostanza che causa i primi disordini. Contemporaneamente, però, le persone sono costrette dalla necessità a tenere un comportamento più virtuoso: se prima della fine del petrolio il 30% del cibo veniva scartato (anche a causa di piccole imperfezioni), ora tutto ciò che è disponibile, e non pesantemente avariato, viene consumato.

Anche dal punto di vista dell’approvvigionamento energetico la situazione è in continuo peggioramento e i blackout sono ormai una realtà costante: il 40% dell’energia elettrica è prodotta dalla combustione del carbone, ma le centrali non possono più essere rifornite a causa dell’assenza di carburante per i treni. Nelle città questo implica sempre maggiori difficoltà nel portare avanti i servizi essenziali, in particolare quello sanitario.

 

Trenta giorni senza petrolio

Passato un mese senza petrolio, i Governi hanno ormai razionalizzato l’utilizzo delle proprie riserve, che vengono impiegate quasi esclusivamente per muovere i mezzi di soccorso e i treni, in modo tale da rifornire le città di cibo (anche i treni passeggeri vengono riconvertiti a questo scopo) e le centrali elettriche. Nel frattempo, tuttavia, si è sviluppata la ricerca di fonti alternative: in particolare iniziano gli investimenti nelle colture di canna da zucchero e mais, per la produzione di etanolo, e in quelle di soia, che può essere trasformata in biodiesel. I Paesi che producono già etanolo in grande quantità, infatti, sono ancora in grado di far circolare le proprie auto.

 

Cinque mesi senza petrolio

La prolungata assenza dell’oro nero inizia ad avere il proprio forte impatto anche a livello igienico-sanitario: nelle grandi città la spazzatura non viene più smaltita, andando così a creare enormi accumuli di rifiuti, e, contemporaneamente, negli ospedali inizia a scarseggiare l’equipaggiamento sanitario (per la produzione di gran parte del quale viene utilizzato il petrolio), fenomeno che porta alla diffusione repentina di infezioni.

A livello internazionale, i Paesi estrattori di petrolio sono in enorme difficoltà (si pensi che l’Arabia Saudita basa il 90% della propria economia sull’estrazione del greggio), così come anche quei Paesi che dipendono in gran parte delle importazioni, come il Giappone.

La maggior parte degli Stati ha messo in campo piani per aumentare le colture di cereali e piante che permettano di produrre biodiesel ed etanolo, anche se, data la sempre maggior scarsità di cibo, risulta sempre più difficile scegliere se destinare le colture alla produzione alimentare o a quella di combustibile.

Dal canto loro, i cittadini dei Paesi più freddi cercano di affrontare l’imminente inverno in due modi: riciclando sostanze chimiche e producendo del combustibile in maniera artigianale, oppure dando vita a migrazioni di massa verso luoghi più caldi.

 

Un anno senza petrolio

Dopo 365 giorni senza petrolio, il fenomeno che salta più all’occhio è una sorta di “rivincita” della natura nei confronti dell’uomo: l’assenza di veicoli per le strade e per le città porta alcune specie animali a crescere di numero e ad avvicinarsi ai centri abitati, mentre molte persone, facendo di necessità virtù, iniziano a produrre esse stesse ciò che consumano, creando così dei piccoli orti cittadini. Allo stesso tempo, però, questa rivincita della natura sull’uomo si manifesta anche in maniera dannosa per la stessa umanità, dato che l’assenza di petrolio favorisce maggiormente la diffusione di carestie ed epidemie.

