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The day the music died

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The day the music died

Pubblicato il 10 dicembre 2012 by redazione

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The beatles.

L’industria musicale è un’arena, dove gli artisti, come gladiatori, combattono fino all’ultimo sangue per la loro sopravvivenza. Questa affermazione potrebbe sembrare esagerata, ma non lo è. Se bastasse il talento per sfondare, questo sarebbe sicuramente un mondo migliore, ma purtroppo non basta. Il mondo è pieno di artisti di grande talento che, in mancanza di conoscenze, possibilità economiche, capacità imprenditoriali e fortuna, rimangono nell’ombra.

È sempre stato così, ma negli ultimi anni la situazione è andata via via peggiorando.

I motivi sono molteplici. Nell’ultimo decennio l’industria discografica ha subito un tracollo, dovuto soprattutto ai mille modi illegali che il pubblico ha escogitato per procurarsi la musica: gli artisti per matenersi non possono più contare, ormai, sulle vendite dei loro album e proprio per questo le etichette discografiche son restie a investire nei nuovi talenti. Le cosiddette “major” (le grandi case discografiche: Sony, Warner Bros e Universal) prima di investire i loro soldi vogliono avere la certezza che il loro prodotto venderà. Per questo motivo, un artista o una band che aspiri a un contratto discografico deve essere già ben avviata, avere un discreto pubblico, e a quel punto forse verrà presa in considerazione.

Certamente non sempre le “major” sono biasimabili per queste scelte: da quando c’è internet le vendite sono precipitate e molte sono le case discografiche che hanno chiuso i battenti o sono state inglobate da altre etichette.

Se all’inizio degli anni Novanta i sei grandi nomi dell’industria discografica erano Warner Music Group, EMI, Sony Music, BMG Music, Universal Music Group e Polygram, oggi quelle rimaste sono solo tre. Di questo passo, scompariranno definitivamente.

Le vendite del prodotto fisico (il CD) per colpa della pirateria, sono ormai quasi nulle e anche quelle digitali non compensano le perdite.

I guadagni dei musicisti arrivano ormai solo dai concerti e dalla produzione di colonne sonore per il cinema, le serie TV, i videogiochi e la pubblicità.

Per questo motivo, la produzione della musica è oggi molto meno sofisticata di quella di qualche decina di anni fa: nessuno vuole spendere grosse cifre per produrre un album di qualità, soprattutto quando le possibilità di guadagno sono basse.

Con queste premesse, se nel passato era già difficile riuscire a sfondare nella musica, oggi è diventato un privilegio di pochi. E se negli Stati Uniti non è poi così difficile costruirsi una base di partenza per attirare l’attenzione delle “major”, grazie ai locali disposti a far suonare artisti alle prime armi, siti internet che permettono di avere mixaggi professionali con pochi dollari e che distribuisco gli album su canali indipendenti, in Italia viceversa farcela da soli è quasi impossibile. I locali di musica dal vivo preferiscono ingaggiare cover band invece che artistiche, perché queste ultime propongono pezzi propri e originali. E se le canzoni famose sono un successo assicurato, quelle indipendenti variano a secondo di chi le suona e sono per lo più una scomessa. Ma se gli artisti non possono esibirsi in pubblico, non riusciranno mai a farsi conoscere, e quindi a sfondare. È un circolo vizioso che si ripete e il motivo per cui, in Italia, o si è delle “superstar” o non si è nessuno. Negli Stati Uniti, invece, vi è una quantità sbalorditiva di musicisti che si guadagnano dignitosamente da vivere con la propria musica, pur non essendo delle celebrità del calibro di Lady Gaga. Ogni sera, in qualunque locale di musica dal vivo, si possono ascoltare nuove band proporre i propri pezzi originali, a volte anche solo per pochi dollari a serata; non è il guadagno immediato quello che conta, ma la possibilità di farsi conoscere, di creare una cerchia di pubblico che un domani sarà disposto a comprare gli album e i biglietti dei concerti. Senza contare che i talent scout delle case discografiche reclutano possibili nuovi artisti proprio durante queste serate.

