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Perché dovremmo utilizzare i social network?

Pubblicato il 18 aprile 2018 by redazione

Come rilevano gli psicologi americani Prochaska e Di Clemente, i soggetti cambiano solo se sono costretti a farlo e se il cambiamento rappresenta per essi un’opportunità significativa, detta affordance, ovvero una risorsa che l’ambiente offre a un soggetto in grado di coglierla: ogni oggetto è quindi dotato di proprietà che supportano un particolare tipo di azione e non altre. Possiamo quindi considerare l’opportunità come una specie di “invito” dell’ambiente a essere utilizzato in un certo modo piuttosto che in un altro.

Inoltre il legame tra soggetto e opportunità è anche il risultato di un processo d’ interpretazione legato al contesto e alla cultura nella quale il soggetto è inserito, il soggetto può quindi scegliere, in base ai propri obiettivi, il tipo di proprietà più utile a lui tra quelle che il social network offre; il livello di utilità è legato, oltre che al tipo di obiettivo, alla struttura fisica del medium (viene definito medium ogni strumento artefatto in grado di permettere ai soggetti di superare i vincoli della comunicazione faccia a faccia, la situazione di interazione più naturale e antica, all’interno della quale i due soggetti interagenti devono essere contigui sia spazialmente che temporalmente), ai significati e alle pratiche associate al medium e al contesto in cui è collocato.

Le opportunità non sono tutte uguali, ma variano di importanza a seconda del bisogno sotteso e possiamo riconoscere che in questo senso i social network (i nuovi media) rispondono ad alcuni tra i bisogni fondamentali dell’essere umano:

–        Bisogni di sicurezza, in quanto in essi le persone con cui gli individui comunicano sono solo “amici” e non estranei; posso quindi decidere chi è “un amico”, controllare ciò che mostra di sé e della sua vita e commentarlo.

–        Bisogni associativi: con gli “amici” posso comunicare e scambiare opinioni, risorse, applicazioni e anche cercare qualcuno con cui intraprendere una relazione sentimentali.

–        Bisogni di autostima: io posso scegliermi gli “amici”, ma anche gli altri possono farlo, quindi “se in tanti mi hanno scelto come amico allora valgo”.

–        Bisogni di autorealizzazione: posso raccontare me stesso nel modo che preferisco e posso utilizzare le mie competenze anche per aiutare qualcuno dei miei “amici” che mi ascolta.

I social network rispondono alla definizione di “nuovi media”. Per superare i limiti ontologici inscritti in essa, l’uomo ha quindi creato degli strumenti, i “media” appunto, che gli hanno permesso di superare tale limitazione. I “media” sono come “dispositivi di mediazione” che da una parte facilitano il processo di comunicazione, superando i vincoli imposti dal faccia a faccia, dall’altra, ponendosi in mezzo tra i soggetti interagenti. Sostituiscono l’esperienza diretta dell’altra persona, con una percezione indiretta (mediata), essi non sono quindi oggetti neutri, cioè semplici “canali” attraverso i quali si trasmette un messaggio, ma a seconda del tipo di medium utilizzato, l’attività comunicativa dei soggetti interagenti viene influenzata a tre livelli:

–        Fisico: attraverso l’insieme delle caratteristiche naturali del medium (ad esempio il fatto che esista una bacheca, o il livello di tecnologizzazione del telefono cellulare che sto utilizzando).

–        Simbolico: l’insieme dei significati richiesti per poter utilizzare il medium ed espressi attraverso di esso. Ad esempio ogni social network utilizza una propria interfaccia che richiede una comprensione da parte dell’utente per essere utilizzata nel modo adeguato, oppure ogni gruppo può utilizzare consapevolmente o inconsapevolmente un linguaggio specialistico o un proprio gergo non immediatamente comprensibile a chi non ne è parte.

–        Pragmatico: attraverso l’insieme dei comportamenti con i quali il soggetto utilizza i social network, questi comportamenti sono legati alle opportunità e ai vincoli offerti dal medium utilizzato, da una parte, e dal contesto in cui ci si trova dall’altro.

Queste tre dimensioni sono tra loro in rapporto dialettico: il cambiamento di un elemento provoca un cambiamento anche negli altri.

