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Cacciatori di pirati digitali: chi sono i veri criminali?

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Cacciatori di pirati digitali: chi sono i veri criminali?

Pubblicato il 30 giugno 2012 by redazione

“La comunicazione è un processo sociale fondamentale, un bisogno umano primario e il fondamento di tutte le organizzazioni sociali. E’ centrale nella società dell’informazione.”

Il passo qui citato, viene riportato da una dichiarazione rilasciata durante il World Summit on the Information Society del 2003 e mai come oggi, visti i recenti sviluppi del progetto ACTA, a livello internazionale, e del SOPA negli USA (di fatto in sostituzione del DMCA, ora vigente), risulta così attuale.

Assange

In breve, questi progetti normativi costituirebbero una fortissima limitazione della libertà degli internauti di accedere e sfruttare informazioni online, opere condivise o database informatici, il tutto in nome di una fortissima protezione del diritto d’autore. Il che è reso ancor più paradossale dal fatto che proprio il copyright era nato come strumento di censura per gli autori! Già, infatti fu introdotto in Inghilterra nel XVI secolo in modo tale che la Corona potesse controllare cosa potesse essere pubblicato e cosa, invece, censurato! Quello che oggi viene difeso alla stregua di un diritto inviolabile, altro non era che uno strumento nelle mani dell’Autorità.

Procediamo per gradi. Sul filone dei recenti scandali informatici (Wikileaks, Megavideo, Megaupload e molti siti di file-sharing peer-to-peer solo per citarne alcuni), sono stati sviluppati a livello locale (visto che i progetti SOPA e PIPA sono stati presentati su base nazionale negli USA, rispettivamente dal deputato repubblicano della Camera dei Rappresentanti statunitense Lamar S. Smith e dal senatore Patrick Leahy) e poi estesi a tutela internazionale (vedi il recentissimo accordo commerciale dell’ACTA, siglato a Tokyo il 26 gennaio 2012 cui hanno aderito 22 dei 27 Paesi dell’UE), disegni di legge che rafforzerebbero notevolmente la proprietà intellettuale. Negli ultimi anni, infatti, si è sviluppato il trend internazionale di inasprimento delle pene, anche per quei reati che, di fatto, costituiscono ormai prassi consolidata dell’era digitale (come lo scaricare un brano musicale), al punto che è nata una sorta di “equiparazione” tra la violazione del copyright e il reato di furto.

Siamo arrivati a un punto di sanzionamento per cui la punizione non è più un deterrente per l’agente, ma svolge un ruolo di “punizione esemplare”, specialmente in caso di approvazione del disegno di legge del deputato Smith o del senatore Leahy, dove interi siti rischiano la rimozione soltanto per la violazione del copyright da parte di UNO solo dei contenuti: come dire “in un pacchetto di biscotti ce n’è uno guasto. Fermiamo l’intera produzione di dolci a livello federale!”. E a dirla tutta non si tratta neanche di grandi novità, visto che entrambi i progetti nascono dalle ceneri di altre due proposte: il DMCA (attualmente in vigore negli USA) e il COICA (presentato nel settembre 2010 e respinto). Stando a questi due progetti normativi, con il SOPA (Stop Online Piracy Act ) sarebbe consentito alle stesse detentrici di copyright di agire direttamente per impedire la diffusione di contenuti protetti e verrebbe seriamente limitata l’autonomia di siti che permettono agli utenti di caricare contenuti (senza andare troppo lontano: Facebook, Youtube, Blog….), in quanto anch’essi perseguibili, nonostante siano meri “contenitori” dell’informazione, al punto da essere considerati essi stessi “siti pirata” (come previsto dal PIPA, PROTECT IP Act).

Non solo! In previsione si avrebbe una proliferazione incontrastata di cause legali nascenti contro la violazione del diritto d’autore, dove siti minori verrebbero sopraffatti dalle grandi case detentrici del copyright, perchè incapaci di sostenere economicamente le spese legali. In aggiunta, questo progetto non si limiterebbe alla sola giurisdizione statunitense, ma estenderebbe il suo raggio d’azione anche a siti collocati al di fuori del territorio USA, ma accusati di consentire direttamente o indirettamente la violazione del diritto d’autore in uno degli Stati federali. Come? Oscurando tali siti, impedendone la visualizzazione dagli stessi motori di ricerca e compromettendone seriamente lo sviluppo economico, dal momento che le detentrici del copyright potrebbero rivolgersi a società di pagamenti online (Paypal e Mastercard solo per citarne alcune tra le più diffuse) vietando loro di fornire i propri servizi ai siti sospetti.

