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La guerra dei droni: un affare da 130 miliardi di dollari

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La guerra dei droni: un affare da 130 miliardi di dollari

Pubblicato il 20 novembre 2013 by redazione

drone 2

Piloti da terra, si preparano a guidare in remoto il caccia X-47B.

Su wikipedia si legge che un Drone è un aeromobile a pilotaggio remoto o APR Il suo volo è, quindi, controllato dal computer a bordo del velivolo, sotto il controllo remoto di un navigatore o pilota, sul terreno o in un altro veicolo.

Il loro utilizzo è molto diffuso in tutti i casi in cui tali sistemi possono consentire l’esecuzione di missioni “noiose, sporche e pericolose” (dull, dirty and dangerous) spesso con costi minori rispetto ai velivoli tradizionali.

Noiose, sporche e pericolose, dunque una vera manna dal cielo …

La velocità di diffusione di questi velivoli negli ultimi tempi ha visto schizzare le ordinazioni delle industrie militari, al punto che in alcune aziende si lavora giorno e notte per soddisfare le richieste. Un vero boom economico per il mercato aeromobile, civile e militare, soprattutto americano, cinese e israeliano. Ma la vera novità non è la nascita di un nuovo businnes, quanto piuttosto le implicazioni che un velivolo di questo tipo innescano.

X-47B è un drone americano, costruito per poter decollare e atterrare direttamente su una portaerei, quindi senza alcun vincolo di atterraggio o decollo subordinati alle autorizzazioni di altri Paesi per l’eventuale uso delle loro basi.

Questo drone è un aeromobile grande come un caccia, che viaggia senza pilota e, che grazie all’uso delle portaerei potrà dirigersi ovunque nel mondo, incrementando di molto il suo potenziale spazio aereo, oltre alle aumentate possibilità operative militari, soprattutto negli attacchi missilistici contro obiettivi terroristici in Iraq, Afghanistan, Pakistan e Yemen. Lo stesso ammiraglio Ted Branch, a capo delle forze navali nell’Atlantico, subito dopo il primo decollo di prova, dalle coste della Virginia, ha esclamato “Oggi è una giornata storica”.

L’unico vero problema è che un drone di questo tipo, al momento di un raid militare, anche se supportato da un pilota remoto, potrebbe mietere numerose vittime tra i civili, come è già stato ormai ribadito da più parti nel mondo e negli stessi Stati Uniti.

Drone_1

Le industrie americane premono per facilitare l’esportazione di droni oltremare.

Le industrie americane costruttrici di guerra cercano, come è ovvio, di influenzare se possibile le scelte politiche del proprio Paese, contribuendo con fiumi di dollari alle diverse campagne elettorali.

Alcuni diplomatici hanno rivelato a WikiLeaks che ci sono regimi, come quelli degli Emirati Arabi Uniti e dell’Arabia Saudita, che hanno già chiesto di poter acquistare droni armati da fornitori americani, anche se finora pare non ci siano riusciti.

In realtà sia la General Atomics sia la Northrop Grumman e altre aziende costruttrici starebbero spingendo le lobby del Congresso a facilitare le attuali restrizioni che regolano l’esportazione di droni.

Attualmente, infatti, le leggi sono molto rigide e servono ad evitare che i droni venduti ad altri Paesi vengano poi utilizzati contro gli interessi americani, come ad esempio dall’Iran.

Queste nuove tecnologie belliche, in effetti, stanno già cambiando il modo di fare la guerra. Chi le possiede, grazie a loro, potrà risparmiare denaro, capitale umano, pattugliare meglio i confini dei propri territori e avere più garanzie di successo nelle azioni militari.

Nessuna meraviglia, quindi che i costruttori di droni militari premano per riuscire a facilitare le vendite oltremare, soprattutto se all’orizzonte intravedono un giro d’affari mondiale, che dagli attuali 7 miliardi di dollari è destinato a crescere entro il 2021 fino 130 miliardi di dollari.

