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Clochard alla riscossa

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Clochard alla riscossa

Pubblicato il 30 settembre 2012 by redazione

clochardSe questo è un uomo

Voi che vivete sicuri
 nelle vostre tiepide case,
 voi che trovate tornando a sera
 il cibo caldo e visi amici:
 Considerate se questo è un uomo
 che lavora nel fango
 che non conosce pace che lotta per mezzo pane 
che muore per un si o per un no.
 Considerate se questa è una donna,
 senza capelli e senza nome
 senza più forza di ricordare
 vuoti gli occhi e freddo il grembo 
come una rana d’inverno.
 Meditate che questo è stato:
 vi comando queste parole.
 Scolpitele nel vostro cuore
 stando in casa andando per via,
 coricandovi, alzandovi.
 Ripetetele ai vostri figli.
 O vi si sfaccia la casa, 
la malattia vi impedisca,
 i vostri nati torcano il viso da voi. (Primo Levi)

Ogni epoca ha le sue frasi ricorrenti, ma molto spesso la ripetizione non ci consente di soffermarci a riflettere sul loro significato e il vero impatto sul reale. Nel tempo della crisi si suol dire che a farne le spese siano “i più deboli”, le fasce più basse della popolazione, imperano continuamente parole come “disoccupazione”, “mancanza di ammortizzatori sociali”, “povertà”, “precarietà” e si fanno appelli nella direzione della “crescita” e “creazione di occupazione”, ma che cosa c’è sotto queste parole inflazionate? Ne siamo davvero consapevoli??

Sicuramente sa di cosa stiamo parlando il dottor Wainer Molteni, laureato alla Statale di Milano, quarant’anni, da otto vive sulla strada, ex responsabile del personale di un supermercato, si trova ad affrontare prima la bancarotta fraudolenta dell’azienda, poi il fallimento e infine la disoccupazione.

Wainer, in quanto figlio unico con i genitori morti diversi anni prima e nessun legame significativo, si ritrova senza una rete di protezione e così con l’affitto da pagare che incombe ogni fine mese e i documenti scaduti, si ritrova senza un domicilio e si “trasferisce” nella galleria San Cristoforo. Da qui poi i primi contatti con il Comune di Milano fino alla fondazione nel 2004 del primo sindacato dei senza fissa dimora, costituito insieme a altri senza tetto, per sopperire alle mancanze del sistema assistenziale tradizionale.

Così si scopre che a Milano i senza tetto sono dalle 5000 alle 6000 persone (anche se una stima precisa è impossibile da fare, dato che molti di essi non si vogliono far ritrovare), dei quali circa il 60/70% stranieri, individui che sembrano condurre la propria esistenza in modo totalmente parallelo e quasi “invisibile”, dormendo nei treni in parcheggio alla stazione, dalle 11 di sera alle 05 del mattino, o alla biblioteca Sormani, che dalle 9 del mattino alle 19.30 è la casa di decine di senza fissa dimora, “qui siamo di casa e se qualcuno di noi manca sono gli operatori stessi a chiedere dove siamo finiti.”.

Nonostante i servizi offerti, la vita di strada è molto difficile e complicata (“La vita per strada è difficile, dura e disagevole, togliamo lo stereotipo della libertà, non esiste, hai orari fissi da rispettare per sopravvivere, la mensa, il guardaroba, il dormitorio, la scelta dei cartoni, diventa un vero lavoro”), tali servizi sono in realtà molto costosi per le politiche sociali dei comuni, ma poco produttivi in termini di risorse in quanto perpetuano un circolo vizioso che invece che risolvere, contribuisce in un certo senso ad incrementare il problema.

clochard_2Il punto è che tali servizi in Italia, almeno per la maggior parte, seguono tutt’ora un’ottica assistenziale, che non incentiva la persona a diventare un soggetto “agente” e “responsabilizzato”, ma lo infantilizza e lo rende dipendente dal servizio stesso; mentre invece in campo sociale sembra raccogliere molti più frutti un approccio orientato all’”empowerment” (recentemente teorizzato in sociologia prima da Rappaport nel 1984 e poi ad un livello più approfondito da Zimmerman); Wallerstein (2006) propone la seguente definizione:

L’empowerment è un processo dell’azione sociale attraverso il quale le persone, le organizzazioni e le comunità acquisiscono competenza sulle proprie vite, al fine di cambiare il proprio ambiente sociale e politico per migliorare l’equità e la qualità di vita.”