Per quanto riguarda la sfera europea, invece, un obiettivo simile, ma decisamente più mitigato, è stato perseguito tramite l’ACTA (Anti-Counterfeiting Trade Agreement ), accordo commerciale plurilaterale, spacciato per inasprimento ed estensione del TRIPs (Accordo sugli aspetti commerciali dei diritti di proprietà intellettuale, promosso dall’Organizzazione Mondiale del Commercio, ad oggi considerato uno degli accordi più completi in materia di proprietà intellettuale), cui hanno aderito 22 Paesi su 27 dell’UE, tra cui anche l’Italia, e fino ad ora firmato da 30 Paesi. Anche l’iter di approvazione di questo progetto è stato piuttosto travagliato, soprattutto per la questione della scarsa trasparenza che ne ha accompagnato tutte le fasi dei negoziati. Innanzitutto, questo accordo commerciale nasce con l’intento “dichiarato” di rafforzare i diritti della proprietà intellettuale a livello internazionale, in modo da opporsi al fenomeno ormai capillare nella nostra società della contraffazione (alimentare, di farmaci, film e musica) e della pirateria informatica. I negoziati nascono nel 2007, coinvolgendo 40 Stati, diverse associazioni e multinazionali, e vengono mantenuti segreti durante tutta la redazione del testo originale, al punto che lo stesso Presidente Obama vi appone il segreto di Stato per motivi di sicurezza nazionale. Già questo episodio, dovrebbe essere un campanello d’allarme, perché così facendo il Presidente degli Stati Uniti ha spacciato un trattato (che quindi ha valenza legislativa e deve passare all’attenta analisi e votazione del Senato) per un “accordo esecutivo” stipulato sul fronte internazionale (sollevando non pochi dubbi circa la sua legittimità costituzionale, dubbi esplicitati direttamente al Presidente Obama, in una sorta di lettera aperta, firmata da alcuni tra i più autorevoli giuristi americani del nostro tempo: http://infojustice.org/senatefinance-may2012 ). Senza troppi giri di parole, questo gruppo di accademici fa notare come l’iter legislativo non rispetti i principi fondamentali sanciti nell’Articolo 1 della Costituzione americana ed evidenzia come la questione non riguardi una mera violazione processuale (ossia l’approvazione da parte del Congresso ex-ante, invece che ex-post, della proposta di legge), ma vada ad intaccare lo stesso principio di separazione dei poteri, in quanto la sfera di competenza del potere esecutivo verrebbe dilatata da una disposizione che “clearly does not authorize the agreement “ (infatti, la Sezione 8113(a) del PRO-IP Act non autorizza la negoziazione di accordi internazionali, ma auspica, nella sottosezione f) programmi di assistenza tecnica ai governi stranieri nella lotta alla contraffazione e alle infrazioni tra le Agenzie dei vari Paesi). Ed è qui che interviene l’altro motivo di incertezza: sul modello e sulla portata di leggi nazionali in materia di proprietà intellettuale, verrebbero creati obblighi internazionali, con una sommaria delineazione anche dell’entità delle ipotetiche pene relative a ciascuna infrazione.

