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Social network: io “posto” dunque “sono”…

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Social network: io “posto” dunque “sono”…

Pubblicato il 20 maggio 2012 by redazione

selfempowerment

I sentimenti collettivi nei confronti di questo recente ed esplosivo fenomeno sono molteplici e contrastanti. I social network sono idolatrati dal popolo teen, temuti dai genitori, demonizzati dagli irriducibili ideologicamente e perennemente offline, snobbati dagli anticonformisti e spesso ringraziati dai maturandi e universitari in assetto da esame. Ma questi fantomatici e per certi versi ancora misteriosi strumenti, dei quali più spesso (come già è stato in parte esposto nei precedenti articoli) si parla degli aspetti negativi e dei pericoli ai quali possono dare luogo, in realtà, quali sono poi le risorse che presentano? Sostanzialmente..perché mai dovremmo usarli?! Ci concentriamo quindi ora sugli aspetti positivi che possiedono e per una volta..li difendiamo! Persino i più scettici potrebbero trovare la “giustificazione” che fa al caso loro! Sicuramente i quattrocento milioni di persone, di età media 37 anni, che in tutto il mondo utilizzano Facebook (dei quali il 55% di essi effettua l’accesso almeno una volta al giorno) e che hanno deciso di condividere tre miliardi di foto e cinque miliardi di contenuti “vari” (link, note, video ecc..), una loro motivazione l’hanno trovata!

Il ”self empowerment”: io “posto” (quindi “posso”) … dunque “sono”

Facciamoci accompagnare in questo viaggio alla scoperta dei lati positivi del “sociale digitale” da un ipotetico utente medio, il soggetto protagonista delle relazioni virtuali, che potremmo chiamare Bill.

Il nostro amico, che giunge in questo magico mondo, si trova ad essere qui sprovvisto (come già sottolineato precedentemente) di una parte di sé molto importante, che da sempre lo ha accompagnato in qualsiasi ambiente egli sia stato nella sua vita, compagno amato, odiato, che forse vorrebbe diverso, non tutto, solo in parte, magari non sempre ma solo qualche volta, territorio di esperienze e grande comunicatore di messaggi, insomma un “accompagnatore” d’eccezione: il corpo.

Da sempre se lo porta con sé, ma non qui, nell’ambiente virtuale.

Il soggetto nei social network si trova a essere “disincarnato” (“disembodied”), privato del corpo e dei significati che esso porta con sé, ed ecco quindi che si trova di fronte a infinite possibilità date da processo di “self empowerment” (il termine “empowerment” significa “potenziamento”, “responsabilizzazione”, “aumento del proprio potere interno”). Questo fenomeno assume una cruciale importanza se stiamo poi di fasi di vita, quali ad esempio quella adolescenziale, dove il processo di costruzione della propria identità assume particolare salienza, attraverso la scoperta dei loro molteplici possibili sé, il miglioramento delle proprie abilità e capacità cognitive, fisiche e relazionali e la sperimentazione attraverso l’ esplorazione di una pluralità di esperienze, senza la presa in carico di impegni definitivi, ma sempre con la possibilità di tornare sui propri passi. L’ uso dei social network si affianca quindi allo svolgimento di questo compito dal momento che posso decidere “chi” voglio essere, sia nel caso io non dichiari esplicitamente la mia identità, sia nel caso io la riveli. Infatti, nel primo caso posso sperimentare più liberamente, forte del fatto che se fallissi non succederebbe nulla, posso quindi permettermi di essere anche il contrario di ciò che sono realmente nella vita di tutti i giorni (ad esempio se sono timido posso provare a essere aggressivo) e se poi sbaglio posso riparare; anche per quanto riguarda il secondo caso i social network permettono agli adolescenti di decidere come presentarsi agli altri decidendo in prima persona quali ruoli impersonare e a quali eventi partecipare.

