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Onde gravitazionali, Einstein colpisce ancora!

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Onde gravitazionali, Einstein colpisce ancora!

Pubblicato il 18 febbraio 2016 by redazione

Anche questa volta Einstein aveva ragione! Dopo 100 anni di teorie e supposizioni, l’esistenza delle onde gravitazionali è stata provata!

Per comprendere a fondo l’importanza di questa scoperta occorre analizzare il significato di ‘onda gravitazionale’.

Con onda gravitazionale si intende una deformazione della curvatura dello spaziotempo che si propaga come un’onda. L’esistenza delle onde gravitazionali è stata prevista per la prima volta da Albert Einstein nel 1916 come conseguenza della sua teoria della relatività generale, tuttavia solo recentemente (11 Febbraio 2016) si è riusciti a verificarne l’esistenza in modo scientifico e indiscutibile.

Nel Novembre del 1915, infatti, Einstein presentò al mondo la sua teoria generale della relatività destinata a cambiare drasticamente il modo di percepire la gravità. Secondo la sua teoria, la gravità rappresenta il modo in cui la materia interagisce con lo spaziotempo (flessibile) nel quale è immersa. I corpi celesti di grandi dimensioni muovendosi ne modificano la curvatura, in particolare accelerando producono deboli fluttuazioni nel tessuto dello spaziotempo (minuscole perturbazioni cosmiche): le onde gravitazionali.

Le onde gravitazionali possono essere quindi considerate una forma di radiazione gravitazionale. Al passaggio di un’onda gravitazionale, le distanze fra punti nello spazio tridimensionale si contraggono ed espandono ritmicamente: effetto difficile da rilevare, perché anche gli strumenti di misura della distanza subiscono la medesima deformazione.

 

A schematic diagram of a laser interferometer. A gravitational-wave observatory

 

In base alle equazioni della Relatività Generale, la velocità delle onde gravitazionali coincide con la velocità della luce. Di conseguenza, le onde gravitazionali sono sempre onde trasversali: le distorsioni provocate localmente dal passaggio di un’onda sono sempre perpendicolari alla sua direzione di propagazione.

Ogni qualvolta si verifica una repentina variazione di massa di enormi corpi celesti si originano onde gravitazionali. Le sorgenti delle onde gravitazionali risultano, quindi, molteplici: l’esplosione di una supernova, la collisione e coalescenza di stelle di neutroni, la formazione o la fusione di buchi neri, la rotazione di stelle di neutroni dalla forma distorta o il residuo di onde gravitazionali generatesi alla nascita dell’universo. Il tipo di segnale emesso da ognuna di queste fonti è unico, per questo a livello teorico è possibile determinarne con esattezza il tipo di fonte e la causa dell’emissione. Tuttavia fino a poco tempo fa, non esistevano rilevatori sufficientemente sensibili per la localizzazione di onde gravitazionali; se anche si registravano dati presumibilmente riconducibili a questi fenomeni, i risultati erano poco chiari e non univoci.

Tutto è cambiato l’11 Febbraio 2016 durante una conferenza stampa a Washington quando David Reitze, direttore esecutivo del laboratorio LIGO, Laser Interferometer Gravitational-Wave Observatory (osservatorio interferometro laser delle onde gravitazionali), ha annunciato: “Ce l’abbiamo fatta. Abbiamo rilevato le onde gravitazionali”.

 

osservatory

LIGO

Interferometro di Michelson.

Interferometro di Michelson.

 

Questo osservatorio statunitense è stato fondato nel 1984 da Kip Thorne e Rainer Weiss proprio con lo scopo di rilevare onde gravitazionali di qualsiasi natura. Nasce come progetto congiunto tra scienziati del Caltech (California Institute of Technology) e del MIT (Massachusetts Institute of Technology) sponsorizzato dalla NSF, National Science Foundation (all’epoca era costato 365 milioni di dollari).