Inoltre, negli Stati Uniti vi è un’abbondanza di etichette discografiche indipendenti, ben disposte a rappresentare artisti emergenti e aiutarli a muovere i primi passi nell’arena dell’industria musicale. Certo, non dispongono di cifre esorbitanti per l’organizzare di tour, e la distribuzione sicuramente è su scala limitata rispetto a quella delle “major”, ma è pur sempre un inizio, un modo per smettere di suonare in un garage e iniziare a costruire la propria carriera musicale. In Italia, invece, queste case discografiche indipendenti sono rare, se non inesistenti. Il mercato è costruito quasi esclusivamente da “major”, con cui è quasi impossibile riuscire a mettersi in contatto, e che prendono in considerazione solo chi è già riuscito ad avviare la propria carriera.

Un altro canale che gli artisti americani emergenti usano per farsi conoscere, è quello delle radio universitarie. Ogni campus ha la sua radio che manda in onda un’alternanza di pezzi famosi e canzoni sconosciute, magari di qualche studente che sogna di diventare una rockstar, o di qualche musicista locale. Grazie a questo tipo di promozione organizzare dei tour diventa più facile. Gli artisti possono infatti esibirsi nelle università o nei locali della città vicino ai campus.

Anche in Italia, un tempo, le radio fungevano da trampolino di lancio: le emittenti radiofoniche selezionavano i brani da mandare in onda non solo tra le “hit” del momento, ma anche tra le nuove proposte, e spesso erano proprio questi passaggi radio a battezzare l’artista e lanciarne la fama. Oggi, invece, anche le radio non si assumono il rischio di passare brani sconosciuti e preferiscono come al solito pezzi già famosi.

La via del professionismo, insomma, sembra sempre di più un miraggio.

Ma non è solo l’industria musicale a essere cambiata nel corso degli anni: anche la percezione che il pubblico ha della musica è mutata profondamente. Si tratta più di spettacolo che di una vera e propria arte. La richiesta parte dal pubblico che preferisce ascoltare qualcosa di orecchiabile e coinvolgente, magari ballabile, piuttosto che un capolavoro. Durante i concerti, non sono più la voce del cantante e la bravura dei musicisti a essere i protagonisti, ma le scenografie, le luci, le coreografie, i mixaggi, i costumi. Non importa più il significato di una canzone, ma il suo ritmo, la possibilità di essere ballata in discoteca o in un villaggio turistico durante l’estate. Proprio per questo motivo, le carriere degli artisti sono diventate molto più brevi, fugaci. Quante di quelle che oggi sono considerate delle star della musica verranno ancora ricordate tra venti, trent’anni? Dove sono i Beatles e i Rolling Stones, ma anche le Madonna dei giorni nostri? Non ci sono.

the-who1969_The Who_ Pete Townshend Roger Daltrey Keith Moon John Entwistle

The who 1969. Da sx a dx Pete Townshend, Roger Daltrey, Keith Moon e John Entwistle.

Gli adolescenti  crescono in questa realtà, formano la loro “cultura musicale” in questa pochezza. Le canzoni preferite dei ragazzi sono i tormentoni del momento, quelle che tra pochi anni cadranno nel dimenticatoio, mentre i grandi artisti del passato sono conosciuti solo di nome e considerati musica dei genitori, o addirittura dei nonni. Persone che chiedono se “Behind blue eyes”, dei The Who, sia una cover dell’originale dei Limp Bizkit, quando invece sono stati questi ultimi a riproporre il pezzo dei The Who. Altri che pensano che Ozzy Osbourne sia solo la star di un reality show in onda su MTV, o che conoscono Jim Morrison solo per le citazioni che girano su Facebook e non per la sua musica… questa è la nuova generazione, e il crollo dell’industria discografica non può fare altro che peggiorare la situazione.