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I social network implicano radicali e irreversibili cambiamenti nei processi comunicativi e nelle realazioni interpersonali. Essi provocano una vera e propria riconfigurazione delle opportunità di mediazione culturale, così profonda da mettere in crisi la soggettività e la corporeità degli utenti dei social network (http://mashable.com/2011/03/18/china-top-social-network/)

Essi modificano le pratiche dell’interazione sociale e obbligano ad adattarsi alla nuova situazione; rimuovono dall’interazione il corpo e i significati che porta con sé, rendendo autonomi i contenuti trasmessi.

Il social network richiede ai soggetti che stanno interagendo di adattare la loro comunicazione al medium che utilizzano, indi per cui, se essi non conoscono le caratteristiche del social network specifico, potrebbero interpretare in modo scorretto i messaggi, approdando a errate conclusioni; ma man mano che essi si adattano al medium, trovano nuovi strumenti per supplire alle loro limitazioni e arrivano a creare un nuovo sistema simbolico che può però diventare un ostacolo per utenti neofiti, che se non accetteranno le convenzioni, non potranno comprendere le comunicazioni tra utenti esperti.

Indipendentemente dal livello culturale dei soggetti e dalle loro possibilità di accesso alle tecnologie, ogni medium produce quindi uno squilibrio tra utenti esperti e non esperti, questo fenomeno viene definito come digital divide; questa espressione significa “divario”, “divisione digitale”, e indica la mancanza di accesso e di fruizione delle nuove tecnologie di comunicazione e informatiche. Nel caso specifico dei social network il divario, più che dalla disponibilità di disporre delle tecnologie necessarie ad utilizzarli, è prodotto proprio dalla possibilità di inscrivere quanto sta avvenendo in un’ ottica di senso.

Da un punto di vista relazionale, effetto ancor più importante dell’uso dei social network è la rimozione del corpo e dei significati connessi, dall’interazione, infatti nell’interazione faccia a faccia il soggetto “è il suo corpo” e questo permette negli individui l’attivazione di un sistema innato composto dai cosiddetti “neuroni specchio” (mirror), scoperti recentemente da ricerche nell’ambito delle scienze cognitive (http://www.youtube.com/watch?v=1G0GY0oQspE).

Si è infatti recentemente scoperto che nella corteccia premotoria è presente un gruppo di neuroni bimodali motori e percettivi, i neuroni specchio appunto, che si attivano sia durante l’esecuzione di azioni correlate a oggetti sia durante l’osservazione di un individuo che compie la stessa azione. Pare quindi esista un processo simulativo basato sulle informazioni ricavate dagli atti motori che fa quindi sì che l’io trasformi le informazioni visive in un atto motorio potenziale. Durante questo processo simulativo nell’osservatore si generano rappresentazioni interne degli stati corporei connessi all’azione e alla sensazione che sta osservando, “come se” stesse compiendo un’azione simile o provando la stessa emozione. Questi processi simulativi automatici e inconsapevoli, sono alla base del processo di riconoscimento e espressione emotiva (alfabetizzazione emotiva) che stà alla base, dell’“Intelligenza emotiva” (concetto teorizzato da Goleman nel 1995 nella famosa opera omonima), che si serve di quell’importantissimo fenomeno chiamato empatia, ovvero la capacità di riconoscere emozioni e sentimenti negli altri e offrire una risposta a questi congruente; nel frattempo, mettendosi “nei panni” degli altri e collegando emozioni e comportamenti, il soggetto impara a riconoscere e dare un senso anche alle propri stesse emozioni. Dal momento che però introduciamo un medium, il soggetto è “disincarnato” (disembodied) dal punto di vista del suo interlocutore e la fisicità del corpo umano viene sostituita da quella del medium, che nei social network consiste in un corpo virtuale, costituito di immagini parziali e contestualizzate, ciò comporta tre conseguenze. Innanzitutto la persona non può avvalersi del corpo dell’altro per comprendere le sue emozioni e questo si riflette sul processo di apprendimento delle proprie e altrui emozioni, che sarà quindi mancante di un importante punto di riferimento e ciò potrebbe favorire l’ “analfabetismo emotivo”. In secondo luogo il soggetto che comunica finisce per identificarsi con il messaggio in quanto (il soggetto è il messaggio), privato esso dell’aspetto corporeo, gli altri soggetti interagenti possono costruire la sua identità in modo indiretto, interpretando i messaggi e le immagini che egli condivide e che possono quindi formarsi, senza una conoscenza diretta e recente, un’ immagine sbagliata di lui. Ad esempio l’errore della pars pro toto, cioè l’identificazione del soggetto nel complesso, con le piccole parti della modalità con la quale egli si presenta; contemporaneamente però questo fenomeno può essere visto come una possibilità da parte del soggetto stesso che decide di costruirsi una presentazione “strategica”, proprio per trasmettere una precisa immagine di sé, impression management (http://thesituationist.wordpress.com/2008/03/03/social-networks/).