Zimmerman l’ha definito sulla base di tre livelli di analisi: psicologico, organizzativo, sociale e di comunità, strettamente interconnessi. Empowerment individuale, organizzativo e di comunità sono interdipendenti e ognuno è causa e, al tempo stesso, conseguenza dell’altro.

Il dottor Molteni ragiona decisamente in quest’ottica: l’associazione “Clochard alla riscossa” nasce appunto “come sindacato autonomo e autorganizzato, formato da senzatetto, per rivendicare i diritti fondamentali della costituzione, per persone che dopo la scadenza dei documenti e la perdita della residenza vedono questi diritti calpestati” come egli ricorda in un intervista al blogger e attivista Luchino Galli. Essi hanno avviato un progetto a Serravalle Pistoiese che consiste in “un piano di reinserimento in 12 mesi, sia abitativo che lavorativo (..) personalizzato, in fattoria abbiamo molte mansioni da ricoprire, nessuno viene forzato, ognuno sceglie cosa fare e tutto viene fatto..insomma autorganizzazione”. Il fulcro del progetto è certamente il lavoro, che “ridona dignità e ricondiziona la voglia di fare”, ma è soprattutto necessario “un costante apporto psicologico”, perché la vita di strada fa in un certo senso regredire e disumanizza.

In un futuro sono in programma parecchi altri progetti, come il recupero di una cascina in provincia di Pavia.

L’ottica dell’”empowerment” è anche quella dell’associazione milanese “La Ronda della Carità o.n.l.u.s.”, che si impegna nell’obbiettivo di creare prima di tutto “legami”, inserire la persona in una rete di relazioni (proprio una delle prime cose che in queste “storie di vita” cominciano a mancare) che possano fare da risorsa e “far compiere a ciascuno il passaggio dalla strada alla presa in mano della propria vita, per colmare il vuoto che ha consentito avvenisse il contrario tempo fa”, proprio come era accaduto a Wainer Molteni.

Forte dell’idea che “ogni persona ha la sua storia, così come ogni volontario ha una motivazione (..) l’Associazione cerca di rendere visibile ciò che si cerca di non vedere, che fa paura perché fuori posto, ma che proprio l’indifferenza permette che si crei e permanga”; dal momento che “è la mancanza di relazioni significative che fa arrivare in strada chi ci vive, generando con il tempo altri problemi collegati, che perpetuano disagio ed emarginazione. La Ronda vuole porsi come occasione per guardare negli occhi i senza dimora e vederci le persone che erano e che potrebbero essere, per ritrovare la dignità e l’umanità di ciascuno.”

Dallo scorso inverno è nata anche un’altra iniziativa nel comune di Milano, il “Piano antifreddo”: in via Verziere è stato creato per la prima volta un punto di accoglienza per i clochard che non hanno l’abitudine di recarsi nei centri di ospitalità per la notte e per accompagnare nei centri d’accoglienza coloro che decidono di recarvisi. Anche Wainer Molteni fa parte dei volontari, il Punto Caldo è realizzato grazie alla presenza di volontari della Croce Rossa Italiana, dei City Angels, della Ronda della Carità e della Fondazione Fratelli di San Francesco d’Assisi, supportati tutte le notti, dalle 21 alle 24, da un’ambulanza del 118, un mezzo dei Medici Volontari Italiani e un altro della Protezione Civile che ha messo a disposizione il proprio centralino per raccogliere segnalazioni e coordinare le attività.

