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India: un modello per il riciclo dei rifiuti dallo slum di Bombay

India: un modello per il riciclo dei rifiuti dallo slum di Bombay

Pubblicato 18 febbraio 2014 da redazione

Dharavi.

Dharavi.

Povertà e incertezza

Centotrentamila persone che vivono in appena un chilometro quadrato?

Negli “slum” indiani è possibile. La parola “slum” evoca un’area urbana delimitata, collocata allo stesso tempo all’interno di una città più grande. Un contesto abitativo dove le condizioni di vita sono spaventosamente al di sotto di una soglia ragionevole di accettabilità.

Gli ammassi di baracche e lamiere che compongono il desolato paesaggio detengono il triste primato della più alta concentrazione umana del pianeta.

In queste aree sovrappopolate, così significativamente vive, ma allo stesso tempo fuori dalle dinamiche economiche e sociali del resto del mondo, i bambini crescono senza la traccia di alberi, fiori o farfalle a colorare il paesaggio circostante. Imperversa una miseria tale che la maggior parte delle famiglie deve accontentarsi di poco o nulla per sopravvivere.

In una condizione già di per sé precaria e non sostenibile nel lungo periodo, si muore giovanissimi, con un tasso di mortalità infantile tremendamente alto.

Molti bambini crescono deformati a causa della cattiva alimentazione nonché soggetti a infinite malattie che, per mancanza di infrastrutture e soldi, non possono essere curate.

Gli uomini sono costretti ai lavori più umili per guadagnarsi quei pochi spiccioli necessari per vivere e, nonostante le risorse alimentari scarseggino,  per nutrirei numerosissimi membri della propria famiglia.

In alcuni “slum” dell’India più di venti persone vivono circoscritte in pochi metri quadrati.

Si vive il presente, utilizzando le risorse quotidianamente a disposizione. Manca qualsiasi certezza, i guadagni certi sono pochi e vige la massima precarietà. Si tratta di una delle peggiori condizioni urbane del mondo.

La vita negli “slum” sembra essere concepita  in una  forma circolare, con un susseguirsi infinito di cicli di vita e morte che scorrono con naturalezza tra persone abituate a convivere con le realtà più drammatiche.

 

Dharavi.

Dharavi.

Dalle campagne alle grandi città

Le ragioni del sovraffollamento che si registra negli “slum” indiani sono da ricercare prevalentemente nel secolo passato. A seguito delle forti calamità naturali che hanno devastato le enormi campagne del Paese e dalla mancanza di lavoro nelle stesse, milioni di famiglie sono state costrette a emigrare dalle zone rurali verso le città, allettati da maggiori possibilità di sopravvivenza. Soprattutto nei grandi centri urbani come Bombay, Calcutta e Madras, la popolazione è così letteralmente esplosa. La possibilità di un lavoro per molti è però rimasta un’utopia e i pochi che hanno trovato “fortuna” hanno dovuto adattarsi a condizioni più umili di vita. Nelle grandi città sono andati concentrandosi milioni di operai poverissimi. Il passo verso gli “slum” è stato breve.

 

Dharavi.

Dharavi.

Primi tra i grandi del Pianeta

Lo slum di Dharavi a Bombay ha fama di essere il più grande dell’India, se non del mondo.

Al suo interno vive all’incirca un milione di persone, ma a colpire non è tanto il dato numerico quanto un altro primato: la percentuale di rifiuti riciclata è superiore a quella dei paesi più avanzati del mondo.

I rifiuti che arrivano dal resto della città rappresentano “oro” per la gran parte di chi vi abita.

All’arrivo nello “slum” dei camion dell’immondizia, un’unica massa composta da donne e bambini, insieme con una serie di animali quali capre, maiali e mucche, si lancia sulla montagna di rifiuti, con l’intento di racimolare qualsiasi cosa: plastica, cartoni, dispositivi elettronici usati, sapone, etc.