Quest’onda di incertezza non ha risparmiato nemmeno l’Unione Europea, sia dal punto di vista accademico (dove quesiti analoghi si hanno: http://www.statewatch.org/news/2011/jul/acta-academics-opinion.pdf), sia dal fronte interno della stessa Unione europea. Se a luglio 2011, la Direzione Generale per le Politiche Estere si limitava ad avviare uno studio conoscitivo su ACTA, in vista della ratifica dell’accordo, in cui si conclude “l’inopportunità” (inteso come “pochi vantaggi”) dell’accordo, a partire da maggio 2012 il suo approccio si fa molto più analitico, al punto che il Parlamento Europeo decide di far passare il testo legislativo sotto la scure di ben cinque commissioni (la Commissione Giuridica; la Commissione Industria; la Commissione che si occupa di libertà civili; la Commissione Sviluppo e da ultima la Commissione Commercio Internazionale). Il responso comune? Respingere l’accordo! Immancabile la critica e il disappunto delle grandi major e dei loro rappresentanti (da molti considerate le “burattinaie” che si celano dietro questo progetto e che hanno partecipato alla “negoziazione segreta” dell’accordo). Carole Tongue, parlamentare europea ed esponente del Gruppo del Partito del Socialismo Europeo ha commentato, il 21 giugno 2012, alla fine del vaglio della Commissione Commercio Internazionale: «L’economia della conoscenza in Europa occupa fino a 120 milioni di lavoratori, con mestieri che vanno dalla manifattura ai settori innovativi e creativi. Penso che queste persone siano deluse dal voto di oggi».

Di contro, si è dichiarato soddisfatto il deputato David Martin (membro del Gruppo dell’Alleanza Progressista di Socialisti e Democratici al Parlamento Europeo), responsabile di aver “affossato” l’accordo troppo vago, privo di definizioni precise, ma con sanzioni spropositate, che alla fine della votazione ha commentato: «Io critico il contenuto del trattato, non il fatto che l’UE tuteli la proprietà intellettuale. Se la Commissione proporrà sistemi e metodi più sensati per difendere la proprietà intellettuale, li sosterrò». Ora la decisione finale spetta al Parlamento Europeo, che a luglio si pronuncerà in seduta plenaria (dall’Agenda dell’Unione Europea fanno sapere tra il 2 e il 5 luglio 2012) sul testo integrale, senza possibilità di proporre emendamenti (si noti che in caso di risposta negativa, l’ACTA non sarà legge per l’Unione Europea!). La risposta, una sola: SI o NO.

 di Giulia Pavesi

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La tratta dei “mi piace” e dei “follower”

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La tratta dei “mi piace” e dei “follower”

Pubblicato il 05 giugno 2012 by redazione

fansUna tendenza in voga, non solo tra le aziende, ma anche tra i singoli utenti che vogliono apparire sempre più ‘seguiti’. Se fino ad alcuni anni fa era “cool” avere un profilo Facebook o un account Twitter, oggi l’imperativo è la “quantità”. “Quanti contatti? Quanti amici? Quante visualizzazioni, quanti commenti, quanti mi piace?”. E mentre la maggioranza degli utenti afferma di disinteressarsi di tale frivolezze, proliferano le aziende che vendono fans, follower, commenti e mi piace.

Basta fare un giro in rete. Su eBay, pacchetti di 1000 visualizzazioni a 12,90€, 100 iscritti a 19,90€ e 5 commenti a ben 5,90€. Un esempio di Fans Marketing è costituito proprio da www.fbfans.it  100 fan di Facebook ogni mese, alla modica cifra di 23 euro, 250 fan a 59 euro e per 500 bisognerà sborsare 110 euro fino ad arrivare a 599 euro per 3000 fan. Per 5000 fan, in 7 giorni, si sfiorano i mille euro.

Dunque massa, numeri.  I fan profilati, per fasce d’età, o attraverso altri filtri, hanno un prezzo maggiorato. Un altro esempio è rappresentato da Magicviral (http://www.magicviral.com ). Uno degli annunci che campeggia sull’Home Page del sito: “Potenzia la tua pagina Twitter con pacchetti da 500 fino a 10,000 Follower 100% Italiani. Acquista inoltre retweet delle tue notizie su Twitter, fondamentali per la diffusione capillare delle tue notizie”. E se non si vuole investire in denaro, lo si può fare in click e tempo, attraverso un sistema a punti. Addmefast (www.addmefast.com ) ne è un esempio, è un servizio di social marketing. Basta registrarsi e accumulare punti, mettendo ‘mi piace’ in altre pagine Facebook, ogni utente accumulerà un tot di punti e sarà a sua volta più seguito. Un meccanismo che può generare un traffico significativo di utenti che vedono aumentare i follower sul proprio profilo Twitter, gli iscritti e le visualizzazioni sul canale youtube, i contatti nelle cerchie di Google+. Per i dettagli, si rimanda al sito www.addmefast.com .