L’ultima conseguenza consiste nel fatto che il messaggio si separa dal soggetto per diventare un’entità a sé stante, autonoma da esso e stabile: mentre nel faccia a faccia il messaggio è “evanescente”, è legato ai soggetti interagenti e appena prodotto tende a scomparire e non può essere modificato, nel social network il messaggio tende a stabilizzarsi, avere vita propria e continua a produrre i suoi effetti anche a molta distanza di tempo, sui soggetti interagenti e sugli altri “amici”.

 

di Arianna De Batte

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Social network: io “posto” dunque “sono”…

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Social network: io “posto” dunque “sono”…

Pubblicato il 20 maggio 2012 by redazione

selfempowerment

I sentimenti collettivi nei confronti di questo recente ed esplosivo fenomeno sono molteplici e contrastanti. I social network sono idolatrati dal popolo teen, temuti dai genitori, demonizzati dagli irriducibili ideologicamente e perennemente offline, snobbati dagli anticonformisti e spesso ringraziati dai maturandi e universitari in assetto da esame. Ma questi fantomatici e per certi versi ancora misteriosi strumenti, dei quali più spesso (come già è stato in parte esposto nei precedenti articoli) si parla degli aspetti negativi e dei pericoli ai quali possono dare luogo, in realtà, quali sono poi le risorse che presentano? Sostanzialmente..perché mai dovremmo usarli?! Ci concentriamo quindi ora sugli aspetti positivi che possiedono e per una volta..li difendiamo! Persino i più scettici potrebbero trovare la “giustificazione” che fa al caso loro! Sicuramente i quattrocento milioni di persone, di età media 37 anni, che in tutto il mondo utilizzano Facebook (dei quali il 55% di essi effettua l’accesso almeno una volta al giorno) e che hanno deciso di condividere tre miliardi di foto e cinque miliardi di contenuti “vari” (link, note, video ecc..), una loro motivazione l’hanno trovata!

Il ”self empowerment”: io “posto” (quindi “posso”) … dunque “sono”

Facciamoci accompagnare in questo viaggio alla scoperta dei lati positivi del “sociale digitale” da un ipotetico utente medio, il soggetto protagonista delle relazioni virtuali, che potremmo chiamare Bill.

Il nostro amico, che giunge in questo magico mondo, si trova ad essere qui sprovvisto (come già sottolineato precedentemente) di una parte di sé molto importante, che da sempre lo ha accompagnato in qualsiasi ambiente egli sia stato nella sua vita, compagno amato, odiato, che forse vorrebbe diverso, non tutto, solo in parte, magari non sempre ma solo qualche volta, territorio di esperienze e grande comunicatore di messaggi, insomma un “accompagnatore” d’eccezione: il corpo.

Da sempre se lo porta con sé, ma non qui, nell’ambiente virtuale.

Il soggetto nei social network si trova a essere “disincarnato” (“disembodied”), privato del corpo e dei significati che esso porta con sé, ed ecco quindi che si trova di fronte a infinite possibilità date da processo di “self empowerment” (il termine “empowerment” significa “potenziamento”, “responsabilizzazione”, “aumento del proprio potere interno”). Questo fenomeno assume una cruciale importanza se stiamo poi di fasi di vita, quali ad esempio quella adolescenziale, dove il processo di costruzione della propria identità assume particolare salienza, attraverso la scoperta dei loro molteplici possibili sé, il miglioramento delle proprie abilità e capacità cognitive, fisiche e relazionali e la sperimentazione attraverso l’ esplorazione di una pluralità di esperienze, senza la presa in carico di impegni definitivi, ma sempre con la possibilità di tornare sui propri passi. L’ uso dei social network si affianca quindi allo svolgimento di questo compito dal momento che posso decidere “chi” voglio essere, sia nel caso io non dichiari esplicitamente la mia identità, sia nel caso io la riveli. Infatti, nel primo caso posso sperimentare più liberamente, forte del fatto che se fallissi non succederebbe nulla, posso quindi permettermi di essere anche il contrario di ciò che sono realmente nella vita di tutti i giorni (ad esempio se sono timido posso provare a essere aggressivo) e se poi sbaglio posso riparare; anche per quanto riguarda il secondo caso i social network permettono agli adolescenti di decidere come presentarsi agli altri decidendo in prima persona quali ruoli impersonare e a quali eventi partecipare.