Tutto ciò che a Bombay viene scartato, è raccolto da qualcun’altro.

L’80% della plastica consumata giornalmente dai 19 milioni di abitanti della città è riciclata all’interno di questo “slum”. Un’enormità, specie se riferita a un contesto geografico come quello indiano dove la sostenibilità ambientale non sembra essere motivo di preoccupazione. Il dato assume proporzioni ancora più impressionanti se confrontato con i numeri di altri paesi: in Gran Bretagna si ricicla il 39% dei rifiuti totali, in Irlanda il 36% e in Italia il 37%. In Europa, solo Austria e Germania sfiorano il 50%.

E non è soltanto la plastica a essere riciclata, bensì molti altri tipi di rifiuti che andrebbero altrimenti a sovraccaricare le già ricolme discariche alle spalle della città.

 

Dharavi.

Dharavi.

Un fiorente modello di business

Se si guarda in profondità ai 175 ettari di vicoletti labirintici e baracche di lamiera, si scopre come lo “slum” di Dharavi a Bombay sia l’artefice di uno dei più efficaci e incoraggianti modelli economici dell’intera Asia. Un business fiorente che, secondo le stime di alcuni economisti, sfiorerebbe il miliardo di dollari l’anno. Le persone coinvolte nel riciclaggio dei rifiuti sono all’incirca 250.000, con più di 15.000 piccole fabbriche mono-stanza capeggiate da 5.000 micro-imprenditori.

Numeri rincuoranti se si pensa che lo smaltimento dei rifiuti e il relativo riciclaggio rimane una questione spinosa pressoché ovunque.

All’interno del più grande “slum” dell’India la parola rifiuto pare non esistere. Lungo le viuzze che serpeggiano tra capanne e baracche, andirivieni di persone gettano sacchi di rifiuti (raccolti dalla discarica) di ogni genere. L’iter che tali scarti dovranno compiere prima di essere riassemblati in prodotti finiti è altrettanto contorto.

La plastica, per esempio, è inizialmente divisa e raggruppata per tipologia di utilizzo (es. tappi, giocattoli rotti, vecchie tastiere ecc.…) e per colore. Essa è successivamente lavata e triturata per poi essere venduta ad altri assemblatori che curano le ultime parti del processo.

I singoli guadagni per l’attività di ricerca e separazione dei rifiuti sono dai 3 ai 5 dollari al giorno.

Il “mercato” del rifiuto è molto vasto: in alcune fabbriche ci si focalizza sulla raccolta dei rifiuti prodotti dal sapone che vengono disciolti in giganteschi recipienti di alluminio per essere trasformati nuovamente in saponette. Altre tipologie di riciclaggio, invece, prevedono il recupero dei cartoni del latte.

 

Dharavi.

Dharavi.

Colori e rumori

L’atmosfera negli “slum” è particolarmente coinvolgente: persone indaffarate in lavori di ogni genere, suoni di sottofondo tra i più diversi, martellate, saldature e trapanate provenienti da una bottega, metri di batterie di macchine accatastate in un’altra, fili da attaccapanni e pezzi di ferri da stiro in un’altra ancora.  È un circolo sempre uguale a se stesso: consumo – riciclo – consumo.

In aree urbane così minacciate dalla povertà, regna un senso di solidarietà e fratellanza fuori dal comune (considerata la massa di gente che vi abita). La religione plasma la vita e le abitudini degli uomini. L’intimità è cosa sconosciuta e i bambini “colorano” ogni angolo delle strade.

La particolarità di simili luoghi si ritrova nelle attività, frutto del lavoro e delle braccia dell’uomo, che non si avvale in nessun caso di macchine, ma solo di utensili rudimentali.

Non si comprende però perché, nonostante questo fiorente business, le condizioni di vita degli abitanti dello “slum” siano ancora perlopiù precarie e incerte.