 

Dieci anni senza petrolio

benzina dismessa

Dopo un decennio senza oro nero, le priorità dell’umanità, e con esse la sua organizzazione, sono cambiate. I satelliti, su cui si basa gran parte della comunicazione moderna, non vengono più sostituiti, in quanto non c’è abbastanza carburante per mandarne in orbita di nuovi. Tra i mezzi di trasporto, invece, molte navi vengono smantellate e i suoi materiali riciclati. Non si ha ancora abbastanza carburante per far ripartire gli aerei; tuttavia, grazie alla produzione su vasta scala di biocombustibile ricavato dalle alghe, possono essere rimessi in moto i camion per il trasporto merci. Ogni acro di alga, infatti, produce trenta volta più energia di qualsiasi altro biocombustibile. Viene inoltre riscoperto il valore di tutte le materie plastiche e i componenti elettronici gettati nelle discariche, che vengono riutilizzati.

Contemporaneamente nuovi Paesi si affacciano sulla scena mondiale come leader economici: uno di questi è la Bolivia, che acquista un forte potere economico grazie ai propri giacimenti di litio, componente fondamentale per la produzione di batterie, strumento ormai indispensabile per un’umanità alla continua ricerca di energia da immagazzinare.

 

Quarant’anni senza petrolio

Trascorso quasi mezzo secolo, l’umanità è riuscita a risollevarsi dalla scomparsa del petrolio. La maggior parte dei mezzi di trasporto è tornata a funzionare: alcuni sono alimentati grazie al biocombustibile derivato dalle alghe, altri grazie all’energia elettrica. Tra quelli del secondo tipo vi sono anche le automobili, che però hanno un costo elevato a causa della scarsa disponibilità di litio per produrre batterie. Grazie a questa svolta, comunque, l’inquinamento si è ridotto drasticamente, tanto che solo in Nord America sono venuti meno 3,5 miliardi di tonnellate di agenti inquinanti all’anno. Questa svolta ecologica ha coinvolto anche la popolazione che, dopo essere tornata in parte a ripopolare le aree del nord del pianeta, ha riqualificato i centri urbani creando degli orti cittadini che possano soddisfare i bisogni primari di un mondo ormai non più iperconnesso come quello precedente.

L’umanità ha saputo affrontare una sfida difficile come quella della fine del petrolio e uscirne in maniera vincente, dando vita a una nuova era.

 

Il petrolio finirà presto?

tipi di estrazione

Picco del petrolio e tipi di estrazione.

 

Lo scenario quasi apocalittico previsto da Aftermath: World without oil è sicuramente distante dalla realtà, in quanto la scomparsa del petrolio dalle nostre vite non è dietro l’angolo. Tuttavia è altrettanto certo che l’esaurimento delle riserve di oro nero è una questione che deve essere affrontata fin da ora, dato che probabilmente coinvolgerà già molte delle generazioni attuali. Sul tema esistono svariate ipotesi, ma quelle più accreditate stimano l’inizio del calo della produzione del petrolio in un arco temporale che va dal 2010 al 2030. Questi studi basano i loro risultati sulla teoria, in tema di fonti di energia non rinnovabili, elaborata dal geofisico americano Marion King Hubbert negli anni ’60 del secolo scorso. Hubbert, studiando quanto accaduto per altre fonti di energia non rinnovabili nei decenni precedenti, affermò che la loro produzione segue un andamento “a campana”. All’inizio, quando sono necessari pochi investimenti e vi è grande disponibilità, la sua crescita è esponenziale e i costi si mantengono bassi. Successivamente, con l’esaurimento dei giacimenti più facilmente raggiungibili, si rendono necessari investimenti più costosi che determinano una riduzione dell’estrazione rispetto alla fase precedente, diminuzione che si stabilizza in un preciso momento, chiamato “picco”. Passata questa seconda fase, divengono indispensabili investimenti ancora più onerosi rispetto a quelli iniziali e, quindi, la produzione della risorsa viene progressivamente abbandonata (in quanto non più conveniente) e diminuisce a un ritmo molto veloce.