Questo permette al nostro Bill di avere un ruolo più attivo e centrale nella definizione e nella condivisione della propria identità sociale e a detta della psicologa americana Katelyn Mc Kenna è inoltre più facile che gli individui siano più disposti a rivelare il proprio vero Sé nei social network, di quanto non lo siano nella vita reale, in quanto all’interno della rete di “amici” si possono condividere le proprie convinzioni e le proprie reazioni emotive più intime con minor rischio di disapprovazione e sanzione sociale. Secondo quest’ottica quindi un social network può essere considerato il perfetto ambiente di “empowerment” dove Bill può decidere di essere sé stesso o completamente diverso, ma pagando un costo limitato per le sperimentazioni non andate a buon fine.

La seduzione ai tempi di Zuckerberg

Un’ altra opportunità che Bill si trova offerta su un piatto d’argento è a proposito delle relazioni sentimentali. Essi si affiancano quindi alla possibilità di intraprendere questa esperienza, facilitandola per una serie di motivi quali: la possibilità di superare le barriere spaziali; la comunicazione iperpersonale (le persone sono più disposte nel social network a rivelare il proprio vero Sé, indi per cui l’ intimità è maggiormente stimolata e raggiunge alti livelli); la somiglianza (avere “amicizie” in comune o interessi comuni); elevato livello di idealizzazione dato dal minor numero di informazioni disponibili relative all’altra persona, ciò porta gli individui a riempire i vuoti informativi con le proprie aspettative, da qui maggior idealizzazione e quindi maggior interesse nei confronti dell’altro; il controllo del processo di presentazione (l’ opportunità di controllare la propria identità sociale e la propria immagine riduce i problemi legati alle impressioni negative o alla paura di essere giudicati, inoltre diminuisce l’ importanza ricoperta dall’aspetto fisico, dallo status sociale e socioeconomico).

La questione dell’aspetto fisico è un comunque un aspetto critico (per Bill e per chiunque) per la nascita e la costruzione di una relazione; nel social network però il corpo reale non è totalmente assente ma sostituito da un corpo virtuale, costituito da immagini parziali attraverso le quali posso decidere strategicamente come presentarmi e dare una precisa immagine di me. Infatti tutti i social network offrono ampio spazio alla presentazione di immagini e video degli utenti.

Dieci sono i comportamenti che generano attrazione nel partner e cinque di questi possono esser realizzati in un social network: essere simpatici, mostrare senso dell’umorismo, offrire supporto, avere buone maniere e dimostrare di voler passare del tempo con l’ altro.

Il processo di seduzione digitale nel terzo millennio, si articola in una sequenza di interazioni relativamente stabile, che ricopre fondamentalmente due fasi: la creazione di un’ impressione di sé nell’altro e la scelta della strategia seduttiva (e fin qui niente di nuovo sotto il sole). Per fare il primo passo, è necessario stabilire una forma di contatto, ovvero chiedere l’ “amicizia”, in seguito ci sarà un disvelamento progressivo (e tra le strategie attuabili in un social network la somiglianza, la prossimità e la frequenza di contatto, la complementarietà, l’ uso dell’ironia, mostrare attenzione e apprezzamento per l’ altro, aprirsi all’altro).

Un elemento importante, è che il nostro amico “in caccia” può utilizzare per la messa in atto del suo progetto, le altre relazioni che ha all’interno della rete, ad esempio cercando di ottenere informazioni su chi gli interessa passando attraverso la sua rete di “amici”, o quella dell’altro, sfruttando anche la possibilità che danno alcuni social network, di capire chi degli altri utenti è online, attraverso l’ utilizzo ad esempio della chat (vedi Facebook). Infine i social network danno la possibilità di ricontattare persone con le quali c’è stata in passato una relazione, anche se si sono persi i contatti da tempo, come dire “Un ex sicuramente su Facebook ci sarà!E..mano sul cuore e giuramento di verità…chi può dire di non averci mai ripensato, con la speranza che quello che è accaduto si riproponga o si possa ritrovare, trasformato??!”.