Prima di tutto, vista la numerosità dei lavoratori, ognuno deve accontentarsi di un piccolissimo ruolo nella vita sociale, eseguendo una piccola parte dell’attività complessiva.

In secondo luogo, la maggior parte delle operazioni di riciclo dei rifiuti rimane illegale, sia per la bassa concessione di licenze governative, sia per l’alto prezzo da pagare per la regolarizzazione delle stesse.

La situazione provoca il flusso di capitali verso organizzazioni più potenti e di stampo mafioso che controllano ogni aspetto della vita dello “slum” e gestiscono gran parte della produttività realizzata.

In più, all’interno di queste aree difficilmente si può fare business e mettere in pratica idee imprenditoriali personali con il solo sforzo individuale, poiché vi è una forte mancanza di fondi da investire (sopraggiungeranno con più facilità dal tipo di organizzazioni sopracitate).

 

Le ragioni per credere

Esistono tuttavia barlumi di speranza. Lo stipendio medio di un lavoratore ha nettamente superato quello derivante dalla vita agricola.

I flussi di capitale pervenuti attraverso il riciclo dei rifiuti, sebbene non tutti finiscano nelle tasche dei lavoratori, hanno creato una nuova classe sociale che può permettersi anche il risparmio,  ritenuto impensabile fino a qualche anno fa.

In alcuni angoli dello “slum”, si sono visti addirittura i primi ATM.

Le speranze più recenti provengono dal crescente interesse delle istituzioni internazionali, che solo negli ultimi 15-20 anni hanno seriamente cominciato a prendersi cura delle condizioni di vita degli abitanti dei vari “slum” in giro per il mondo.

di Andrea Cecchi

 

Bibliografia:

La città della gioia, Lapierre

Shantaram, Gregory Roberts

 

Linkografia:

http://www.sustainablebusinesstoolkit.com/dharavi-indias-recycling-slumdog-entrepreneurs/

http://www.theguardian.com/environment/2007/mar/04/india.recycling

http://www.youtube.com/watch?v=Im0tHRs9Bng&hd=1

 

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“Made in Slums. Mathare Nairobi” a Milano.

“Made in Slums. Mathare Nairobi” a Milano.

Pubblicato 25 novembre 2013 da redazione

 

Made in Slums

Brocche, trappole per topi, ferri arricciacapelli, mestoli, fornelli, pentole, bidoni: oggetti di vita quotidiana realizzati riciclando tutto ciò che popola una delle baraccopoli più affollate dell’Africa: Mathare Nairobi.

Cos’è il design?

Il termine “design”, diffuso in Italia dalla metà del secolo scorso, è l’abbreviazione dell’espressione inglese industrial design (disegno industriale) che si riferisce alla progettazione di oggetti che si producono in serie attraverso le filiere industriali; sono oggetti di uso quotidiano, complementi d’arredo, come lampade, sedie, utensili ed elettrodomestici. La progettazione di questi prodotti è il risultato di una sintonia perfetta tra forma e funzione, che non predilige uno solo dei due aspetti, ma li valuta e li sviluppa parallelamente nell’iter progettuale, in modo che risultino totalmente integrati nel prodotto finale; è un’integrazione tra l’aspetto tecnologico-funzionale e la qualità estetico-formale.

Se un oggetto già esistente viene solo “rivisitato” a livello estetico, senza apporti tecnici né funzionalità significativi, si può parlare di redesign o styling, ossia di un’azione di «cosmesi» – così definita dal critico d’arte Gillo Dorfles – tesa a rinnovare l’immagine dell’oggetto per incentivarne il consumo, senza formulare però un nuovo progetto.