Questo permette al nostro Bill di avere un ruolo più attivo e centrale nella definizione e nella condivisione della propria identità sociale e a detta della psicologa americana Katelyn Mc Kenna è inoltre più facile che gli individui siano più disposti a rivelare il proprio vero Sé nei social network, di quanto non lo siano nella vita reale, in quanto all’interno della rete di “amici” si possono condividere le proprie convinzioni e le proprie reazioni emotive più intime con minor rischio di disapprovazione e sanzione sociale. Secondo quest’ottica quindi un social network può essere considerato il perfetto ambiente di “empowerment” dove Bill può decidere di essere sé stesso o completamente diverso, ma pagando un costo limitato per le sperimentazioni non andate a buon fine.

La seduzione ai tempi di Zuckerberg

Un’ altra opportunità che Bill si trova offerta su un piatto d’argento è a proposito delle relazioni sentimentali. Essi si affiancano quindi alla possibilità di intraprendere questa esperienza, facilitandola per una serie di motivi quali: la possibilità di superare le barriere spaziali; la comunicazione iperpersonale (le persone sono più disposte nel social network a rivelare il proprio vero Sé, indi per cui l’ intimità è maggiormente stimolata e raggiunge alti livelli); la somiglianza (avere “amicizie” in comune o interessi comuni); elevato livello di idealizzazione dato dal minor numero di informazioni disponibili relative all’altra persona, ciò porta gli individui a riempire i vuoti informativi con le proprie aspettative, da qui maggior idealizzazione e quindi maggior interesse nei confronti dell’altro; il controllo del processo di presentazione (l’ opportunità di controllare la propria identità sociale e la propria immagine riduce i problemi legati alle impressioni negative o alla paura di essere giudicati, inoltre diminuisce l’ importanza ricoperta dall’aspetto fisico, dallo status sociale e socioeconomico).

La questione dell’aspetto fisico è un comunque un aspetto critico (per Bill e per chiunque) per la nascita e la costruzione di una relazione; nel social network però il corpo reale non è totalmente assente ma sostituito da un corpo virtuale, costituito da immagini parziali attraverso le quali posso decidere strategicamente come presentarmi e dare una precisa immagine di me. Infatti tutti i social network offrono ampio spazio alla presentazione di immagini e video degli utenti.

Dieci sono i comportamenti che generano attrazione nel partner e cinque di questi possono esser realizzati in un social network: essere simpatici, mostrare senso dell’umorismo, offrire supporto, avere buone maniere e dimostrare di voler passare del tempo con l’ altro.

Il processo di seduzione digitale nel terzo millennio, si articola in una sequenza di interazioni relativamente stabile, che ricopre fondamentalmente due fasi: la creazione di un’ impressione di sé nell’altro e la scelta della strategia seduttiva (e fin qui niente di nuovo sotto il sole). Per fare il primo passo, è necessario stabilire una forma di contatto, ovvero chiedere l’ “amicizia”, in seguito ci sarà un disvelamento progressivo (e tra le strategie attuabili in un social network la somiglianza, la prossimità e la frequenza di contatto, la complementarietà, l’ uso dell’ironia, mostrare attenzione e apprezzamento per l’ altro, aprirsi all’altro).

Un elemento importante, è che il nostro amico “in caccia” può utilizzare per la messa in atto del suo progetto, le altre relazioni che ha all’interno della rete, ad esempio cercando di ottenere informazioni su chi gli interessa passando attraverso la sua rete di “amici”, o quella dell’altro, sfruttando anche la possibilità che danno alcuni social network, di capire chi degli altri utenti è online, attraverso l’ utilizzo ad esempio della chat (vedi Facebook). Infine i social network danno la possibilità di ricontattare persone con le quali c’è stata in passato una relazione, anche se si sono persi i contatti da tempo, come dire “Un ex sicuramente su Facebook ci sarà!E..mano sul cuore e giuramento di verità…chi può dire di non averci mai ripensato, con la speranza che quello che è accaduto si riproponga o si possa ritrovare, trasformato??!”.