Ma quali sono le motivazioni che spingono una persona sulla strada? Mentre ancora fino a un po’ di tempo fa poteva perpetuarsi lo stereotipo del clochard per scelta, quasi come se decidesse di intraprendere tale esistenza, per rispondere ad una sorta di “mito bohémiene ” che vive all’avventura, in realtà oggi le cause, come sottolinea Molteni nella suddetta intervista, “possono essere molteplici, la perdita del lavoro, della casa, della moglie o del marito, problemi legati alle dipendenze, per incompatibilità con la famiglia..”.

E a questo proposito proprio di una dinamica del genere racconta “Gli equilibristi”, film di Ivano di Matteo, con Barbara Bobulova e Valerio Mastandrea, recentemente presentato alla Mostra del Cinema di Venezia, che racconta la storia di Giulio, quarant’anni e uno stipendio da impiegato del comune, che si trova a doversi separare dalla moglie dopo la scoperta di un tradimento e con 1200 euro a dover mantenere se stesso, la moglie e due figli. La situazione si fa di mese in mese sempre più degradante sino ad arrivare a vivere ai limiti della tolleranza. In un viaggio dal benessere piccolo borghese fino alla povertà, più che materiale umana.

Umanità sembra quindi essere la parola chiave, magari poco usata di recente, ma che racchiude tutto il senso della dignità della persona; la più importante forse delle cose che mancano sulla strada e base e meta di qualsiasi opera di recupero e reinserimento possibile.

di Arianna De Batte

 

Sitografia:

http://www.agenas.it/agenas_pdf/Nota_metodologica_empowerment.pdf

http://www.associazioni.milano.it/rondacarita/

http://www.mymovies.it/film/2012/gliequilibristi/

http://www.comune.milano.it/portale/wps/portal/CDM?WCM_GLOBAL_CONTEXT=/wps/wcm/connect/ContentL

http://clochardallariscossa.org/chisiamo/

 

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La famiglia monoparentale: due è meglio di uno?

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La famiglia monoparentale: due è meglio di uno?

Pubblicato il 30 giugno 2012 by redazione

Le famiglie monoparentali  sono composte da un unico genitore, padre o madre, che vive solo con i propri figli, a causa di un divorzio, di un lutto o, perché no, di una propria scelta personale. Il fenomeno della monoparentalità sembra essere aumentato negli ultimi anni giungendo letteralmente a caratterizzare la nostra società contemporanea. Secondo i dati Istat infatti, la percentuale di famiglie monogenitoriali rappresenta l’11,3% dei nuclei familiari italiani. Ultimamente si dibatte spesso rispetto al cambiamento subìto dalle famiglie moderne: vengono esposte innumerevoli tesi per poter spiegare cosa lo abbia provocato e queste spaziano da una perdita di valori ed una mancanza di impegno, alla difficoltà economica e lavorativa che non permette un profitto sufficiente al mantenimento del proprio nido familiare. Lo scopo  di questo articolo però non è quello di ricercare le cause della monoparentalità, bensì analizzare tale fenomeno ed indagare gli effetti che può produrre sulla crescita e sullo sviluppo del figlio. Particolare attenzione verrà rivolta alle donne nubili o vedove e alle difficoltà da loro riscontrate nell’accudimento del loro bambino.