Hubbert elaborò questa teoria in relazione alla produzione di petrolio negli USA, prevedendo che il picco sarebbe sopraggiunto agli inizi degli anni ’70. Secondo il geofisico americano, durante questo periodo si sarebbero verificati contemporaneamente due eventi: un aumento dei prezzi del petrolio e una fase di instabilità geo-politica, ai quali si sarebbe potuto rimediare trovando altre fonti alternative al petrolio o spostando il centro della produzione in un’altra area. Gli avvenimenti storici hanno dato ragione a Hubbert (tant’è che, dopo la crisi energetica del 1973, il baricentro mondiale del petrolio si è spostato in Medioriente) e così in molti ritengono che, applicando i suoi studi all’estrazione globale di greggio, l’attuale fase sia quella del picco, data la compresenza dell’instabilità politica e dell’aumento dei prezzi del petrolio. A sostegno di questa tesi, peraltro, bisogna sottolineare come negli ultimi anni sia aumentata la produzione dell’oro nero non convenzionale, ossia di petrolio che non viene ottenuto mediante la comune estrazione dai pozzi, ma per mezzo di altre tecniche particolari, segno che quello convenzionale probabilmente inizia a non essere più sufficiente per soddisfare il fabbisogno mondiale.

 

Il passaggio alle fonti di energia sostitutive

La consapevolezza che la fonte d’energia più diffusa sul nostro pianeta sia destinata a scomparire porta a prendere atto del fatto che, quando ciò accadrà, l’umanità intera vivrà un periodo di transizione più o meno lungo in dipendenza da quanto rapida ed efficace sarà la risposta dei Governi. Tuttavia non bisogna scordare come periodi di transizione di questo tipo siano già stati vissuti in passato: la già citata crisi energetica dei primi anni ’70, pur portando con sé un iniziale periodo di incertezza economica (manifestatasi in particolar modo attraverso l’aumento della disoccupazione e un’elevata crescita dell’inflazione), ha dimostrato come simili fasi siano “fisiologiche” per quanto riguarda l’approvvigionamento energetico da parte dell’uomo e come, pertanto, non vi siano da temere scenari apocalittici. Ciò che è certo, però, è che nei prossimi anni non sarà più possibile compiere una semplice rivoluzione geografica, spostando cioè il centro della produzione da un’area all’altra della terra, semplicemente perché non esiste un’altra Arabia Saudita. La soluzione, allora, sarà quella di una rivoluzione tecnologica, che porti possibilmente in primo piano fonti di energia rinnovabili che, a differenza di quelle non rinnovabili (carbone, petrolio, gas naturale o uranio), vengano prodotte secondo metoologie che non seguano l’andamento “a campana” teorizzato da Hubbert, ma si stabilizzino nel tempo.

Ovviamente questo comporterà un profondo cambiamento nel sistema economico (in senso lato) del nostro pianeta, i cui effetti sono però difficilmente prevedibili.

di Alessio Bilardo

 

Linkografia:

http://www.nationalgeographic.it/popoli-culture/2011/01/28/video/l_alba_del_giorno_dopo_-_petrolio_1-175710/1/

https://www.youtube.com/watch?v=S56y0AzwdVk

http://www.aspoitalia.it/index.php/introduzione-alla-teoria-di-hubbert-mainmenu-32

http://www.massacritica.eu/larabia-saudita-corre-verso-il-solare-2/10783/

 

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Corsa alla terra.. il Brasile tra “land grabbing” e sviluppo sostenibile.

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Corsa alla terra.. il Brasile tra “land grabbing” e sviluppo sostenibile.

Pubblicato il 28 febbraio 2013 by redazione

amazzoniaIl Land Grabbing è un fenomeno che ha acquisito grande rilievo negli ultimi anni. È difficile stimarne le dimensioni e la portata. Altrettanto difficile è comprenderne le possibili conseguenze. Interessante, però, è provare ad approfondire la storia socio-economica e politica di un paese che ha visto da vicino l’emergere di questo fenomeno. Il caso a cui si fa riferimento è quello del Brasile, che ha attraversato diverse fasi politiche e ha alternato decisioni opposte nel modo di approcciarsi all’intervento degli investitori esteri in relazione alla vendita dei propri terreni.