Va sottolineato, infatti, che mentre il prezzo di un caccia F35 si aggira sui 130 milioni di euro, il prezzo di un drone militare oscilla al massimo fra 3,7 e 10 milioni di euro, in particolare per i Reaper di ultima generazione.
Va anche ricordato che negli Stati Uniti, solo negli ultimi 10 anni, il Pentagono è passato da un impiego di droni iniziale di poche decine di unità a un flotta di 7 mila Uav (Unmanned aerial vehicle). Senza contare tutto il mercato indotto delle semplici manutenzioni.

L’Unione Europea pensa a droni Made in Europe: nasce un nuovo consorzio a sostegno del progetto Dassault.

Entro il 2016 Bruxelles dovrebbe aprire lo spazio aereo civile ai droni e la stessa Frontex, l’agenzia militare che controlla i confini europei, sta pensando di impiegare molto presto i velivoli a controllo remoto.

In un documento redatto a Settembre del 2012, dalla Commissione europea, l’UE invita le imprese a investire in questo nuovo mercato che promette miliardi di euro e molteplici applicazioni, non solo in ambito militare, ma anche civile, come ad esempio per il monitoraggio degli eventi di massa, delle calamità naturali o più semplicemente per la supervisione degli spostamenti di migranti in mare in direzione di Lampedusa.

Cassidian, del gruppo franco-tedesco-spagnolo Eads, la francese Dassault Aviation e l’italiana Alenia Aermacchi (Finmeccanica), hanno lanciato un’iniziativa congiunta, con cui chiedono ai rispettivi Paesi di partire nella produzione di un drone di sorveglianza (eventualmente armato) di classe MALE (Medium-Altitude Long-Endurance). Nella lettera comune si legge «Un programma europeo sarebbe in grado di rispondere ai nuovi requisiti delle forze armate e di ottimizzare nel contempo la difficile situazione dei budget della difesa». Assente in questa iniziativa, l’importante colosso inglesi Bae Systems.

In ogni caso l’Europa intende seriamente recuperare un gap di quasi 10 anni di ritardo sulle industrie americane e israeliane. Si tratta in parte di una scelta scontata, perché per poter armare questi nuovi velivoli occorre sempre richiedere l’autorizzazione ai loro produttori statunitensi. E’ già successo all’Italia, che dopo aver acquistato due Reaper americani, che intendeva usare in Afghanistan, attende da più di due anni l’autorizzazione Usa per poterli armare. Anche la Germania ha dovuto abbandonare il programma Euro Hawk perché si è accorta che per armare i vecchi Global Hawk americani e poterli usare in Europa, avrebbe dovuto spendere un sacco di soldi aggiuntivi a quelli già investiti per acquistarli. La Francia, infine, dopo aver comperato alcuni droni, sempre di fabbricazione statunitense, da impiegare in Mali, si è resa conto di poterli usare solo in condizioni di libertà operatività ridotta.

Guardare, perciò, a una produzione di droni europei non è poi così fuori luogo. L’argomento potrebbe già essere discusso questo dicembre, tra i temi dell’ultimo Consiglio Europeo del 2013.

Anche l’Italia si lancia nella progettazione e fabbricazione di droni.

Dopo la Gran Bretagna, l’Italia è stato il primo Paese europeo ad attrezzarsi con droni americani, non armati, a scopo ricognitivo e d’intelligence.

Questa nuova tecnologia, già testata nella guerra in Iraq, ha posto il nostro Paese al primo posto in Europa per competenza e capacità di impiego e anche per lo sviluppo di nuovi velivoli a controllo remoto.

Sono già molte le giovani aziende italiane, specializzate in robotica, che si sono attivate per progettare droni terrestri, aerei e marini, capeggiate dalle big company europee per la Difesa, tra cui Alenia Aermacchi.

L’Italia, quest’anno con Piaggio Aero Industries ha presentato il nuovo aereo Uav P.1HH Hammerhead, sempre per le missioni di sorveglianza, intelligence e ricognizione. Si sta progettando anche il drone killer Male – Medium Altitude Long Endurance – per bombardamenti a lunga gittata. Il progetto, ancora molto riservato, sembra essere già stato avviato da Finmeccanica.

Sigonella

L’Italia è candidata a diventare tra i più grandi Hub mondiali di droni.