Il design abbraccia anche la relazione tra il prodotto, il suo consumatore, l’intero progetto di un prodotto e lo studio del suo processo costruttivo, compreso il suo ciclo di vita. Il design di un manufatto è quindi il risultato dell’analisi di tutte le caratteristiche progettuali che definiscono il prodotto stesso e che racchiude in sé un insieme di studi egonomici, di utilizzo, la pre-produzione, l’impatto ambientale, la dismissione, i costi, la scelta dei materiali e delle loro proprietà, dei rivestimenti, le proprietà meccaniche e strutturali, ecc.

3_slum4_slumGli Slum e le nuove povertà urbane.

Nelle pagine de La città della gioia, di Dominique Lapierre, si legge:  “Su uno spazio appena tre volte più grande di un campo sportivo si accalcavano più di settantamila abitanti, vale a dire circa diecimila famiglie geograficamente ripartite a seconda della loro religione.[…] [La Città della gioia] deteneva il triste primato della più alta concentrazione umana del pianeta: centotrentamila abitanti per chilometro quadrato.[…] L’aria era talmente impregnata di ossido di carbonio e di zolfo che l’inquinamento causava la morte di almeno un membro di ogni famiglia. La canicola pietrificava uomini e bestie per gli otto mesi dell’estate e il monsone trasformava stradine e catapecchie in laghi di fango e di escrementi. Fino a un passato recente, lebbra, tubercolosi, dissenteria e tutte le malattie da carenza riducevano la speranza di vita a uno dei livelli più bassi del mondo.[…] Ma la Città della gioia era soprattutto un luogo dove imperversava la più estrema miseria economica. Nove abitanti su dieci non avevano una rupia per comprarsi trecento grammi di riso”.

Il termine inglese slum comprende il significato tradizionale di aree residenziali che in passato erano rispettabili o persino attraenti, ma che col tempo si sono deteriorate a causa dell’abbandono degli abitanti originali emigrati verso nuove e migliori aree della città. La condizione delle vecchie abitazioni è degenerata e le unità abitative sono state progressivamente frazionate e affittate a gruppi a bassa rendita. Un esempio è quello degli slum nei centri di molte città storiche sia di paesi industrializzati sia in via di sviluppo. In italiano tale significato può somigliare a quello di bassifondi, baraccopoli o ghetti. In genere l’espressione di questo termine è venuta a includere anche i vasti insediamenti informali che stanno rapidamente divenendo l’espressione più manifesta della povertà urbana. La qualità degli alloggi in questi insediamenti varia da semplici baracche a strutture permanenti, in cui i servizi primari come acqua, elettricità, servizi igienici e altre infrastrutture e servizi di base sono pressoché limitati.

La creazione degli slum è strettamente collegata ai cicli economici, le tendenze nella distribuzione nazionale del reddito e, negli anni più recenti, alle politiche nazionali di sviluppo economico. Secondo il rapporto, la natura ciclica del capitalismo, l’aumentata domanda di mano d’opera specializzata contro quella non specializzata e gli effetti negativi della globalizzazione (in particolare i boom e i fallimenti economici che hanno gradualmente aumentato la disuguaglianza e distribuito nuovo benessere in modo irregolare) hanno contribuito all’enorme aumento degli slum. Lo sviluppo degli slum è sostenuto dalla combinazione di una rapida migrazione dalle aree rurali verso le città, una vertiginosa crescita della povertà urbana, l’incapacità per i poveri delle città di accedere a prezzi sostenibili a terreni dove stabilire un alloggio e il possesso non garantito delle terre occupate.

2_slumDesign del bisogno.

Esiste il “nostro” design, quello che viene pensato, progettato, realizzato in cicli produttivi, criticato e diffuso. Esiste poi un design che nasce per bisogno, in un mondo a noi distante che quasi non conosciamo: è quello dei paesi poveri. La mostra “Made in Slums. Mathare Nairobi” in corso alla Triennale di Milano fino all’8 dicembre 2013 racconta, dopo le esperienze di Cina, Corea e India, le esperienze dei territori più degradati della progettazione internazionale.