Insomma, la credibilità di un profilo o il successo di un brand sembrerebbe direttamente proporzionale al numero di follower. Del resto, è ciò a cui la televisione degli ultimi anni ha abituato la massa. Basti pensare all’Auditel nella programmazione degli spettacoli televisivi. Il successo e la continuità di un programma sono dipendenti da uno share sufficientemente alto che ne giustifichi la visione. Il programma ‘funziona’ se seduce lo spettatore, se lo conquista fino a – talvolta – ‘manipolarlo’. Uno share basso è il preludio alla cancellazione dal palinsesto. Dalla tv al web, dall’audience al numero di contatti, il passo è breve. La vendita di contatti, secondo molti blogger e webmaster, tuttavia è roba vecchia e ritengono più efficace il “world of mouth”, il passaparola, che non si compra certo a stock. Per essere nel social business, bisogna “essere” social business, dunque pubblicare, commentare, movimentare, esserci insomma.

In rete, il dibattito è aperto: c’è chi inorridisce all’idea della compravendita (“Posso capirlo per un’azienda, ma se una persona comune fa una cosa simile dev’essere davvero triste”) e chi la reputa la nuova frontiera del marketing (“Non vedo nulla di male in questa tipologia di servizi, è semplicemente un ulteriore investimento economico che un’azienda decide di fare per incrementare la propria attività on-line”). Un utente si spinge a un parallelo con la tv: “comprendo che sia una cosa eticamente sbagliata, ma è una cosa che si è sempre fatta. Nei reality in Tv, i genitori dei concorrenti investono soldi per pagare dei call center in modo da non far uscire il proprio figlio dalla casa/isola/fattoria/quellochetipare”. (http://ilgxblog.blogspot.it/2012/03/vendita-di-follower-che-novita.html ). La pratica è seguita anche da personaggi che vantano già un discreto successo di pubblico. Rihanna fu accusata di acquistare follower su Twitter per superare Lady Gaga che stava diventando la regina incontrastata dei social network.

I politici, poi, sono i primi a investire energie sia su Facebook che su Twitter. Resta il dubbio se anche loro acquistino consensi a pagamento o se sia frutto degli elettori, amici, parenti, simpatizzanti. Stando ai numeri, il podio è stato occupato per mesi da Nichi Vendola, tra i politici più seguiti d’Europa, con oltre 500mila ‘mi piace’ e 188mila follower. A seguire, su Facebook, l’ex presidente del Consiglio Silvio Berlusconi. Molto attivi anche Matteo Renzi, Luigi De Magistris e Antonio Di Pietro. L’ex-sindaco di Milano, Letizia Moratti, fu scoperta durante la campagna elettorale ad acquistare fan su Facebook e follower su Twitter. C’è poi il punto di vista di chi lavora con la creazione e la fidelizzazione dei contatti: “chi conosce un minimo le problematiche dei webmaster sa perfettamente che il problema più grande è la targettizzazione, ovvero arrivare dritti all’utente finale, oggetto della mission dei nostri contenuti”.

socialUn addetto ai lavori spiega nel dettaglio il servizio: “Il nostro sistema di ‘consegna’ dei fan su Facebook è molto rapido poiché disponiamo di un partener di collaboratori (tutti utenti reali), iscritti al nostro circuito e che vengono pagati per ogni click sui link che gli vengono consigliati. In questo modo, quando facciamo girare l’informativa interna che indica una richiesta da parte di un cliente (per esempio 100.000 fan) riconosciamo il pagamento solo per i primi 100.000 nostri collaboratori che cliccano ‘mi piace’. E’ con questo sistema che garantiamo rapidità nella consegna dei nostri servizi”. Semplice e veloce, dunque. Basta pagare e si vedrà lievitare il numero di fan.

I clienti, pronti a sborsare somme non indifferenti, pare siano agenzie pubblicitarie che realizzano video per conto terzi acquistando visualizzazioni, commenti e ranking. Ci sono poi musicisti e videomaker privati che, prima di presentare il proprio prodotto a etichette discografiche, incentivano il loro video con visualizzazioni e ranking di gradimento positivi. Non sono esclusi nemmeno i grossi marchi che, certi di raggiungere in breve tempo un numero elevato di fan della propria pagina, prima di promuoverla ufficialmente, ne aumentano artificialmente gli iscritti.