La donna: “sesso debole” o semplicemente più esposto al rischio?

famiglia monoparentaleCirca l’80% delle famiglie monoparentali sono composte da donne sole e dai loro bambini. Questo fenomeno si verifica perché, in condizioni di divorzio e separazione, i minori vengono affidati alla madre, generalmente  più disposta a riconoscere e vivere con i propri figli. Ai giorni nostri si verifica quindi un processo di femminilizzazione delle responsabilità familiari, spesso precursore di problemi economici o povertà legati a questo genere di famiglia.  Non tutti i nuclei familiari con a capo una donna  si possono considerare “a rischio” ma è stato statisticamente rilevato che essi sono più vulnerabili dal punto di vista economico e sociale rispetto a quelli presieduti da un uomo. Infatti, mentre la fonte di reddito dei padri rimane principalmente invariata, la donna incorre maggiormente nel pericolo della disoccupazione e del declassamento sociale. In questo ambito è forse inevitabile riconoscere che il sesso femminile sia ancora piuttosto svantaggiato a livello lavorativo: maggiormente legata a compiti o impegni familiari la donna dispone di minor tempo da dedicare alla sua professione e questo la porta inevitabilmente ad un estraniamento dal mondo del lavoro. A ciò si aggiunge in molti paesi, tra cui l’Italia, una scarsa assistenza sociale legata ancora ad un vecchio modello familiare secondo cui è l’uomo ad avere la responsabilità economica della famiglia. La strada davanti alle madri si divide conducendole da una parte all’accudimento dei figli e della casa, dall’altra al contributo per il sostentamento familiare attraverso la sua attività professionale. Inoltre si verifica una penalizzazione del salario femminile le cui cause si potrebbero sintetizzare in tre punti:

  • La prima riguarda il sesso poiché, a parità di capacità o di formazione professionale, lo stipendio medio di una donna è più basso rispetto a quello di uomo.
  • La seconda riguarda l’effetto del matrimonio e del vincolo matrimoniale: sul mercato risultano più avvantaggiati gli uomini che sono stati ,o sono, sposati rispetto alle donne nubili.Sono inoltre svantaggiate le donne che hanno divorziato rispetto agli uomini celibi.
  • La terza si riferisce invece all’effetto della parentalità: ricevono un salario migliore le donne senza figli e i padri di famiglia, rispetto agli uomini senza figli e alle madri di famiglia.

Si spiega quindi perché quando manca una figura maschile di sostegno alla madre, sarà per lei più facile incorrere in difficoltà economiche.

Un problema femminile recente inoltre, si presenta quando il partner della donna non le garantisce l’assegno alimentare e il supporto delle famiglie d’origine, nonostante permetta in principio di superare la separazione, si esaurisce col tempo.

È importante in ogni caso non fare di tutta l’erba un fascio: non tutte le attuali mamme sole infatti hanno alle spalle trascorsi di divorzio o lutto. Molte donne decidono personalmente di affrontare la loro maternità senza un uomo accanto. In questi casi, la decisione razionale implica una valutazione della propria disponibilità economica e della propria situazione professionale che permettano il sostentamento di una famiglia. Il nucleo familiare non sarà allora minacciato dalla povertà nonostante possa incorrere in altri rischi.

I figli della monoparentalità : in bilico tra pericolo e pregiudizio

figli monoparentaliE’ ancora idea condivisa e purtroppo frutto di preconcetti, che la famiglia monoparentale sia inadeguata. Sembra inappropriata a livello sia economico che educativo e vi è la tendenza comune a credere che possa provocare effetti negativi sui figli: si temono ripercussioni psicologiche, devianza, problemi scolastici e di comportamento, persino confusione sessuale. Come precedentemente affermato, i nuclei monogenitoriali possono essere più esposti a rischi proprio a causa della mancanza di un reciproco sostegno tra i genitori e possono incorrere più facilmente in difficoltà economiche, ma questo non significa che siano destinati a diventare patologici e nemmeno che non possano rappresentare una valida alternativa a quelli bigenitoriali.