Entro il 2017, faranno il loro ingresso, nel “parco macchine” Nato di Sigonella, i primi cinque droni dei 20 previsti, per potenziare il piano Nato Smart Defence (difesa satellitare intelligente), per un investimento di diverse centinaia di milioni di dollari.

Sigonella si prepara così a diventare un grande hub mondiale per i droni.
Da qui Eurosur dell’Ue, proteggerà le frontiere europee, anche usando le moderne tecnologie Uav.
Tra la Puglia, la Sardegna, le basi di Sigonella e Trapani in Sicilia e l’isola di Pantelleria, il nostro ministero della Difesa ha anche creato speciali «corridoi di volo» per gestire al meglio la zona del Mediterraneo.

Dal 18 Ottobre, anche nel Canale di Sicilia, gli UAV sono già al lavoro e affiancano la nave anfibia San Marco, sorvegliando le rotte dei migranti, e la Frontex, deputata a gestire le frontiere esterne dell’UE.

Al momento il parco droni italiani include 6 Reaper (falciatori) e 6 Predator, assegnati al 32esimo stormo della Base di Amendola in Puglia. I 12 aerei teleguidati sono stati acquistati fra il 2001 e il 2008, per un importo complessivo di circa 380 milioni di dollari.

Mentre i Predator sono destinati a operazioni di pattugliamento dei territori, attraverso lo scatto di immagini fotografiche, i Reaper sono in grado anche di sganciare ordigni. Considerando che in Afghanistan ci sono circa 4 mila nostri uomini, oltre a mezzi aerei e terrestri da proteggere, i 6 Predator servono appunto per le ricognizioni e d’appoggio ai militari.

I droni d’attacco Reaper, sono invece impiegati dagli americani nei raid anti-qaedisti in Pakistan e Yemen – dove avrebbero intercettato jihadisti e sventato attacchi terroristici. In occasione della campagna Nato in Libia, del 2011, i Predator italiani sono partiti per aiutare gli analisti americani a identificare i targhet sensibili.

All’inizio di quest’anno, infine, l’Italia ha fornito il supporto logistico ai francesi per il loro intervento in Mali, contribuendo, poi, con i propri droni a rifornimenti e osservazione in volo.

Disposition Matrix e la guerra dei droni.

Da un’inchiesta del Washington Post del 2012, sembra che gli Stati Uniti abbiano creato un sistema, il disposition matrix, che in ogni angolo del mondo individua, cattura e uccide le persone sospettate di terrorismo, attraverso l’impiego anche di droni. Secondo il documento del Washington Post, si calcola che a partire da un primo drone usato per uccidere alcuni presunti membri di Al-Qaeda nello Yemen, le vittime degli ultimi 10 anni siano già più di 3000.

Da un punto di vista strettamente giuridico non esiste una legge specifica per casi come questi, salvo l’autorizzazione del Congresso, successiva ai fatti dell’11 settembre 2001, che consente l’uso della forza militare per fini antiterroristici e più in generale il diritto all’autodifesa. Così è lo stesso Presidente Obama, che sotto la sua personale responsabilità, esamina la lista dei presunti terroristi e ne autorizza l’attacco.

Giuristi di varie parti del mondo non ritengono sia legittimo autorizzare l’attacco a individui di identità ignota, le famose signature strikes, semplicemente sulla base di alcune attività, che siano assimilabili a 14 casi di riferimento specificati dal programma e analizzati da Kevin J. Heller dell’Universitá di Melbourne. Tra le attività indicate vi sono per esempio quelle di: pianificare un attacco; trasportare armi; maneggiare esplosivi; essere in un compound o in un campo di addestramento di Al-Qaeda, essere un uomo ‘in età militare’ in territori in cui sono in corso attività terroristiche, essere in compagnia di militari o muoversi armati nelle zone controllate da Al-Quaeda.

Secondo uno studio pubblicato dall’Università di Staford, il diritto internazionale umanitario (quello applicato in tempo di guerra) che permette l’uso intenzionale di forze letali, unicamente se assolutamente necessario e in proporzione alla situazione, non concorda con questi “omicidi intenzionali e premeditati”.