Il nostro caro utente medio può intraprendere questo processo con obiettivi e esiti diversi: il corteggiamento, ma con scopo finale, almeno da parte di uno dei due, l’ incontro faccia a faccia. Oppure il mantenimento di relazioni, anche a distanza, iniziate faccia a faccia (laddove la “Bacheca” viene utilizzata sia per dimostrare agli altri l’ esistenza della storia, sia può essa fare da sorta di “rotocalco” della storia, migliorando l’ immagine di sé nei confronti degli “amici”). O infine con l’unico obiettivo del “ciberflirts”, dove i soggetti decidono, almeno inizialmente, di non ritrovarsi faccia a faccia ma interagire solo sul social network (spessi si tratta di individui che hanno già una relazione stabile nel reale e che prendono la vita sui social network come una valvola di sfogo).

Può una folla essere intelligente? La “rete creativa” e le “smart mobs”
smart mobs

Un’ altra risorsa offerta dai social network, è riguardo al potenziamento della creatività di gruppo, che può quindi essere utilizzata anche per gestire e organizzare eventi e interessi, anche in relazione all’assunzione di impegni e allo sviluppo di opinioni, in più campi, quali quelli politico, religioso, culturale, filosofico, sociale. Lo sviluppo del Web 2.0 ha infatti permesso la nascita di una “rete creativa”, e delle cosiddette “smart mobs” (“folle intelligenti”, gruppi di soggetti che collaborano tra loro per trarre frutto dalle opportunità offerte dai nuovi media che permettono alle persone di agire insieme come mai prima d’ora e in situazioni in cui l’ azione collettiva non era mai stata possibile”. Ciò è particolarmente vero per i social network tra le cui funzioni vi è quella di facilitare la gestione dei gruppi virtuali. Le “smart mobs” sono gruppi virtuali temporanei legati alla possibilità di usare i nuovi media per un proprio vantaggio e diventano comunità quando il gruppo diventa l’ occasione per raggiungere uno scopo comune e assume quindi propria identità e porta all’incremento della conoscenza. Avviene così quella che viene definita l’ “esperienza ottimale di gruppo” (“Networked Flow”), col risultato della creazione di nuovi prodotti, nuovi concetti e nuove idee, che vengono però portati all’esterno e riescono a imporsi in gruppi sociali reali solo se vi sono relazioni significative tra i membri del gruppo e i membri esterni al gruppo, nella formazione di una sorta di coscienza collettiva progettuale. A questo proposito la scienza delle reti ha elaborato una legge, la Legge di Reed, che afferma che: “quando una rete ha lo scopo di diffondere qualcosa che ha un valore per le persone, il valore dei servizi è lineare; se la rete consente transazioni tra i nodi individuali, il valore aumenta al quadrato, se essa include la possibilità che gli individui formino gruppi, il valore è invece esponenziale”.

I social network e “il capitale sociale”

Infine tra le risorse insite nei social network ricordiamo il supporto che essi danno al mondo della pubblicità, nel caso di marchi che vogliono rivolgersi ad un pubblico giovane e l’ apporto ad un economia basata su “beni relazionali”.

I “beni relazionali”, si differenziano dai “beni potenziali” (ovvero i cosidetti “di consumo”), essi possono idetntificarsi ad esempio con l’ amicizia e l’ amore e derivano dai rapporti sociali nei quali l’ identità e le motivazioni dell’altro sono essenziali per la creazione e il valore del bene; sostanzialmente tutti quei tipi di relazione generative di “capitale sociale primario”. Il “capitale sociale” è un concetto multidisciplinare e proprio per questo dalla definizione ambigua; esso presenta infatti l’apporto di molteplici aree quali l’economia, la sociologia, le scienze umane e sociali e ognuna di esse lo interpreta con sfumature leggeremente differenti. Ad un livello generale sostanzialmente la differenza fondamentale è tra il “capitale sociale primario”, che riguarda le relazioni informali di fiducia, intimità e cooperazione, dove sono considerati beni non solo i risultati creati dall’instaurarsi di tali legami, ma anche e soprattutto la relazione e le persone in sé; invece il “capitale sociale secondario” è quello che riguarda la rete delle relazioni a livello più ampio, sia informali che formali, intese come mezzi per ottenere determinate finalità, strumentali