L’assenza del padre all’interno della famiglia può provocare disagi nei figli come nelle madri e inoltre, fa sì che si verifichi un’influenza reciproca tra questi ultimi tale per cui, il sentimento di insicurezza,depressione o timore della madre diverrà fonte di stress per il figlio e viceversa. La madre sola tende infatti a mettere in atto stili educativi contraddittori che alternano la permissività all’autoritarismo dando luogo all’incoerenza educativa; a quest’ultima può corrispondere un deterioramento del comportamento dei figli i quali manifestano atteggiamenti più aggressivi ma, in ogni caso, eccessivamente dipendenti dal genitore. Interessante inoltre rilevare il fenomeno che si può verificare negli adolescenti e nei bambini più grandi: capita che le mamme inconsapevolmente,  tendano ad instaurare un rapporto con il figlio simile a quello che avrebbero con il loro partner. Il bambino diverrebbe allora il sostituto del padre e il suo ruolo verrebbe letteralmente “parentificato”. Ad una prima analisi il giovane in questione, potrebbe apparire più maturo e responsabile  rispetto ai suoi coetanei ma sperimenterebbe al tempo stesso un senso di solitudine legato alla consapevolezza che il genitore, già carico di insicurezze e delusioni, non rappresenti un saldo punto di riferimento per lui. Questo lo porterebbe a crescere troppo in fretta rischiando di non maturare alcuni importanti tratti di personalità.

Infine, triste ma sempre più frequente verità al giorno d’oggi, con l’aumento dei casi di divorzio e di separazione, si manifestano anche parecchie situazioni in cui al bambino viene assegnato il cosiddetto ruolo del “capro espiatorio”. Egli diventa una vera e propria “valvola di sfogo” per tutti i sentimenti di risentimento, collera e rancore che dovrebbero essere indirizzati all’ex-coniuge.

L’assenza del padre all’interno della famiglia può avere inoltre effetti diretti sulla prole. E’ stata rilevata infatti una differenza rispetto ai sentimenti di sicurezza  tra i  figli cresciuti da una madre sola e quelli vissuti in una famiglia bigenitoriale. I primi sembrano più inibiti, timidi e poco disinvolti. La ricerca del loro bisogno di protezione lascia trasparire inoltre una iper-dipendenza dalla madre che, nella maggior parte dei casi, non si verifica quando l’altro genitore è presente.  La figura paterna non rappresenta inoltre solo un modello di identificazione per il bambino ma anche il detentore della legge, della disciplina e del controllo, colui che ha il compito di introdurre il minore al riconoscimento delle norme sociali. L’assenza di un ruolo maschile all’interno della famiglia può indurre ad una mancanza di limiti al comportamento emotivo del figlio, lasciandolo senza una guida necessaria a modificare le pulsioni e renderle  socialmente accettabili.

Un rischio legato all’assenza paterna riguarda inoltre l’identificazione sessuale del bambino. Alcune ricerche mostrano come i figli maschi che vivono solo con la madre manifestino una scarsa identificazione maschile seguita quindi da una mascolinità compensatoria: si alternano pertanto comportamenti prettamente femminili ad altri esageratamente virili. Gli atteggiamenti femminei sono legati all’imitazione del modo di fare materno, unico esempio a disposizione del figlio, seguito da manifestazioni  aggressive a lui utili come soluzione compensatoria e difensiva. Rispetto invece alle figlie si nota una correlazione maggiore tra l’allontanamento del padre e atteggiamenti sessuali disinibiti delle adolescenti; sono più frequenti in questo caso comportamenti provocanti e di sfida verso gli uomini. Anche questa modalità comportamentale si potrebbe definire compensatoria di una scarsa conoscenza, quindi incertezza dell’altro sesso.

L’ultimo ambito in cui si può rilevare maggiormente l’effetto dell’assenza paterna riguarda lo sviluppo cognitivo del figlio: i padri svolgono un ruolo importante in questo frangente di vita perché ricoprono 2 funzioni essenziali . Innanzitutto la modalità di pensiero maschile è caratterizzata da una prevalenza delle abilità di tipo spaziale ed una predisposizione maggiore per la competenza matematica rispetto a quelle verbali e linguistiche, tipicamente femminili. Questo facilita il figlio, non solo a scuola ma anche nella risoluzione di problemi pratici e quotidiani, completando la sua formazione. In secondo luogo lo stile educativo paterno promuove l’indipendenza e l’iniziativa, essendo complementare al ruolo materno maggiormente protettivo ed avvolgente.