Attualmente LIGO gestisce due osservatori di onde gravitazionali: l’osservatorio di Livingston e l’osservatorio Hanford. Il primo, situato nei pressi di Livingston, è dotato di un interferometro di Michelson, un gigantesco tunnel vuoto a L, lungo circa 4 chilometri alle cui estremità sono stati posizionati degli specchi sospesi. Il raggio laser nell’interferometro è in grado di rilevare anche piccolissime deformazioni dello spaziotempo causate dalle onde gravitazionali. Il principio di funzionamento di questo strumento si basa sul concetto dell’interferenza, fenomeno dovuto alla sovrapposizione, in un punto dello spazio, di due o più onde. Una figura d’interferenza è, quindi, ottenuta suddividendo, indirizzando su percorsi diversi e facendo convergere un fascio di fotoni. Ma affinché si registri uno sfasamento nel cammino ottico dei due fasci, i due percorsi devono avere lunghezze differenti o avvenire in materiali diversi. Il primo fascio viene riflesso dallo specchio semiriflettente, giunge sullo specchio in alto, qui viene riflesso e incontra il rilevatore. Mentre il secondo fascio prima attraversa lo specchio semiriflettente e successivamente viene riflesso nel rilevatore. Se i cammini dei due fasci differiscono per numeri interi di lunghezze d’onda, l’interferenza costruttiva genera un forte segnale in uscita. Per differenze uguali a un numero dispari di mezze lunghezze d’onda, l’interferenza è distruttiva e il segnale è prossimo a zero.

L’osservatorio Hanford, invece, è situato nei pressi di Richland ed è provvisto anch’esso di un interferometro laser identico a quello dell’osservatorio Livingston. Inoltre ne esiste uno più piccolo, di lunghezza pari 2 km, la cui sensibilità è dimezzata.

Le onde gravitazionali che sono originate a centinaia di milioni di anni luce dalla Terra dovrebbero distorcere i 4 chilometri di spazio tra gli specchi di circa 10−18 m (come confronto, un atomo di idrogeno è circa 5 × 10−11 m)!

Le onde gravitazionali in questione sono state generate dalla collisione di due giganteschi buchi neri lontani 1.3 milioni di anni luce, aventi rispettivamente una massa pari a 36 e 29 volte quella del Sole.

 

collisione fra due buchi neri

La collisione tra due buchi neri, avvenuta 1 miliardo di anni fa, ha dato vita al primo segnale di onde gravitazionali rilevato da Ligo, da anni alla ricerca delle tracce di queste oscillazioni spazio-temporali.

 

I ricercatori, infatti, sono stati in grado di registrare tutto il processo: da un primo momento, in cui i due buchi neri ruotavano semplicemente l’uno rispetto all’altro a una velocità di 30 giri al secondo, passando a 20 millesimi di secondo, quando ormai i due corpi ruotavano a una velocità di 250 giri al secondo, e terminando con l’inevitabile collisione finale e fusione dei due buchi. Una volta completata la fusione, si è generato un gigantesco buco nero avente una massa pari a 62 volte quella del Sole, mentre la rimanente massa si è dispersa sotto forma di onde gravitazionali.

L’esistenza delle onde gravitazionali implica l’esistenza del campo gravitazionale anche in essenza di materia, smentendo così il modello newtoniano che vede l’interazione gravitazionale in un’azione a distanza tra corpi massivi.

 

LISA Pathfinder

LISA Pathfinder_1

 

Ora il passo successivo per comprendere a pieno questi fenomeni, insieme con la fisica che governa le loro sorgenti, è combinare i dati registrati dal LIGO con quelli che LISA Pathfinder collezionerà nei prossimi mesi. L’ESA è infatti in attesa di iniziare una missione per testare diverse tecnologie che estenderanno lo studio di queste onde anche nello spazio.

LISA Pathfinder è stato lanciato il 3 Dicembre 2015, ha raggiunto la sua orbita operativa in Gennaio e sta effettuando ora i controlli finali prima di iniziare la sua missione scientifica (prevista per il primo Marzo).