La caratteristica fondamentale dei beni relazionali è l’ aspetto della gratuità e della spontaneità, in quanto hanno la loro origine nel comportamento di dono dato dall’unione di tre componenti che sono il donare, il ricevere e il contraccambiare. L’ aspetto più importante del dono risiede quindi nella sua totale libertà, dal momento che io scelgo di farlo ma non ho la certezza di essere contraccambiato. Nella vita reale ciò avviene in relazioni personali caratterizzate da fiducia e conoscenza reciproca, ma nei social network questo può accadere anche nei confronti di legami deboli; spinti da un senso di responsabilità sociale nei confronti della comunità di utenti del social network che porta a mettere a disposizione proprie conoscenze, informazioni, contenuti. L’ obbiettivo degli individui in quest’ottica, è il mantenimento della comunità e l’ interesse individuale si realizza insieme a quello degli altri (intenzione collettiva).

Ad esempio la Vespa del nostro amico Bill ha smesso improvvisamente di funzionare e lui ha deciso di scrivere sulla sua “bacheca” Facebook se qualcuno sa come ripararla, sicuramente qualcuno fra tutti i suoi “amici” risponderà alla richiesta d’ aiuto, fornendogli consigli”.

Scettici cronici, offline convinti, preoccupati, spaventati o anticonformisti….siete ancora sicuri che proprio non vi interessi iscrivervi a Facebook?!


Stanley Milgram

Quante conoscenze “distiamo” da uno sconosciuto?! Ecco perché…il mondo è piccolo!

Se avete ancora qualche dubbio questo che sto per dirvi potrebbe essere ciò che vi convincerà definitivamente a cambiare idea, oppure a fuggire del tutto! Si perché è stata teorizzata un’ipotesi molto affascinante e molto inquietante insieme, dato che essa dimostra ulteriormente che la privacy nell’era digitale si assotiglia sempre più.

Nel 1967 il sociologo americano Stanley Milgram tentò di testare un’ipotesi formulata per la prima volta nel 1929 dallo scrittore ungherese Frigyes Karinthy  e poi ripresa negli anni cinquanta da Ithiel de Sola Pool (MIT) e Manfred Kochen (IBM) che cercarono di provare la teoria matematicamente. Essa è comunemente conosciuta come la “teoria dei sei gradi di separazione” e consiste in un’ipotesi secondo cui qualunque persona può essere collegata a qualunque altra persona attraverso una catena di conoscenze che comprende non più di 5 intermediari. Milgram ideò un nuovo sistema per testare la teoria, che egli chiamò “teoria del mondo piccolo“. Selezionò casualmente un gruppo di americani del Midwest e chiese loro di mandare un pacchetto a un estraneo che abitava nel Massachusetts, a diverse migliaia di chilometri di distanza. Ognuno di essi conosceva il nome del destinatario, la sua occupazione, e la zona in cui risiedeva, ma non l’indirizzo preciso. Fu quindi chiesto a ciascuno dei partecipanti all’esperimento di mandare il proprio pacchetto a una persona da loro conosciuta, che a loro giudizio avesse il maggior numero di possibilità di conoscere il destinatario finale. Quella persona avrebbe fatto lo stesso, e così via fino a che il pacchetto non venisse personalmente consegnato al destinatario finale. I promotori dello studio si aspettavano che la catena comprendesse perlomeno un centinaio di intermediari, mentre invece, per far arrivare il pacchetto, ci vollero in media solo tra i cinque e i sette passaggi. Per ora neanche l’ombra di ambienti virtuali e relazioni digitali. Fino a quando nel febbraio 2004 un diciannovenne studente dell’Università di Harvard crea il social network più popolare al mondo. Nel 2011 un gruppo di informatici dell’Università degli studi di Milano, in collaborazione con due informatici di Facebook decide di effettuare un esperimento su scala planetaria per calcolare il grado di separazione tra tutte le coppie di individui su Facebook. In media, i gradi di separazione sono risultati essere 3.74, molto meno di quanto l’esperimento di Milgram facesse pensare!

Insomma, le persone si sono avvicinate e il mondo si è “ristretto”!

Sarà un bene o un male?! Ai posteri, sempre più “connessi”, l’ardua sentenza!

di Arianna De Battè

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