Il nostro caro utente medio può intraprendere questo processo con obiettivi e esiti diversi: il corteggiamento, ma con scopo finale, almeno da parte di uno dei due, l’ incontro faccia a faccia. Oppure il mantenimento di relazioni, anche a distanza, iniziate faccia a faccia (laddove la “Bacheca” viene utilizzata sia per dimostrare agli altri l’ esistenza della storia, sia può essa fare da sorta di “rotocalco” della storia, migliorando l’ immagine di sé nei confronti degli “amici”). O infine con l’unico obiettivo del “ciberflirts”, dove i soggetti decidono, almeno inizialmente, di non ritrovarsi faccia a faccia ma interagire solo sul social network (spessi si tratta di individui che hanno già una relazione stabile nel reale e che prendono la vita sui social network come una valvola di sfogo).

Può una folla essere intelligente? La “rete creativa” e le “smart mobs”
smart mobs

Un’ altra risorsa offerta dai social network, è riguardo al potenziamento della creatività di gruppo, che può quindi essere utilizzata anche per gestire e organizzare eventi e interessi, anche in relazione all’assunzione di impegni e allo sviluppo di opinioni, in più campi, quali quelli politico, religioso, culturale, filosofico, sociale. Lo sviluppo del Web 2.0 ha infatti permesso la nascita di una “rete creativa”, e delle cosiddette “smart mobs” (“folle intelligenti”, gruppi di soggetti che collaborano tra loro per trarre frutto dalle opportunità offerte dai nuovi media che permettono alle persone di agire insieme come mai prima d’ora e in situazioni in cui l’ azione collettiva non era mai stata possibile”. Ciò è particolarmente vero per i social network tra le cui funzioni vi è quella di facilitare la gestione dei gruppi virtuali. Le “smart mobs” sono gruppi virtuali temporanei legati alla possibilità di usare i nuovi media per un proprio vantaggio e diventano comunità quando il gruppo diventa l’ occasione per raggiungere uno scopo comune e assume quindi propria identità e porta all’incremento della conoscenza. Avviene così quella che viene definita l’ “esperienza ottimale di gruppo” (“Networked Flow”), col risultato della creazione di nuovi prodotti, nuovi concetti e nuove idee, che vengono però portati all’esterno e riescono a imporsi in gruppi sociali reali solo se vi sono relazioni significative tra i membri del gruppo e i membri esterni al gruppo, nella formazione di una sorta di coscienza collettiva progettuale. A questo proposito la scienza delle reti ha elaborato una legge, la Legge di Reed, che afferma che: “quando una rete ha lo scopo di diffondere qualcosa che ha un valore per le persone, il valore dei servizi è lineare; se la rete consente transazioni tra i nodi individuali, il valore aumenta al quadrato, se essa include la possibilità che gli individui formino gruppi, il valore è invece esponenziale”.

I social network e “il capitale sociale”

Infine tra le risorse insite nei social network ricordiamo il supporto che essi danno al mondo della pubblicità, nel caso di marchi che vogliono rivolgersi ad un pubblico giovane e l’ apporto ad un economia basata su “beni relazionali”.

I “beni relazionali”, si differenziano dai “beni potenziali” (ovvero i cosidetti “di consumo”), essi possono idetntificarsi ad esempio con l’ amicizia e l’ amore e derivano dai rapporti sociali nei quali l’ identità e le motivazioni dell’altro sono essenziali per la creazione e il valore del bene; sostanzialmente tutti quei tipi di relazione generative di “capitale sociale primario”. Il “capitale sociale” è un concetto multidisciplinare e proprio per questo dalla definizione ambigua; esso presenta infatti l’apporto di molteplici aree quali l’economia, la sociologia, le scienze umane e sociali e ognuna di esse lo interpreta con sfumature leggeremente differenti. Ad un livello generale sostanzialmente la differenza fondamentale è tra il “capitale sociale primario”, che riguarda le relazioni informali di fiducia, intimità e cooperazione, dove sono considerati beni non solo i risultati creati dall’instaurarsi di tali legami, ma anche e soprattutto la relazione e le persone in sé; invece il “capitale sociale secondario” è quello che riguarda la rete delle relazioni a livello più ampio, sia informali che formali, intese come mezzi per ottenere determinate finalità, strumentali