Come la luce, le onde gravitazionali coprono un vasto spettro di frequenze, inoltre si ipotizza che diversi oggetti astronomici emettono queste onde in tutto lo spettro. Ora, esperimenti terrestri come LIGO sono sensibili alle onde ad alta frequenza, come quelle generatesi a seguito della fusione di due buchi neri o per via delle stelle di neutroni, con frequenze di 10-1000 Hz.

Per rilevare onde gravitazionali a frequenze più basse, come quelle originatesi dalla fusione di buchi neri supermassicci al centro di galassie massicce, gli scienziati hanno bisogno di indagare variazioni di lunghezza di bracci molto più lunghi – circa un milione di chilometri. Ciò può essere ottenuto solo nello spazio, utilizzando dei raggi laser per monitorare la distanza tra tre masse in caduta libera separate considerevolmente (non è possibile raggiungere una simile distanza sulla Terra).

In questi giorni LISA Pathfinder deve dimostrare che è possibile mettere delle masse-campione in pura caduta libera, senza alcuna perturbazione esterna, raggiungendo un livello di precisione adatto a un osservatorio di onde gravitazionali spaziale.

Il 3 febbraio, le due masse poste al centro della navicella – un paio di cubi d’oro-platino identici con lato 46 mm – sono state svincolate dai meccanismi che invece le mantenevano fisse durante tutta la fase di lancio e di crociera. Il rilascio finale nello spazio avrà luogo la prossima settimana; i due cubi saranno allora totalmente staccati dal veicolo spaziale, non vi sarà nessun punto di contatto, in vista dell’inizio delle operazioni scientifiche.

Per compensare altre possibili forze agenti sui cubi, LISA Pathfinder misurerà la loro posizione e orientamento per aumentare il più possibile l’accuratezza dei rilevamenti e regolare il proprio assetto attraverso minimi aggiustamenti per rimanere sempre centrata su una di esse.

La scoperta e dimostrazione delle onde gravitazionale ha posto l’uomo davanti a un universo del tutto nuovo dove dimensioni parallele, buchi neri o viaggi temporali non sono più solo fantasie, ma possibili realtà.

di Sara Pavesi

 

Linkografia

https://it.wikipedia.org/wiki/LIGO

https://it.wikipedia.org/wiki/Pulsar

https://it.wikipedia.org/wiki/Onda_gravitazionale

https://www.theguardian.com/science/2016/feb/11/gravitational-waves-discovery-hailed-as-breakthrough-of-the-century

https://it.wikipedia.org/wiki/Interferometro_di_Michelson

http://www.einstein-online.info/spotlights/gw_waves

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Data Science Machine

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Data Science Machine

Pubblicato il 15 febbraio 2016 by redazione

Data_Science Machine

Ricerche condotte recentemente dal MIT hanno portato all’implementazione di una cosiddetta “Data Science Machine”, un software per l’interpretazione dei big data che potrebbe rivoluzionare il modo di analizzare dati e fare previsioni su future tendenze di mercato, ricerche scientifiche e comportamenti umani.

 

Data Science Machine

#1

Questa macchina può essere descritta brevemente con le parole di uno dei due ricercatori del MIT che l’hanno ideata, Max Kanter, il quale la definisce come un “sistema automatizzato per la generazione di modelli predittivi basati su dati grezzi”. La macchina è riuscita a battere il 68.9% dei gruppi (umani) partecipanti a una competizione di analisi dati. Ed è riuscita a farlo impiegando appena 12 ore, a fronte di mesi e mesi di lavoro che solitamente impiegano i data scientists più esperti! Tutto questo è stato possibile grazie a un’innovativa tecnica messa a punto dai ricercatori del MIT Kanter e Veeramachaneni, nota come Deep Feature Synthesis.