Tutti gli esempi sopra citati sono comunque solo fattori di rischio e non conseguenze certe alla crescita del figlio all’interno di una famiglia monoparentale. Come le ricerche dimostrano si può riscontrare una maggiore incidenza di tali fenomeni  sui figli di madri sole rispetto a quelli vissuti in una famiglia bigenitoriale . Con una giusta considerazione di questi potenziali pericoli e con una certa attenzione da parte dei genitori di un nucleo familiare non tradizionale, tali disagi potrebbero però restare solo eventualità e non trovare un’attuazione nella realtà.

Un padre non si può sostituire! Ma affiancare?

Oggi il ruolo del padre viene considerato di notevole importanza per lo sviluppo del bambino, a differenza degli anni passati: si riteneva infatti che la figura di maggiore rilievo fosse quella della madre e veniva posta  in secondo piano la presenza dell’uomo all’interno della famiglia. Il padre svolge principalmente due compiti nello sviluppo del bambino: in primo luogo rappresenta un appoggio per la madre che, sentendosi rassicurata dalla sua presenza, vive con maggiore serenità il rapporto con il figlio ed acquisisce sicurezza in se stessa. In secondo luogo incarna “l’alterità” per il figlio, permettendogli di interrompere il rapporto simbiotico con la l’altro genitore, intraprendere relazioni sociali e distinguere l’identità individuale da quella collettiva ,ingredienti fondamentali per la ricercadell’ indipendenza. Per quanto riguarda il primo “compito” si può affermare che la presenza di un uomo, anche se diverso dal padre biologico, nella vita della donna, abbia delle ripercussioni positive sullo stato psicologico di quest’ultima. Il figlio da una parte beneficia del benessere psichico della madre e del cambiamento positivo che questo comporta sul loro rapporto, dall’altra puòperò sperimentare un forte sentimento di gelosia e sentirsi trascurato poiché costretto a condividerla con un terzo. Perché il bambino sia in grado di accettare la relazione che assorbe l’attenzione materna, egli deve riconoscere al genitore una vita affettiva slegata dalla propria e combattere la paura di essere abbandonato o rimpiazzato dal suo nuovo compagno.  Alcuni studi hanno cercato di indagare gli effetti positivi apportati da figure maschili, diverse da quella del padre biologico, nella crescita del figlio; è stata presa in considerazione la presenza di uominisia interni ai confini familiari sia invece provenienti dall’esterno.  Tali ricerche hanno svelato come una relazione responsabile instaurata con una figura adulta maschile non genitoriale predica un rendimento scolastico  migliore, livelli di autostima maggiori e una percentuale più elevata del comportamento pro-sociale da parte dei bambini. Tutto questo deriva da un innalzamento del sentimento di autoefficacia derivante dall’incoraggiamento mostrato dalla figura maschile prossima al figlio. Inoltre è stato rilevato come il controllo e le regole esercitate dal padre, o da un altro uomo, possano influire sul comportamento dei bambini e sulla loro autoregolazione interna, creando una diminuzione di problemi comportamentali.

Analizzando gli esiti di questi studi è emerso quindi come le interazioni dei propri figli con i rispettivi padri biologici o con altri uomini, siano importanti anticipatori di un loro sano sviluppo cognitivo e comportamentale. Ecco allora come i nuovi partner materni, nonché padri acquisiti, dimostrino di apportare benefici all’interno del nucleo familiare e non meritino quindi di essere ignorati o avviliti come spesso accadeva nelle pubblicazioni popolari. Alla luce di quanto riportato precedentemente quindi rimane una domanda a cui fornire risposta: due è davvero meglio di uno?

di Alessandra Genta

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