the whoCon il continuo diminuire di capitali investibili in musica e il crollo dell vendite degli album, gli artisti tenderanno sempre di più a registare canzoni in proprio, spendendo poco o niente e rinunciando quindi alla qualità. Distribuiranno solo via internet, e i grandi album, quelli che hanno fatto la storia della musica, saranno solo un ricordo di pochi appassionati. Diventare professionisti nel mondo della musica sarà sempre più difficile e sempre meno persone avranno la voglia e le possibilità di lottare per farcela. O forse, invece, tra cinque o dieci anni ci sarà un nuovo punto di svolta, com’è successo con l’avvento di internet, e la situazione cambierà nuovamente e migliorerà.

Al momento non ci rimane che goderci il più possibile la buona musica che nasce di tanto in tanto in mezzo a tanta mediocrità.

di Simonetta Pastorini

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La tratta dei “mi piace” e dei “follower”

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La tratta dei “mi piace” e dei “follower”

Pubblicato il 05 giugno 2012 by redazione

fansUna tendenza in voga, non solo tra le aziende, ma anche tra i singoli utenti che vogliono apparire sempre più ‘seguiti’. Se fino ad alcuni anni fa era “cool” avere un profilo Facebook o un account Twitter, oggi l’imperativo è la “quantità”. “Quanti contatti? Quanti amici? Quante visualizzazioni, quanti commenti, quanti mi piace?”. E mentre la maggioranza degli utenti afferma di disinteressarsi di tale frivolezze, proliferano le aziende che vendono fans, follower, commenti e mi piace.

Basta fare un giro in rete. Su eBay, pacchetti di 1000 visualizzazioni a 12,90€, 100 iscritti a 19,90€ e 5 commenti a ben 5,90€. Un esempio di Fans Marketing è costituito proprio da www.fbfans.it  100 fan di Facebook ogni mese, alla modica cifra di 23 euro, 250 fan a 59 euro e per 500 bisognerà sborsare 110 euro fino ad arrivare a 599 euro per 3000 fan. Per 5000 fan, in 7 giorni, si sfiorano i mille euro.

Dunque massa, numeri.  I fan profilati, per fasce d’età, o attraverso altri filtri, hanno un prezzo maggiorato. Un altro esempio è rappresentato da Magicviral (http://www.magicviral.com ). Uno degli annunci che campeggia sull’Home Page del sito: “Potenzia la tua pagina Twitter con pacchetti da 500 fino a 10,000 Follower 100% Italiani. Acquista inoltre retweet delle tue notizie su Twitter, fondamentali per la diffusione capillare delle tue notizie”. E se non si vuole investire in denaro, lo si può fare in click e tempo, attraverso un sistema a punti. Addmefast (www.addmefast.com ) ne è un esempio, è un servizio di social marketing. Basta registrarsi e accumulare punti, mettendo ‘mi piace’ in altre pagine Facebook, ogni utente accumulerà un tot di punti e sarà a sua volta più seguito. Un meccanismo che può generare un traffico significativo di utenti che vedono aumentare i follower sul proprio profilo Twitter, gli iscritti e le visualizzazioni sul canale youtube, i contatti nelle cerchie di Google+. Per i dettagli, si rimanda al sito www.addmefast.com .

Insomma, la credibilità di un profilo o il successo di un brand sembrerebbe direttamente proporzionale al numero di follower. Del resto, è ciò a cui la televisione degli ultimi anni ha abituato la massa. Basti pensare all’Auditel nella programmazione degli spettacoli televisivi. Il successo e la continuità di un programma sono dipendenti da uno share sufficientemente alto che ne giustifichi la visione. Il programma ‘funziona’ se seduce lo spettatore, se lo conquista fino a – talvolta – ‘manipolarlo’. Uno share basso è il preludio alla cancellazione dal palinsesto. Dalla tv al web, dall’audience al numero di contatti, il passo è breve. La vendita di contatti, secondo molti blogger e webmaster, tuttavia è roba vecchia e ritengono più efficace il “world of mouth”, il passaparola, che non si compra certo a stock. Per essere nel social business, bisogna “essere” social business, dunque pubblicare, commentare, movimentare, esserci insomma.