 

Deep Feature Synthesis

#2

In ogni problema di analisi dati, innanzitutto bisogna identficare delle variabili caratteristiche. I grandi database solitamente registrano e conservano i vari tipi di dati in diverse tabelle, indicandone le relazioni attraverso degli “identificatori”. La macchina può tracciare questi identificatori, ricavandone degli “indizi” per iniziare la sua ricerca. La tecnica DFS riceve quindi come input tabelle che contengono informazioni sulle relazioni tra le variabili ed è in grado di processare i vari tipi di dati contenuti in esse. La svolta sta nel fatto che questa tecnica è stata progettata per “pensare” come un data scientist, cercando le informazioni più rilevanti nei dati forniti come input. Per fare ciò, l’algoritmo della DFS è stato ideato per investigare tutte le possibili connessioni tra dati applicando delle funzioni selettive, evidenziando infine le caratteristiche finali del problema, il tutto nel quadro di un processo iterativo. Queste “funzioni caratteristiche” sono in grado di selezionare dati potenzialmente utili da altre tabelle, dati che possono condizionare il problema e che quindi devono essere incorporate nel modello matematico. La macchina quindi segue un percorso adattivo per ottimizzare l’analisi dei dati, la creazione dei modelli e il numero di variabili, pricipalmente guardando alle relazioni tra i dati collezionati da grandi database. Le variabili e le funzioni caratteristiche finali vengono poi testate su un campione di dati con diverse combinazioni, al fine di ottimizarne l’accuratezza delle predizioni che restituiscono come output.

 

L’importanza dei “big data”

#3

Il motivo per cui questa macchina potrebbe essere rivoluzionaria è legato all’uso che viene fatto oggi dei cosiddetti “big data” per spiegare e predire dei motivi ricorrenti nei dati. I modelli d’intrepretazione dei dati possono, per esempio, aiutare le aziende a predire le future abitudini dei consumatori, così come aiutare gli astronomi nell’identificare automaticamente un corpo celeste. La DSM ha delle potenzialità incredibili se si pensa all’impatto che l’analisi dei big data ha per esempio nel commercio online, nelle azioni militari, nella ricerca scientifica e nei social networks. Sinora, questi processi di identificazione delle variabili, delle loro relazioni e dell’influenza che essi hanno sul modello matematico sono stati gestiti da esperti data scientists, che unendo l’analisi dei dati all’intuizione umana sono in grado di fornire previsioni. Tuttavia questa operazione richiede tempi estremamente lunghi. LA DSM nasce proprio in risposta all’esigenza di rafforzare questo anello debole, al fine di aiutare e non di sostituire (secondo le dichiarazioni dei ricercatori del MIT) i data scientists nel loro lavoro, ottimizzandone tempi, risorse e affidabilità dei risultati.

 

Uomo-macchina: sfida o aiuto reciproco?

Data_Science Machine_2

D’altro canto però è impossibile non cogliere il rinnovato contraddittorio tra macchina e uomo, tra intelligenza artificiale e intuizione primordiale. E proprio a questo proposito, i ricercatori del MIT che hanno dato vita al software hanno già avviato una start-up, la FutureLab che nella home page riporta: “Fai di più con i tuoi dati senza più data scientists”. In questo modo, il mondo dei big data diventerebbe aperto a piccole e medie aziende che, a differrenza di colossi come Google, Amazon o Facebook finora non hanno potuto permettersi esperti data scientists sul proprio libro paga. Una rivoluzione che cambierebbe il modo di fare previsioni sui dati, allargandone l’utilizzo e consentendo l’ingresso sul mercato di nuove e concorrenziali realtà economiche.

di Michele Mione

 

Linkografia:

http://news.mit.edu/2015/automating-big-data-analysis-1016

http://spectrum.ieee.org/tech-talk/computing/software/artificial-intelligence-outperforms-human-data-scientists

https://groups.csail.mit.edu/EVO-DesignOpt/groupWebSite/uploads/Site/DSAA_DSM_2015.pdf

http://www.featurelab.co/

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Social network: io “posto” dunque “sono”…

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Social network: io “posto” dunque “sono”…