Anche nello Special Rapporteur dell’Onu, sulle esecuzioni extragiudiziali, si legge: “In base al diritto dei diritti umani, un omicidio mirato, nel senso di un omicidio intenzionale, premeditato e deliberato, eseguito da forze di polizia non può mai essere legale perché, a differenza che in un conflitto armato, non è mai permesso che il solo obiettivo dell’operazione sia l’uccisione”.

La questione è stata, recentemente, di nuovo sollevata alle Nazioni Unite dalla Francia, attraverso un’interpellanza scritta in cui si chiede di aprire un formale dibattito. Jean-Hugues Simon-Michel, durante la Conferenza del Disarmo a Ginevra, ha sottolineato la questione dell’arbitrio degli uomini nel decidere se utilizzare la forza letale. Anche il rappresentante egiziano si è mostrato preoccupato e ha fatto un’altra interpellanza scritta per la messa al bando a priori di questo tipo di armi.

Amnesty International a Human Rights Watch, hanno già dato il via a una campagna di sensibilizzazione dell’opinione pubblica mondiale,  la Campagna “Stop Killer Robots”.

Nel sito della campagna si legge: “Diverse nazioni con eserciti hi-tech, tra cui Cina, Israele, Russia, Gran Bretagna e Stati Uniti si stanno muovendo verso sistemi che danno sempre più autonomia alle macchine nei combattimenti. Se uno o più di loro decidesse di impiegare armi pienamente autonome, un passo ancora più in là rispetto ai droni armati e controllati da remoto, altri potrebbero sentirsi obbligati ad abbandonare le loro politiche restrittive in materia, e tutto ciò porterebbe a una corsa alle armi robotiche. Per cui è necessario ora un accordo per stabilire dei controlli prima che gli investimenti, la spinta tecnologica e nuove dottrine militari rendano difficile cambiare il corso delle cose”.

Nel documento Will I be next? US drone strikes in Pakistan, “Sarò io il prossimo? Gli attacchi con i droni USA in Pakistan”, preparato da Amnesty International negli ultimi mesi, sugli omicidi eseguiti dagli Stati Uniti attraverso i droni nel nord-ovest del Pakistan, Amnesty accusa gli americani di assassinio di civili, terrore, mancata trasparenza e crimini contro l’umanità.

Di recente il segretario di Stato John Kerry ha reso noto che gli attacchi negli ultimi tempi sono diminuiti e che la Casa Bianca starebbe anche pensando di chiudere il programma.

Il terzo millennio sarà quello della guerra dei droni

Secondo un rapporto del Governo di Washington i paesi dotati di droni sono 76. Più di 50 Paesi stanno progettando e costruendo almeno un centinaio di tipi di droni. Di tutti questi Paesi, però, solo Israele, Gran Bretagna e Stati Uniti utilizzano droni armati. I modelli più noti sono i Reaper e i Predator.

Americani e israeliani sono anche i più grandi esportatori di droni. Tra il 2005 e il 2010 gli americani hanno autorizzato il trasferimento di tecnologia a quindici Paesi alleati, tra cui anche Italia, Danimarca, Lituania, Australia, Colombia e Singapore. A maggio del 2012 sul Wall Street Journal si leggeva che gli USA avevano accettato di armare i droni dell’aeronautica militare italiana, ma a Roma l’autorizzazione del Congresso non è ancora arrivata.

Il mercato israeliano delle Elbit Systems e della Israel Aerospace Industries, promuove l’80% delle sue esportazioni verso Gran Bretagna, Asia, America Latina (Colombia, Ecuador, Brasile, Cile, Perù, Venezuela) e recentemente anche India.

Gli americani di General Atomics, invece, con l’autorizzazione governativa firmata, hanno già concluso un accordo con gli Emirati Arabi Uniti per una fornitura non armata di Predator, per un totale di circa 200 milioni di dollari. L’Arabia Saudita ha poi chiesto al Governo di Washington, di poter acquistare droni armati, ma naturalmente la risposta è stata negativa.

Resta l’esercito britannico, la Royal Air Force, con al suo attivo 500 droni, ma l’obiettivo di avere, entro il 2030, un terzo della flotta aerea completamente comandata a distanza. Per questo progetto è anche già stato stabilito il punto di raccolta nella città di Waddington, nel Lincolnshire.