Il caso brasiliano: contesto socio-politico ed economico.

Il caso brasilianorisulta essere particolarmente interessante per diverse motivazioni. Innanzitutto il paese sudamericano è un paese emergente, destinato, insieme a pochi altri, ad aumentare il proprio peso specifico nel palcoscenico socio-politico ed economico mondiale.

Il Brasile è la sesta più grande economia mondiale e il secondo più grande produttore agricolo[1]. Tuttavia la distribuzione appare notevolmente iniqua: l’1,5 % di proprietari terrieri occupa il 52,6 % di tutte le terre agricole[2].

Oltretutto, è necessariosottolineare che la maggior parte delle terre incoltivate del globo si trova nell’Africa Subsahariana e in America Latina[3].

Ad ogni modo, il Brasile, nel corso degli anni, ha vissutole pratiche di Land Grabbing in un ruoloduplice e, sotto alcuni aspetti, ambiguo.

Infatti, da un lato, ha accolto e/o ‘subito’ (e, in seguito, limitato) l’arrivo degli investitori esteri, i quali hanno acquistato terreni brasiliani, aumentando notevolmente la propria presenza nell’economia del paese.Dall’altro, ha esportato il proprio sistema di agricoltura in diverse zone dell’Africa, soprattutto in Mozambico, ma anche del Sud America.

Brazil.LulaDaSilva.02

Luiz Inàcio Da Silva.

Per quanto riguarda il ruolo di paese ‘ricevente’, nel giro di dieci anni, dal 1995 al 2005, il capitale internazionale nell’industria agricola del paese sudamericano è aumentato dal 16% al 57%[4]. Questo tipo di attività èfacilitato da una serie di modifiche al regolamento relativo alle terre e al rapporto con gli investitori stranieri. Anche l’AGU, Advocacia General da Uniao (Istituzione brasiliana responsabile per l’esercizio delle legge pubblica in ambito federale), ha riconosciuto che lo stato brasiliano, nel corso degli anni, ha perso il controllo sull’acquisizione e la concessione delle terre[5].

Con l’arrivo del presidente Luiz Inàcio Da Silva, conosciuto anche come ‘Lula’ e il cui mandato è durato dal 2003 al 2011, il Brasile intraprende, però, una progressiva limitazione all’acquisizione della terra da parte di investitori stranieri, attraverso la creazione di un’apposita commissione, nata nel 2007. Nell’agosto del 2010 l’approvazione di una nuova legislazione restringe le acquisizioni di appezzamenti di terra da parte di compagnie controllate per il 50 % (o più) da capitale straniero e limita l’ammontare di terra, disponibile per l’acquisto,ad un appezzamento non maggiore di un quarto della ‘municipal area’ totale. Ad ogni modo, sono ancora in corso valutazioni del governo brasiliano relative al rapporto da mantenere con gli investitori stranieri e alle modifiche legislative da effettuare.

Brasile come investitore.

Il Brasileassume, però,come detto, una duplicità di ruolo nel panorama mondiale dell’acquisizione dei terreni agricoli. Infatti, limitate le entrate di capitale straniero nella propria economia agricola, il governo brasiliano ha portato avanti politiche di ‘land deal’ in terre straniere. Emblematico come il Brasile abbia investito, ad esempio, inParaguay: su 31 milioni di ettari di terra arabile è stato concesso il 25% a investitori stranieri e il 15% ai soli brasiliani.

La duplicità del ruolo del governo brasiliano ha portato ad un concatenarsi di eventi che hanno interessato diverse regioni del Sud America. In particolare, la crescita della produzione di soia negli anni ’70-’80 è stata responsabile del dislocamento di 2,5 milioni di persone nello stato di Paranà e di 300.000 nel Rio Grande do Sol[6]. La maggior parte di queste persone, costrette a spostarsi dalle proprie abitazioni, sono poi emigrate in Paraguay, acquistando terre. Questi contadini, provenienti dal Brasile, si sono stabiliti ai confini tra Basile e Paraguay. Tuttavia, gli affaristi brasiliani hanno continuato a comprare anche queste terre paraguayane. La produzione di soia occupa ora il 29% di tutte le terre agricole paraguayane ed è causa dell’aumento di povertà di quei contadini costretti alla marginalizzazione e alla disoccupazione nelle aree urbane[7].