Pubblicato il 20 maggio 2012 by redazione

selfempowerment

I sentimenti collettivi nei confronti di questo recente ed esplosivo fenomeno sono molteplici e contrastanti. I social network sono idolatrati dal popolo teen, temuti dai genitori, demonizzati dagli irriducibili ideologicamente e perennemente offline, snobbati dagli anticonformisti e spesso ringraziati dai maturandi e universitari in assetto da esame. Ma questi fantomatici e per certi versi ancora misteriosi strumenti, dei quali più spesso (come già è stato in parte esposto nei precedenti articoli) si parla degli aspetti negativi e dei pericoli ai quali possono dare luogo, in realtà, quali sono poi le risorse che presentano? Sostanzialmente..perché mai dovremmo usarli?! Ci concentriamo quindi ora sugli aspetti positivi che possiedono e per una volta..li difendiamo! Persino i più scettici potrebbero trovare la “giustificazione” che fa al caso loro! Sicuramente i quattrocento milioni di persone, di età media 37 anni, che in tutto il mondo utilizzano Facebook (dei quali il 55% di essi effettua l’accesso almeno una volta al giorno) e che hanno deciso di condividere tre miliardi di foto e cinque miliardi di contenuti “vari” (link, note, video ecc..), una loro motivazione l’hanno trovata!

Il ”self empowerment”: io “posto” (quindi “posso”) … dunque “sono”

Facciamoci accompagnare in questo viaggio alla scoperta dei lati positivi del “sociale digitale” da un ipotetico utente medio, il soggetto protagonista delle relazioni virtuali, che potremmo chiamare Bill.

Il nostro amico, che giunge in questo magico mondo, si trova ad essere qui sprovvisto (come già sottolineato precedentemente) di una parte di sé molto importante, che da sempre lo ha accompagnato in qualsiasi ambiente egli sia stato nella sua vita, compagno amato, odiato, che forse vorrebbe diverso, non tutto, solo in parte, magari non sempre ma solo qualche volta, territorio di esperienze e grande comunicatore di messaggi, insomma un “accompagnatore” d’eccezione: il corpo.

Da sempre se lo porta con sé, ma non qui, nell’ambiente virtuale.

Il soggetto nei social network si trova a essere “disincarnato” (“disembodied”), privato del corpo e dei significati che esso porta con sé, ed ecco quindi che si trova di fronte a infinite possibilità date da processo di “self empowerment” (il termine “empowerment” significa “potenziamento”, “responsabilizzazione”, “aumento del proprio potere interno”). Questo fenomeno assume una cruciale importanza se stiamo poi di fasi di vita, quali ad esempio quella adolescenziale, dove il processo di costruzione della propria identità assume particolare salienza, attraverso la scoperta dei loro molteplici possibili sé, il miglioramento delle proprie abilità e capacità cognitive, fisiche e relazionali e la sperimentazione attraverso l’ esplorazione di una pluralità di esperienze, senza la presa in carico di impegni definitivi, ma sempre con la possibilità di tornare sui propri passi. L’ uso dei social network si affianca quindi allo svolgimento di questo compito dal momento che posso decidere “chi” voglio essere, sia nel caso io non dichiari esplicitamente la mia identità, sia nel caso io la riveli. Infatti, nel primo caso posso sperimentare più liberamente, forte del fatto che se fallissi non succederebbe nulla, posso quindi permettermi di essere anche il contrario di ciò che sono realmente nella vita di tutti i giorni (ad esempio se sono timido posso provare a essere aggressivo) e se poi sbaglio posso riparare; anche per quanto riguarda il secondo caso i social network permettono agli adolescenti di decidere come presentarsi agli altri decidendo in prima persona quali ruoli impersonare e a quali eventi partecipare.

Questo permette al nostro Bill di avere un ruolo più attivo e centrale nella definizione e nella condivisione della propria identità sociale e a detta della psicologa americana Katelyn Mc Kenna è inoltre più facile che gli individui siano più disposti a rivelare il proprio vero Sé nei social network, di quanto non lo siano nella vita reale, in quanto all’interno della rete di “amici” si possono condividere le proprie convinzioni e le proprie reazioni emotive più intime con minor rischio di disapprovazione e sanzione sociale. Secondo quest’ottica quindi un social network può essere considerato il perfetto ambiente di “empowerment” dove Bill può decidere di essere sé stesso o completamente diverso, ma pagando un costo limitato per le sperimentazioni non andate a buon fine.