E arriviamo infine alla Cina. Pechino in ritardo, come tutti, rispetto a Stati Uniti e Israele, sta sviluppando i suoi droni, molto simili ai Reaper americani, e che intende utilizzare per sorvegliare i confini con Giappone, India, Vietnam e Filippine e le zone del Pacifico di influenza americana.

A una certa distanza sembra lo scacchiere di un banale Risiko. Di certo l”economia americana ha trovato una via per un suo nuovo e redditizio sviluppo economico, ma anche un modo per mantenere attivo e onnipresente il suo ruolo e la sua supremazia militare nel mondo.

La Guerra dei Mondi, racconta da Herbert George Wells sembra proprio dispiegarsi sopra le nostre teste.

di Adriana Paolini

Linkografia:

– Articolo apparso su Daily Mail “Killer Robot”:

http://www.dailymail.co.uk/news/article-2324571/U-S-Navys-X-47B-stealth-drone-launches-aircraft-carrier-time–critics-warn-heralds-rise-killer-robots.html

– Articolo apparso su The New American:

http://thenewamerican.com/

– Documento redatto a Settembre del 2012, dalla Commissione europea:

http://www.google.it/url?sa=t&rct=j&q=&esrc=s&source=web&cd=1&ved=0CDEQFjAA&url=http%3A%2F%2Fdronewarsuk.files.wordpress.com%2F2012%2F09%2Fec-swd_civilrpas.pdf&ei=a0mJUuj6M4i47Qam9oCYBA&usg=AFQjCNGGv-ftxKARiYjA_6cMyHsJPwgONg&sig2=2s0cfLiU947rIZ39FJBMuw&bvm=bv.56643336,d.bGE&cad=rja

Piano Nato Smart Defence:

http://www.nato.int/cps/en/natolive/topics_84268.htm?

http://www.nato.int/cps/en/natolive/official_texts_87594.htm

– Inchiesta Washington Post:

http://www.washingtonpost.com/world/national-security/plan-for-hunting-terrorists-signals-us-intends-to-keep-adding-names-to-kill-lists/2012/10/23/4789b2ae-18b3-11e2-a55c-39408fbe6a4b_story.html

– Kevin J. Heller:

https://papers.ssrn.com/sol3/papers.cfm?abstract_id=2169089

– Studio dell’Università di Stanford:

http://blogs.law.stanford.edu/newsfeed/2012/09/25/living-under-drones%E2%80%9D-new-report-issued-by-the-international-human-rights-and-conflict-resolution-clinic/

– Special Rapporteur dell’Onu:

http://unispal.un.org/UNISPAL.NSF/0/69633D6116C53C898525773D004E8C13

Interpellanza della Francia durante la Conferenza del Disarmo a Ginevra:

http://www.reachingcriticalwill.org/images/documents/Disarmament-fora/1com/1com13/statements/8Oct_France.pdf

– Interpellanza del rappresentante egiziano durante la Conferenza del Disarmo a Ginevra:

http://www.reachingcriticalwill.org/images/documents/Disarmament-fora/1com/1com13/statements/8Oct_Egypt.pdf

– Campagna “Stop Killer Robots”:

http://www.stopkillerrobots.org/

http://www.unog.ch/80256EE600585943/%28httpPages%29/4F0DEF093B4860B4C1257180004B1B30?OpenDocument

 

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La corruzione in India

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La corruzione in India

Pubblicato il 31 ottobre 2012 by redazione

Ce la farà la Fenice a risorgere?

proteste anti-corruzione

Proteste anti-corruzione.

Mazzette, incentivi, donazioni, agevolazioni: sono molteplici le forme che la corruzione può assumere. Unico risultato: una sorta di termaio che rischia di crollare o di assorbirti alla prima occasione. Una situazione decisamente familiare per la democrazia più grande del mondo, l’India. Un Paese in cui la corruzione non viene più celata dietro “favori” ad hoc, ma dove ha acquisito le caratteristiche di un vero e proprio fenomeno alla luce del sole. I cittadini si trovano costretti a pagare bakshish (le mazzette) per qualsiasi tipo di servizio: dalla prenotazione in un ristorante alle patenti di guida (un vero e proprio mercato nero in India), dal responsabile per l’allacciamento della linea telefonica alla rete nazionale fino alla richiesta del passaporto.