L’acquisizione di terre estere da parte del Brasile non si è limitata ai confini continentali, come dimostra il caso del Mozambico in Africa.

Il Mozambico èil 184esimo paese più impoverito del mondo, su 187 paesi[8]. Nel 2009, il 55% della popolazione totale vive sotto la soglia di povertà, con meno di mezzo dollaro al giorno. Gli scambi commerciali tra i due paesi si sono intensificati nell’ultimo decennio e nel 2011 sono aumentati del 101,2 % rispetto all’anno precedente, raggiungendo un ammontare di 85,3 milioni di $[9]. Questi scambi, però, appaiono del tutto asimmetrici: infatti, 81,2 milioni di $ sono relativi alle importazioni dal Brasile al Mozambico e solo 4,1 milioni di $ riguardano le esportazioni dal Mozambico al Brasile.

Il Mozambico possiede circa 36 milioni di ettari di terra arabile e l’80% della popolazione lavora nel settore agricolo[10]. Con l’intensificarsi dei rapporti tra i due paesi, diversi imprenditori brasiliani hanno avanzato proposte per poter essere produttivi in Mozambico prima del 2015, in settori come quello della soia, della canna da zucchero, dell’etanolo. Esperienze di questo tipo si sono già viste in Mozambico, ad esempio, nel 2007, quando il gruppo minerario brasiliano denominato Vale ha acquistato 23,780 ettari di terra africana, costringendo 1313 famiglie – circa 5000 persone – a riallocarsi in altre zone e lasciare le proprie abitazioni[11].

L’intenzione da parte del governo del Mozambico pare confermarsi nella volontà di concedere al Brasile sei milioni di ettari per 50 anni, con eventuale diritto di prolungare di altrettanti anni, una volta terminato il primo mezzo secolo di acquisizione[12].

DisboscamentoConseguenze ambientali.

Di certo l’accaparramento della terra, prima, e lo sfruttamento della stessa, poi, provocanoconseguenze di diversa portata. Se da una parte accresce la dimensione della protesta per la violazione dei diritti umani e per i diritti dei popoli, dall’altra, sorgono alcune riflessioni anche in relazione al degrado ambientale e al consumo del suolo.

La zona amazzonica, ad esempio, subisce da anni un processo di disboscamento.

Le politiche del governo Lula sembrano aver dato alcuni frutti nella lotta al disboscamento, tuttavia, come si è visto, sono in corso alcune valutazioni della legislazione che potrebbero portare al modificarsi dello status quo e all’evolversi di uno scenario differente. Inoltre, bisogna sottolineare che, sebbene stia diminuendo, il disboscamento è ancora in atto e, sommato alle stime degli anni precedenti, la situazione appare ancora preoccupante.

Il modello agricolo brasiliano prevede che la maggior parte dell’area forestale trasformata in zona agricola diventi area destinata al pascolo e agli allevamenti. Nel 2002, ad esempio, l’area per la produzione di soia risulta di 4,9 milioni di ettari. Per il pascolo si stimano valori che superano di 10 volte quelli della coltivazione di soia[13]. Inoltre, dal 1990 al 2010 il numero di bestiame in Brasile è quasi triplicato (da 26 milioni a 70 milioni) e, di questo, l’80% è in Amazzonia[14]. Facilmente si comprendono gli effetti legati alle esternalità degli allevamenti: inquinamento, consumo di risorse, gas nocivi, etc.

La crescita della ‘produzione’ di carne ha portato alla perdita di oltre 700.000 kmq di foresta[15],senza contare i dati relativi agli incendi illegali spesso correlati al successivo utilizzo del suolo per attività di pascolo.