L’idea generale – ed inquietantemente dominante – è dunque che un account con molti follower sia popolare e garante di qualità, quindi degno di attenzione. Ciò può indurre tanti, e non solo aziende, agenzie e volti noti, a comprare pacchetti di follower senza che si seguano, a loro volta, altri utenti e si crei quella comunicazione che dovrebbe essere alla base dell’essere ‘social’. Da lì, il passo successivo è la classificazione, l’applicazione dunque di filtri, a seconda del target a cui si vuole puntare, secondo età, tipologia di lavoro, provenienza geografica, livello di istruzione, interessi. Il tutto viene percepito dalla maggioranza, secondo una logica di marketing e promozione professionale.

Ma la faccenda dei follower è solo una piccola manifestazione di un “crimine invisibile” che investe la rete e dunque anche i social network. Basti pensare al piano diabolico di Adolf Hitler, ancora oggetto di indagini e di discussioni da parte degli storici. Il piano fu realizzato grazie all’alleanza tra il Terzo Reich e la società di elettronica IBM, che offrì una preziosa cooperazione attraverso le sue filiali tedesche. “La IBM – scrive Michele Altamura, fondatore della Etleboro ONG e analista per i Balcani – contribuì, con le sue tecnologie, all’individuazione e alla catalogazione della popolazione ebrea in Europa, negli anni compresi tra il 1933 e il 1940. Naturalmente, in quegli anni, non esistevano gli elaboratori (gli attuali computer), ma esisteva la tecnologia “punch card” dell’Hollerith Systems di IBM, un sistema cibernetico che attribuiva un numero di serie ad ogni individuo mediante dei codici: le macchine IBM, affittate a costi elevatissimi, crearono miliardi di matrici (schede perforate). Grazie ad esse, Hitler riuscì ad ‘automatizzare’ la ricerca del popolo ebreo, analizzando registri anagrafici, censimenti e banche dati di tutti i Paesi europei, con una velocità e precisione a dir poco impressionante, che gli storici ancora oggi non riescono a spiegare. Ciò che fu sperimentato dal regime nazista di Hitler – continua Michele Altamura – viene oggi attuato dal Governo degli Stati Uniti, dall’Unione Europea e dalla Russia che, utilizzando la guerra al terrorismo, impiega la biometria per individuare, classificare e monitorare la popolazione e le sue risorse (http://etleboro.it/read.php?id=17000). Senza insinuarsi ulteriormente in meccanismi complessi da decifrare fino in fondo e tornando alla questione della compravendita dei ‘mi piace’ e dei  follower, da cui si è partiti, il dubbio che resta è uno.

Se comprare contatti e consensi non è reato, se non lo è accumulare punti in cambio di visibilità, se è legittimo perseguire l’obiettivo di avere sempre e comunque più contatti e crescere esponenzialmente nella rete, nel momento in cui il numero massiccio di fan, amici (veri/comprati) non corrispondesse alla reale fruizione dei contenuti per i quali gli account sono presenti, se non commentassero e apprezzassero davvero i post e i prodotti per cui l’acquirente ha investito certe somme, sarebbe altrettanto edificante vantare 5000 amici su Facebook o esibire migliaia di commenti sui canali youtube? La risposta potrebbe sfociare nella vecchia questione – di pirandelliana memoria e sempre attualissima – della cultura dell’essere o dell’apparire. Resta il fatto che chi non ricorre all’acquisto di consensi ma li accumula spontaneamente, scrivendo tweet interessanti, unici, “socializzando” il più possibile, interagendo con il proprio audience, mettendosi in discussione, creando dibattiti produttivi, potrà contare su persone realmente interessate, con cui interagire e grazie alle quali migliorare il proprio brand o la propria professionalità. Chi avrà acquistato stock di account, non distinguerà più i contatti veri da quelli fittizi.

Stabilire la veridicità, pare, non sia un cruccio per certi acquirenti. Se, come scriveva Leonardo Da Vinci, “Il mezzo più efficace di ottener fama è quello di far credere al mondo di esser già famoso”,  gli aspiranti tali hanno già la tavola imbandita, basta solo pagare il conto e servirsi. A tutti gli altri, non resta che decidere se mangiare alla stessa tavola.

di Elisa Giacalone

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