In rete, il dibattito è aperto: c’è chi inorridisce all’idea della compravendita (“Posso capirlo per un’azienda, ma se una persona comune fa una cosa simile dev’essere davvero triste”) e chi la reputa la nuova frontiera del marketing (“Non vedo nulla di male in questa tipologia di servizi, è semplicemente un ulteriore investimento economico che un’azienda decide di fare per incrementare la propria attività on-line”). Un utente si spinge a un parallelo con la tv: “comprendo che sia una cosa eticamente sbagliata, ma è una cosa che si è sempre fatta. Nei reality in Tv, i genitori dei concorrenti investono soldi per pagare dei call center in modo da non far uscire il proprio figlio dalla casa/isola/fattoria/quellochetipare”. (http://ilgxblog.blogspot.it/2012/03/vendita-di-follower-che-novita.html ). La pratica è seguita anche da personaggi che vantano già un discreto successo di pubblico. Rihanna fu accusata di acquistare follower su Twitter per superare Lady Gaga che stava diventando la regina incontrastata dei social network.

I politici, poi, sono i primi a investire energie sia su Facebook che su Twitter. Resta il dubbio se anche loro acquistino consensi a pagamento o se sia frutto degli elettori, amici, parenti, simpatizzanti. Stando ai numeri, il podio è stato occupato per mesi da Nichi Vendola, tra i politici più seguiti d’Europa, con oltre 500mila ‘mi piace’ e 188mila follower. A seguire, su Facebook, l’ex presidente del Consiglio Silvio Berlusconi. Molto attivi anche Matteo Renzi, Luigi De Magistris e Antonio Di Pietro. L’ex-sindaco di Milano, Letizia Moratti, fu scoperta durante la campagna elettorale ad acquistare fan su Facebook e follower su Twitter. C’è poi il punto di vista di chi lavora con la creazione e la fidelizzazione dei contatti: “chi conosce un minimo le problematiche dei webmaster sa perfettamente che il problema più grande è la targettizzazione, ovvero arrivare dritti all’utente finale, oggetto della mission dei nostri contenuti”.

socialUn addetto ai lavori spiega nel dettaglio il servizio: “Il nostro sistema di ‘consegna’ dei fan su Facebook è molto rapido poiché disponiamo di un partener di collaboratori (tutti utenti reali), iscritti al nostro circuito e che vengono pagati per ogni click sui link che gli vengono consigliati. In questo modo, quando facciamo girare l’informativa interna che indica una richiesta da parte di un cliente (per esempio 100.000 fan) riconosciamo il pagamento solo per i primi 100.000 nostri collaboratori che cliccano ‘mi piace’. E’ con questo sistema che garantiamo rapidità nella consegna dei nostri servizi”. Semplice e veloce, dunque. Basta pagare e si vedrà lievitare il numero di fan.

I clienti, pronti a sborsare somme non indifferenti, pare siano agenzie pubblicitarie che realizzano video per conto terzi acquistando visualizzazioni, commenti e ranking. Ci sono poi musicisti e videomaker privati che, prima di presentare il proprio prodotto a etichette discografiche, incentivano il loro video con visualizzazioni e ranking di gradimento positivi. Non sono esclusi nemmeno i grossi marchi che, certi di raggiungere in breve tempo un numero elevato di fan della propria pagina, prima di promuoverla ufficialmente, ne aumentano artificialmente gli iscritti.