La seduzione ai tempi di Zuckerberg

Un’ altra opportunità che Bill si trova offerta su un piatto d’argento è a proposito delle relazioni sentimentali. Essi si affiancano quindi alla possibilità di intraprendere questa esperienza, facilitandola per una serie di motivi quali: la possibilità di superare le barriere spaziali; la comunicazione iperpersonale (le persone sono più disposte nel social network a rivelare il proprio vero Sé, indi per cui l’ intimità è maggiormente stimolata e raggiunge alti livelli); la somiglianza (avere “amicizie” in comune o interessi comuni); elevato livello di idealizzazione dato dal minor numero di informazioni disponibili relative all’altra persona, ciò porta gli individui a riempire i vuoti informativi con le proprie aspettative, da qui maggior idealizzazione e quindi maggior interesse nei confronti dell’altro; il controllo del processo di presentazione (l’ opportunità di controllare la propria identità sociale e la propria immagine riduce i problemi legati alle impressioni negative o alla paura di essere giudicati, inoltre diminuisce l’ importanza ricoperta dall’aspetto fisico, dallo status sociale e socioeconomico).

La questione dell’aspetto fisico è un comunque un aspetto critico (per Bill e per chiunque) per la nascita e la costruzione di una relazione; nel social network però il corpo reale non è totalmente assente ma sostituito da un corpo virtuale, costituito da immagini parziali attraverso le quali posso decidere strategicamente come presentarmi e dare una precisa immagine di me. Infatti tutti i social network offrono ampio spazio alla presentazione di immagini e video degli utenti.

Dieci sono i comportamenti che generano attrazione nel partner e cinque di questi possono esser realizzati in un social network: essere simpatici, mostrare senso dell’umorismo, offrire supporto, avere buone maniere e dimostrare di voler passare del tempo con l’ altro.

Il processo di seduzione digitale nel terzo millennio, si articola in una sequenza di interazioni relativamente stabile, che ricopre fondamentalmente due fasi: la creazione di un’ impressione di sé nell’altro e la scelta della strategia seduttiva (e fin qui niente di nuovo sotto il sole). Per fare il primo passo, è necessario stabilire una forma di contatto, ovvero chiedere l’ “amicizia”, in seguito ci sarà un disvelamento progressivo (e tra le strategie attuabili in un social network la somiglianza, la prossimità e la frequenza di contatto, la complementarietà, l’ uso dell’ironia, mostrare attenzione e apprezzamento per l’ altro, aprirsi all’altro).

Un elemento importante, è che il nostro amico “in caccia” può utilizzare per la messa in atto del suo progetto, le altre relazioni che ha all’interno della rete, ad esempio cercando di ottenere informazioni su chi gli interessa passando attraverso la sua rete di “amici”, o quella dell’altro, sfruttando anche la possibilità che danno alcuni social network, di capire chi degli altri utenti è online, attraverso l’ utilizzo ad esempio della chat (vedi Facebook). Infine i social network danno la possibilità di ricontattare persone con le quali c’è stata in passato una relazione, anche se si sono persi i contatti da tempo, come dire “Un ex sicuramente su Facebook ci sarà!E..mano sul cuore e giuramento di verità…chi può dire di non averci mai ripensato, con la speranza che quello che è accaduto si riproponga o si possa ritrovare, trasformato??!”.

Il nostro caro utente medio può intraprendere questo processo con obiettivi e esiti diversi: il corteggiamento, ma con scopo finale, almeno da parte di uno dei due, l’ incontro faccia a faccia. Oppure il mantenimento di relazioni, anche a distanza, iniziate faccia a faccia (laddove la “Bacheca” viene utilizzata sia per dimostrare agli altri l’ esistenza della storia, sia può essa fare da sorta di “rotocalco” della storia, migliorando l’ immagine di sé nei confronti degli “amici”). O infine con l’unico obiettivo del “ciberflirts”, dove i soggetti decidono, almeno inizialmente, di non ritrovarsi faccia a faccia ma interagire solo sul social network (spessi si tratta di individui che hanno già una relazione stabile nel reale e che prendono la vita sui social network come una valvola di sfogo).