Oltre all’aspetto relativo alle aree destinate al pascolo, di particolare importanza è anche l’impatto della monocoltura di soia, spesso utilizzata come cibo per il bestiame. Infatti, è stato dimostrato[16]come il disboscamento della foresta amazzonica sia correlata all’espansione di questo cereale.

Tra il 2003 e il 2008, tra l’altro, vi è stata un incremento di 39.000 km quadrati dell’area destinata alla produzione di soia. Cambiando modalità e tipo di coltura la deforestazione nell’area in considerazione si ridurrebbe di 26.000 km2(40% in meno).

Questi sono alcuni dei dati conseguenti dal modello brasiliano di agricoltura degli ultimi decenni.

9 passi dentro e fuori dal Land Grabbing

ANNO Evento – Dato
Anni ’70-‘80 Grazie a finanziamenti del Giappone e delle Banche private accresce esponenzialmente la produzione industriale estensiva di soia.
Anni ’80-‘90 Brasile diventa uno dei maggiori produttori di soia, suscitando l’interesse di corporations come ADM, Cargill, Monsanto, Dupont.
1992 2,6 milioni di ettari di terreno sono gestiti da corporations straniere.
1995 Modifiche al regolamento relativo al rapporto tra terre e investimenti stranieri (in particolare, relativamente all’articolo 171 dalla Costituzione) facilitano l’ingresso di questi ultimi negli affari legati all’agricoltura del Brasile.
1995-2005 Capitale internazionale nell’industria agricola aumenta dal 16% al 57%.
1998 L’allora Presidente brasiliano Cardoso decide di far rinunciare al governo federale ad ogni controllo effetto sull’acquisto di terra da parte di compagnie straniere in Brasile.
2007 Una commissione, controllata direttamente dal Presidente Lula, è incaricata di ristabilire limiti alle forme di Land Deal.
2010 Viene approvata una nuova legislazioneche restringe le acquisizioni di appezzamenti di terra da parte di compagnie controllate per il 50% o più da capitale straniero e limita l’ammontare di terra disponibile per l’acquisto.
Luglio ‘12 Viene approvato il Report del deputato Marcos Montes per tutelare la libertà degli investimenti stranieri. È tuttora in corso una considerazione del governo per un’eventuale modifica legislativa.

Un modello da rivedere

La domanda riguardante la vendita di terra – e cioè se essa sia da considerare una possibilità di progresso per i paesi più poveri o un disastro ecologico e sociale per le popolazioni – difficilmente porterà ad una risposta univoca.

L’intervento da parte di investitori stranieri può certamente essere visto come risorsa per i paesi interessati (soprattutto africani e sudamericani) sia a livello economico, sia per il miglioramento della produttività agricola.

Ciò che si può notare, però, è che il modello proposto dal Brasile – che lo stato federale sudamericano intende esportare anche in Mozambico – appare non privo di problematiche: risulta contraddittorio che le stesse prassi che il Brasile ha affrontato in politica interna e risolto limitando il libero accesso degli investitori stranieri, siano poi riproposte a favore del Brasile stesso nell’approccio con uno stato estero.

Poiché il paese sudamericano, con la sua abbondanza di risorse, continuerà senza dubbio adessere un importante fornitore alimentare ed implementerà il proprio ruolo nello scenario socio-politico, sarebbe necessario che il modello di sviluppo proposto – interno ed esterno – si affermi in modo maggiormente sensibile alle tematiche ambientali.

Come si è detto, rimangono, inoltre, molte perplessità circa il rispetto dei diritti umani e dei diritti dei popoli autoctoni. Di certo, questoargomento non può essere tralasciato e merita un approfondimento più accurato.

di Tomaso Cimino

 


[1]  Inman, P. (2012) Brazil’s Economy Overtakes UK to Become World’s Sixth Largest, The Guardian: 6 March 2012.