Questo quanto emerge dai report pubblicati dalla Transparency International, associazione non governativa e no profit che si propone di monitorare e combattere la corruzione. Proprio da un sondaggio condotto da quest’ultima tra il 2010 e il 2011 su 7500 soggetti risulta anche come l’indignazione dell’opinione pubblica in merito a questa sorta di “cancro” sia cresciuta. Complici probabilmente i numerosi scandali politici che hanno travolto la classe politica indiana e, più recentemente, il mercato degli investimenti immobiliari, che quest’estate è sfociato nel caso Coalgate. Basti citare i recenti avvenimenti: il rifiuto da parte di Sonia Ghandi di presentare la propria dichiarazione dei redditi degli ultimi 12 anni, sotto istanza di Gopalakrishnan di fronte all’Agenzia delle tasse (dal momento che la famiglia Gandhi, non imparentata con il celebre Mahatma Gandhi e radicata nelle alte sfere della politica indiana da più di un secolo, viene accusata dall’opinione pubblica di aver accumulato un piccolo tesoro in banche svizzere) e il caso Coalgate, definito dai giornali locali come “la madre di tutti gli imbrogli”, per cui il Central Bureau of Investigation (CBI) ha avviato un’inchiesta sulla compravendita a un prezzo più basso di miniere in teoria destinate allo sfruttamento, ma in pratica messe all’asta tra privati, per un danno allo Stato stimato dal CBI intorno ai 33 miliardi di euro. Inchiesta che se confermerà le accuse, porterà non solo alle dimissioni di Manmohan Singh, attuale Primo Ministro indiano e ministro delle miniere al tempo dei fatti, ma minerà ulteriormente la già precaria credibilità del Partito del Congresso Nazionale indiano (guidato da Sonia Gandhi). Una perdita per il Paese che rischia di risvegliare l’indignazione che nel 2011 suscitò lo scandalo 2G: all’epoca il danno per le casse dello Stato fu di 40 miliardi di dollari.

corruzione 1Ma questa non è che la punta dell’iceberg. Nel popolo indiano cresce sempre più l’esigenza di “far sentire la propria voce”, ma soprattutto cresce il bisogno di trasparenza, non a caso obiettivo presente nei manifesti di quasi tutti i partiti politici indiani. Ma è proprio in questi partiti che i cittadini indiani sembrano non riporre più la fiducia di un tempo (al punto che lo stesso “fattore Gandhi” sembra non confortare più gli elettori, come dimostra la sconfitta del partito di Sonia Gandhi alle regionali del Marzo 2012). I nuovi leader sono diventati gli attivisti e i nuovi partiti altro non sono che un’”istituzionalizzazione” di movimenti popolari. Anna Hazare, Arvind Kejriwal, Prashant Bhushan sono tutti attivisti, membri del movimento India Against Corruption (Iac) e del Team Anna che in questi due anni hanno scosso l’India e, cosa più importante, l’opinione pubblica con proteste e manifestazioni in ogni parte del Paese: il tutto all’insegna del Pacifismo. L’obiettivo? Spingere il Governo a prendere provvedimenti tempestivi in tema di corruzione e riportare in patria il denaro sporco (black money) nascosto nelle banche svizzere e straniere.

L’arma? Lo sciopero della fame.

Quello che molti ritengono un eroe? Anna Hazare, 72 anni.

Il mezzo? Il Lokpal Bill.

Il Lokpal Bill, un progetto di legge anti-corruzione, proposta per la prima volta nel 1968 e arrivata ormai all’ottava discussione in Parlamento, che se approvato istituirebbe un Super-organo indipendente di vigilanza in materia di corruzione, il LOKPAL (dal sanscrito: protettore delle persone) i cui membri sarebbero nominati in base a particolari requisiti di integrità morale. Sembra paradossale che quella che viene chiamata “la più grande democrazia del mondo”, fondata sul multipartitismo, affidi la repressione di un fenomeno così insidioso come è quello della corruzione proprio a un unico organo elettivo, dove di fatto i commissari vengono selezionati in base a una sorta di “criterio della fiducia”, considerato alla stregua di una vera e propria macchina della giustizia.