Può una folla essere intelligente? La “rete creativa” e le “smart mobs”
smart mobs

Un’ altra risorsa offerta dai social network, è riguardo al potenziamento della creatività di gruppo, che può quindi essere utilizzata anche per gestire e organizzare eventi e interessi, anche in relazione all’assunzione di impegni e allo sviluppo di opinioni, in più campi, quali quelli politico, religioso, culturale, filosofico, sociale. Lo sviluppo del Web 2.0 ha infatti permesso la nascita di una “rete creativa”, e delle cosiddette “smart mobs” (“folle intelligenti”, gruppi di soggetti che collaborano tra loro per trarre frutto dalle opportunità offerte dai nuovi media che permettono alle persone di agire insieme come mai prima d’ora e in situazioni in cui l’ azione collettiva non era mai stata possibile”. Ciò è particolarmente vero per i social network tra le cui funzioni vi è quella di facilitare la gestione dei gruppi virtuali. Le “smart mobs” sono gruppi virtuali temporanei legati alla possibilità di usare i nuovi media per un proprio vantaggio e diventano comunità quando il gruppo diventa l’ occasione per raggiungere uno scopo comune e assume quindi propria identità e porta all’incremento della conoscenza. Avviene così quella che viene definita l’ “esperienza ottimale di gruppo” (“Networked Flow”), col risultato della creazione di nuovi prodotti, nuovi concetti e nuove idee, che vengono però portati all’esterno e riescono a imporsi in gruppi sociali reali solo se vi sono relazioni significative tra i membri del gruppo e i membri esterni al gruppo, nella formazione di una sorta di coscienza collettiva progettuale. A questo proposito la scienza delle reti ha elaborato una legge, la Legge di Reed, che afferma che: “quando una rete ha lo scopo di diffondere qualcosa che ha un valore per le persone, il valore dei servizi è lineare; se la rete consente transazioni tra i nodi individuali, il valore aumenta al quadrato, se essa include la possibilità che gli individui formino gruppi, il valore è invece esponenziale”.

I social network e “il capitale sociale”

Infine tra le risorse insite nei social network ricordiamo il supporto che essi danno al mondo della pubblicità, nel caso di marchi che vogliono rivolgersi ad un pubblico giovane e l’ apporto ad un economia basata su “beni relazionali”.

I “beni relazionali”, si differenziano dai “beni potenziali” (ovvero i cosidetti “di consumo”), essi possono idetntificarsi ad esempio con l’ amicizia e l’ amore e derivano dai rapporti sociali nei quali l’ identità e le motivazioni dell’altro sono essenziali per la creazione e il valore del bene; sostanzialmente tutti quei tipi di relazione generative di “capitale sociale primario”. Il “capitale sociale” è un concetto multidisciplinare e proprio per questo dalla definizione ambigua; esso presenta infatti l’apporto di molteplici aree quali l’economia, la sociologia, le scienze umane e sociali e ognuna di esse lo interpreta con sfumature leggeremente differenti. Ad un livello generale sostanzialmente la differenza fondamentale è tra il “capitale sociale primario”, che riguarda le relazioni informali di fiducia, intimità e cooperazione, dove sono considerati beni non solo i risultati creati dall’instaurarsi di tali legami, ma anche e soprattutto la relazione e le persone in sé; invece il “capitale sociale secondario” è quello che riguarda la rete delle relazioni a livello più ampio, sia informali che formali, intese come mezzi per ottenere determinate finalità, strumentali