L’idea generale – ed inquietantemente dominante – è dunque che un account con molti follower sia popolare e garante di qualità, quindi degno di attenzione. Ciò può indurre tanti, e non solo aziende, agenzie e volti noti, a comprare pacchetti di follower senza che si seguano, a loro volta, altri utenti e si crei quella comunicazione che dovrebbe essere alla base dell’essere ‘social’. Da lì, il passo successivo è la classificazione, l’applicazione dunque di filtri, a seconda del target a cui si vuole puntare, secondo età, tipologia di lavoro, provenienza geografica, livello di istruzione, interessi. Il tutto viene percepito dalla maggioranza, secondo una logica di marketing e promozione professionale.

Ma la faccenda dei follower è solo una piccola manifestazione di un “crimine invisibile” che investe la rete e dunque anche i social network. Basti pensare al piano diabolico di Adolf Hitler, ancora oggetto di indagini e di discussioni da parte degli storici. Il piano fu realizzato grazie all’alleanza tra il Terzo Reich e la società di elettronica IBM, che offrì una preziosa cooperazione attraverso le sue filiali tedesche. “La IBM – scrive Michele Altamura, fondatore della Etleboro ONG e analista per i Balcani – contribuì, con le sue tecnologie, all’individuazione e alla catalogazione della popolazione ebrea in Europa, negli anni compresi tra il 1933 e il 1940. Naturalmente, in quegli anni, non esistevano gli elaboratori (gli attuali computer), ma esisteva la tecnologia “punch card” dell’Hollerith Systems di IBM, un sistema cibernetico che attribuiva un numero di serie ad ogni individuo mediante dei codici: le macchine IBM, affittate a costi elevatissimi, crearono miliardi di matrici (schede perforate). Grazie ad esse, Hitler riuscì ad ‘automatizzare’ la ricerca del popolo ebreo, analizzando registri anagrafici, censimenti e banche dati di tutti i Paesi europei, con una velocità e precisione a dir poco impressionante, che gli storici ancora oggi non riescono a spiegare. Ciò che fu sperimentato dal regime nazista di Hitler – continua Michele Altamura – viene oggi attuato dal Governo degli Stati Uniti, dall’Unione Europea e dalla Russia che, utilizzando la guerra al terrorismo, impiega la biometria per individuare, classificare e monitorare la popolazione e le sue risorse (http://etleboro.it/read.php?id=17000). Senza insinuarsi ulteriormente in meccanismi complessi da decifrare fino in fondo e tornando alla questione della compravendita dei ‘mi piace’ e dei  follower, da cui si è partiti, il dubbio che resta è uno.

Se comprare contatti e consensi non è reato, se non lo è accumulare punti in cambio di visibilità, se è legittimo perseguire l’obiettivo di avere sempre e comunque più contatti e crescere esponenzialmente nella rete, nel momento in cui il numero massiccio di fan, amici (veri/comprati) non corrispondesse alla reale fruizione dei contenuti per i quali gli account sono presenti, se non commentassero e apprezzassero davvero i post e i prodotti per cui l’acquirente ha investito certe somme, sarebbe altrettanto edificante vantare 5000 amici su Facebook o esibire migliaia di commenti sui canali youtube? La risposta potrebbe sfociare nella vecchia questione – di pirandelliana memoria e sempre attualissima – della cultura dell’essere o dell’apparire. Resta il fatto che chi non ricorre all’acquisto di consensi ma li accumula spontaneamente, scrivendo tweet interessanti, unici, “socializzando” il più possibile, interagendo con il proprio audience, mettendosi in discussione, creando dibattiti produttivi, potrà contare su persone realmente interessate, con cui interagire e grazie alle quali migliorare il proprio brand o la propria professionalità. Chi avrà acquistato stock di account, non distinguerà più i contatti veri da quelli fittizi.

Stabilire la veridicità, pare, non sia un cruccio per certi acquirenti. Se, come scriveva Leonardo Da Vinci, “Il mezzo più efficace di ottener fama è quello di far credere al mondo di esser già famoso”,  gli aspiranti tali hanno già la tavola imbandita, basta solo pagare il conto e servirsi. A tutti gli altri, non resta che decidere se mangiare alla stessa tavola.

di Elisa Giacalone

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