Perplessità espressa anche da Pratap Bhanu Mehta, presidente del Centre for Policy Research di Delhi, che in un suo articolo per The Indian Express scrive: “They amount to an unparalleled concentration of power in one institution that will literally be able to summon any institution and command any kind of police, judicial and investigative power […] Having concentrated immense power, it then displays extraordinary faith in the virtue of those who will wield this power. Why do we think this institution will be incorruptible? […] They are perpetuating the myth that government can function without any discretionary judgment”. Senza considerare che in molti restano dubbiosi di fronte all’evanescenza della delimitazione dei poteri giudiziari del Lokpal (e quindi, in sostanza, dei provvedimenti da adottare di fronte ai fenomeni di corruzione).

Progetto di legge, tuttavia, che nasce in seno al Parlamento indiano e che non va confuso con la proposta di legge redatta dagli attivisti indiani, il Jan Lokpal Bill, dove JAN (cittadini) istituirebbe una sorta di meccanismo per cui le segnalazioni arriverebbero proprio a partire dai cittadini, tramite una consultazione pubblica, mediata dagli attivisti. La differenza tra le due proposte? Ovviamente l’ampiezza dei poteri attribuiti al Lokpal: già perchè mentre nella proposta redatta dallo Iac l’obiettivo è quello di creare un organismo del tutto indipendente dalle istituzioni, quella al vaglio in Parlamento sembra essere una versione molto più allungata della minestra!

Swati e Ramesh

Swati e Ramesh Ramanathan.

Eppure una risposta sembra arrivare ancora una volta dai cittadini e dalle segnalazioni degli utenti. Come dimostra il progetto I paid a bribe, avviato da Swati Ramanathan, suo marito Ramesh Ramanathan e Sridar Iyengar che insieme a un gruppo di volontari smista quotidianamente le segnalazioni inviate dagli utenti in tre categorie: ho pagato una mazzetta, non ho pagato una mazzetta, non ho dovuto pagare una mazzetta. Il sito che copre più di 489 città in India garantisce l’anonimato delle segnalazioni, seppure a discapito di un controllo sulla veridicità delle segnalazioni. Eppure questo non ha impedito a Bhaskar Rao, responsabile dei trasporti nello stato di Karnataka, di servirsi proprio dei dati raccolti da I paid a bribe per riformare il proprio dipartimento: le licenze ora vengono concesse on-line e i test di guida sono stati del tutto automatizzati, oltre al fatto che ogni prova viene registrata in modo da garantire la più completa trasparenza. Anche Ben Elers, direttore del programma Transparency International ha sottolineato come le nuove tecnologie abbiano offerto la possibilità anche all’uomo medio di fare la differenza: “The critical thing is that mechanisms are developed to turn this online activity into offline change in the real world.”

Il progetto si è esteso a macchia d’olio, abbracciando ora anche la Grecia, il Kenya, lo Zimbabwe, il Pakistan e a breve anche le Filippine e la Mongolia (lo stesso si è avuto per la Cina, anche se qui il fenomeno è stato prontamente censurato dal governo cinese).

L’unico ostacolo? Il vile denaro!

Già, perchè la chimera che potrebbe fare naufragare questi neonati siti di denuncia potrebbe essere proprio la mancanza dei finanziamenti ai progetti, come lamenta giustamente Antony Ragui, promotore del modello I paid a bribe in Kenya e, al momento, suo unico finanziatore. Lo stesso discorso non vale, invece, per il suo gemello indiano, che oggi vanta l’aiuto economico della Omidyar Network, l’organizzazione che si occupa della filantropia di Pierre Omidyar, fondatore di e-Bay.

Un report sullo stato della corruzione in India, condotto nel 2011 dalla KPMG concludeva evidenziando come a una diminuzione della corruzione in India seguano necessariamente più alti tassi di crescita, e chissà che non siano proprio i cittadini a trasformare il loro Paese in una moderna fenice.

di Giulia Pavesi

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