La caratteristica fondamentale dei beni relazionali è l’ aspetto della gratuità e della spontaneità, in quanto hanno la loro origine nel comportamento di dono dato dall’unione di tre componenti che sono il donare, il ricevere e il contraccambiare. L’ aspetto più importante del dono risiede quindi nella sua totale libertà, dal momento che io scelgo di farlo ma non ho la certezza di essere contraccambiato. Nella vita reale ciò avviene in relazioni personali caratterizzate da fiducia e conoscenza reciproca, ma nei social network questo può accadere anche nei confronti di legami deboli; spinti da un senso di responsabilità sociale nei confronti della comunità di utenti del social network che porta a mettere a disposizione proprie conoscenze, informazioni, contenuti. L’ obbiettivo degli individui in quest’ottica, è il mantenimento della comunità e l’ interesse individuale si realizza insieme a quello degli altri (intenzione collettiva).

Ad esempio la Vespa del nostro amico Bill ha smesso improvvisamente di funzionare e lui ha deciso di scrivere sulla sua “bacheca” Facebook se qualcuno sa come ripararla, sicuramente qualcuno fra tutti i suoi “amici” risponderà alla richiesta d’ aiuto, fornendogli consigli”.

Scettici cronici, offline convinti, preoccupati, spaventati o anticonformisti….siete ancora sicuri che proprio non vi interessi iscrivervi a Facebook?!


Stanley Milgram

Quante conoscenze “distiamo” da uno sconosciuto?! Ecco perché…il mondo è piccolo!

Se avete ancora qualche dubbio questo che sto per dirvi potrebbe essere ciò che vi convincerà definitivamente a cambiare idea, oppure a fuggire del tutto! Si perché è stata teorizzata un’ipotesi molto affascinante e molto inquietante insieme, dato che essa dimostra ulteriormente che la privacy nell’era digitale si assotiglia sempre più.

Nel 1967 il sociologo americano Stanley Milgram tentò di testare un’ipotesi formulata per la prima volta nel 1929 dallo scrittore ungherese Frigyes Karinthy  e poi ripresa negli anni cinquanta da Ithiel de Sola Pool (MIT) e Manfred Kochen (IBM) che cercarono di provare la teoria matematicamente. Essa è comunemente conosciuta come la “teoria dei sei gradi di separazione” e consiste in un’ipotesi secondo cui qualunque persona può essere collegata a qualunque altra persona attraverso una catena di conoscenze che comprende non più di 5 intermediari. Milgram ideò un nuovo sistema per testare la teoria, che egli chiamò “teoria del mondo piccolo“. Selezionò casualmente un gruppo di americani del Midwest e chiese loro di mandare un pacchetto a un estraneo che abitava nel Massachusetts, a diverse migliaia di chilometri di distanza. Ognuno di essi conosceva il nome del destinatario, la sua occupazione, e la zona in cui risiedeva, ma non l’indirizzo preciso. Fu quindi chiesto a ciascuno dei partecipanti all’esperimento di mandare il proprio pacchetto a una persona da loro conosciuta, che a loro giudizio avesse il maggior numero di possibilità di conoscere il destinatario finale. Quella persona avrebbe fatto lo stesso, e così via fino a che il pacchetto non venisse personalmente consegnato al destinatario finale. I promotori dello studio si aspettavano che la catena comprendesse perlomeno un centinaio di intermediari, mentre invece, per far arrivare il pacchetto, ci vollero in media solo tra i cinque e i sette passaggi. Per ora neanche l’ombra di ambienti virtuali e relazioni digitali. Fino a quando nel febbraio 2004 un diciannovenne studente dell’Università di Harvard crea il social network più popolare al mondo. Nel 2011 un gruppo di informatici dell’Università degli studi di Milano, in collaborazione con due informatici di Facebook decide di effettuare un esperimento su scala planetaria per calcolare il grado di separazione tra tutte le coppie di individui su Facebook. In media, i gradi di separazione sono risultati essere 3.74, molto meno di quanto l’esperimento di Milgram facesse pensare!

Insomma, le persone si sono avvicinate e il mondo si è “ristretto”!

Sarà un bene o un male?! Ai posteri, sempre più “connessi”, l’ardua sentenza!

di Arianna De Battè

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