Barbosa, J. (2011), Brazil: Senate Loosens Amazon Protections, Associated Press. 7 December 2011, in Clements E.A. e Fernandes B.M. (2012).

Clements E.A. e Fernandes B.M. (2012), Land Grabbing, Agribusiness and the Peasantry in Brazil and Mozambique, Paper presented at the International Conference on Global Land Grabbing II October 17‐19, 2012, Organized by the Land Deals Politics Initiative (LDPI) and hosted by the Department of Development Sociology at Cornell University, Ithaca, NY.

[2]DATALUTA – Banco de Dados da Luta pela Terra (2011) Brasil – Relatorio DATALUTA 2011. Presidente Prudente: NERA – Núcleo de Estudos, Pesquisas e Projetos de Reforma Agrária – FCT/ UNESP. in Clements E.A. e Fernandes B.M. (2012).

[3] Deininger K. e Byerlee D. (2011), Rising Global Interest in Farmland. Can It Yeld Sustainable and Equitable Benefits?, The International Bank for Reconstruction and Development/The World Bank (Report).

[4]Sauer S. and S. P. Leite. 2012. Agrarian Structure, Foreign Investment in Land, and Land Prices in Brazil, Journal of Peasant Studies, 39(3-4), 873-898 in Clements E.A. e Fernandes B.M. (2012).

[5] Vaz, L. (2010), Parecer determina maior controle sobre aquisições de terras por estrangeiros. Correio Braziliense: 24 August 2010.

[6] Altieri, M. A. and E. Bravo (2009), The Ecological and Social Tragedy of Crop-Based Biofuel Production in the Americas, In: Jonasse, R. (ed.) Agrofuels in the Americas. Food First Books, Oakland: CA, 15-24.

[7] Carmo, M. (2012), Brasileiros terão que provar que terras no Paraguai são legais, diz ministro, BBC Brasil: 13 February 2012, in Clements E.A. e Fernandes B.M. (2012).

[8]United Nation’s Human Development Index (2011), Human Development Report 2011 Sustainability and Equity: A Better Future for All.

[9]MRE – Ministerio das Relações Exteriores do Brasil (2012) Visita ao Brasil do Primeiro-Ministro de Moçambique, Aires Bonifácio Baptista Ali – 13 a 18 de abril 2012. Press Release, n. 103, 16 April. in Clements E.A. e Fernandes B.M. (2012).

[10] Republic of Mozambique. 2009. Estratégia para Reflorestamento. Minísterio da Agricultura e Direcção Nacional de Terras e Florestas, Maputo, July 2009. in Clements E.A. e Fernandes B.M. (2012)

[11] Mosca, J and T. Selemane (2011). El dorado Tete: os mega projectos de mineração. Centro de Integridade Pública, Maputo, November 2011 in Clements E.A. e Fernandes B.M. (2012).

[12] Groppo P. (2011), T come Terra: Mozambico e i sei milioni di ettari offerti ai brasiliani, Scirocco News. Articolo del 28-08-2011 di Paolo Groppo

Riva A. (2011), Brasile – Mozambico: la soia brasiliana emigra in Africa, L’osservatore Carioca: 14 agosto 2011

[13]United States Department of Agriculture (13 Gennaio 2004), The Amazon:  Brazil’s Final Soybean Frontier, Production Estimates and Crop Assessment Division
Foreign Agricultural Service.

[14]Instituto Brasileiro de Geografia e Estatistica Brazilian Institute of Geography and Statistics—IBGE (dati 2010), Sistema IBGE de Recuperacao Automatica (SIDRA).

[15]Instituto Brasileiro de Geografia e Estatistica Brazilian Institute of Geography and Statistics—IBGE (dati 2010), Sistema IBGE de Recuperacao Automatica (SIDRA).

[16]Arima E., Richards P., Walker R., Caldas M. (2011), Statistical Confirmation of Indirect Land Use Change in the Brazilian Amazon, IOP Science – Environmental Research Letters.

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