La caratteristica fondamentale dei beni relazionali è l’ aspetto della gratuità e della spontaneità, in quanto hanno la loro origine nel comportamento di dono dato dall’unione di tre componenti che sono il donare, il ricevere e il contraccambiare. L’ aspetto più importante del dono risiede quindi nella sua totale libertà, dal momento che io scelgo di farlo ma non ho la certezza di essere contraccambiato. Nella vita reale ciò avviene in relazioni personali caratterizzate da fiducia e conoscenza reciproca, ma nei social network questo può accadere anche nei confronti di legami deboli; spinti da un senso di responsabilità sociale nei confronti della comunità di utenti del social network che porta a mettere a disposizione proprie conoscenze, informazioni, contenuti. L’ obbiettivo degli individui in quest’ottica, è il mantenimento della comunità e l’ interesse individuale si realizza insieme a quello degli altri (intenzione collettiva).

Ad esempio la Vespa del nostro amico Bill ha smesso improvvisamente di funzionare e lui ha deciso di scrivere sulla sua “bacheca” Facebook se qualcuno sa come ripararla, sicuramente qualcuno fra tutti i suoi “amici” risponderà alla richiesta d’ aiuto, fornendogli consigli”.

Scettici cronici, offline convinti, preoccupati, spaventati o anticonformisti….siete ancora sicuri che proprio non vi interessi iscrivervi a Facebook?!


Stanley Milgram

Quante conoscenze “distiamo” da uno sconosciuto?! Ecco perché…il mondo è piccolo!

Se avete ancora qualche dubbio questo che sto per dirvi potrebbe essere ciò che vi convincerà definitivamente a cambiare idea, oppure a fuggire del tutto! Si perché è stata teorizzata un’ipotesi molto affascinante e molto inquietante insieme, dato che essa dimostra ulteriormente che la privacy nell’era digitale si assotiglia sempre più.

Nel 1967 il sociologo americano Stanley Milgram tentò di testare un’ipotesi formulata per la prima volta nel 1929 dallo scrittore ungherese Frigyes Karinthy  e poi ripresa negli anni cinquanta da Ithiel de Sola Pool (MIT) e Manfred Kochen (IBM) che cercarono di provare la teoria matematicamente. Essa è comunemente conosciuta come la “teoria dei sei gradi di separazione” e consiste in un’ipotesi secondo cui qualunque persona può essere collegata a qualunque altra persona attraverso una catena di conoscenze che comprende non più di 5 intermediari. Milgram ideò un nuovo sistema per testare la teoria, che egli chiamò “teoria del mondo piccolo“. Selezionò casualmente un gruppo di americani del Midwest e chiese loro di mandare un pacchetto a un estraneo che abitava nel Massachusetts, a diverse migliaia di chilometri di distanza. Ognuno di essi conosceva il nome del destinatario, la sua occupazione, e la zona in cui risiedeva, ma non l’indirizzo preciso. Fu quindi chiesto a ciascuno dei partecipanti all’esperimento di mandare il proprio pacchetto a una persona da loro conosciuta, che a loro giudizio avesse il maggior numero di possibilità di conoscere il destinatario finale. Quella persona avrebbe fatto lo stesso, e così via fino a che il pacchetto non venisse personalmente consegnato al destinatario finale. I promotori dello studio si aspettavano che la catena comprendesse perlomeno un centinaio di intermediari, mentre invece, per far arrivare il pacchetto, ci vollero in media solo tra i cinque e i sette passaggi. Per ora neanche l’ombra di ambienti virtuali e relazioni digitali. Fino a quando nel febbraio 2004 un diciannovenne studente dell’Università di Harvard crea il social network più popolare al mondo. Nel 2011 un gruppo di informatici dell’Università degli studi di Milano, in collaborazione con due informatici di Facebook decide di effettuare un esperimento su scala planetaria per calcolare il grado di separazione tra tutte le coppie di individui su Facebook. In media, i gradi di separazione sono risultati essere 3.74, molto meno di quanto l’esperimento di Milgram facesse pensare!

Insomma, le persone si sono avvicinate e il mondo si è “ristretto”!

Sarà un bene o un male?! Ai posteri, sempre più “connessi”, l’ardua sentenza!

di Arianna De Battè

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