La protagonista del design è Mathare, una baraccopoli poco distante da Nairobi, che conta circa 500mila abitanti, in cui la genialità della comunità sopperisce alle mancanze del territorio con un originale processo di autoproduzione di oggetti d’uso quotidiano, utilizzando materiali del luogo e di scarto.

Il progetto della mostra è nato con il coinvolgimento del designer Francesco Faccin in un progetto di cooperazione dell’ONG “Liveinslums” atto allo sviluppo attraverso la realizzazione di attrezzature e arredi di una scuola con materiali e mano d’opera locale.

In questo luogo, racconta il curatore della mostra Fulvio Irace, «come nell’isola di Robinson Crusoe, lungo le frontiere di una spiaggia virtuale, la marea deposita gli scarti della capitale: pezzi di legno, insegne pubblicitarie, tavole, lamiere e soprattutto bidoni, l’elemento base di un progetto di riciclo minuzioso ed efficace». Da qui nasce un’industria informale, imposta dalla necessità e dalla povertà, in cui nemmeno chi crea l’oggetto sa che potrebbe trattarsi di un manufatto di design. E invece anche questo è design, quello fatto di forme giustificate e migliorabili, dotate di una forza misteriosa e senza regole; gli oggetti sono contemporanei, ma allo stesso tempo rivelano un carattere antico, sono seriali, ma discendono da una tradizione primitiva. Un design povero, dunque,  ma ricco di creatività.

0_slumTutti i prodotti sono pensati per una filiera piccola e corta, che si vende e si consuma nello stesso luogo.

L’esposizione è allestita, oltre che dagli oggetti anche da una serie di video che mostrano le fasi realizzative dei vari manufatti, il reportage sulla costruzione di una scuola realizzata in terra cruda, tecnologia locale e rurale che apporta i benefici di economicità e frescura dei locali, nonché la realizzazione dell’argine di un fiume, per proteggersi dalle piene ed evitare l’erosione del suolo.

Gli oggetti esposti, nel complesso, sono riconducibili alla semplicità e funzionalità, che lo svolgimento delle ordinarie attività quotidiane, necessita:

–       Chicken feeder, oggetto pensato come distributore “automatico” di cibo per galline, realizzato in lamiera piegata e verniciata, in cui il becchime cala di livello a mano a mano che viene mangiato;

–       Mukokoteni, un carrello a tre ruote per venditori ambulanti, solitamente usato per la vendita di uova e salsicce;

–       Mtengo ya mtandao, una trappola per topi creata con rete metallica di recupero, elettrosaldata, in lamierino metallico;

–       Chungu, una pentola realizzata da lastre di alluminio antiscivolo industriale, spesso recuperato da auto safari;

–       Benki, scatola in lamiera usata come “salvadanaio”, solitamente per i soldi necessari per il funerale di un familiare;

–       Akala shoes, sandali ottenuti dalla gomma di copertoni;

–       Thong, ferro arricciacapelli realizzato tramite forgiatura del ferro;

–       Yamafuta, brocche ricavate da tubi di grondaia.

L’ingegnosità e la creatività di queste “comunità slum” sorprende e affascina, ma al contempo contrasta fortemente con le società e le realtà occidentali, ricche e per certi versi opulente, in cui il prodotto serve più spesso a soddisfare bisogni pressoché consumistici che necessità quotidiane e reali.

di Annamaria Rivolta

Linkografia:

http://it.wikipedia.org/wiki/Disegno_industriale

http://www.klatmagazine.com/design/francesco-faccin-made-in-slums-interview/10481/attachment/klat_madeinslums_-filipporomano_streetsellers_06

http://design.repubblica.it/2013/09/26/creativi-per-necessita/

http://www.massacritica.eu//?s=slum+di+calcutta&x=9&y=6

Bibliografia:

“La città della gioia” di Dominique Lapiere.

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Le Megalopoli della Terra, un vero esempio di condivisione e sostenibilità.

Pubblicato 07 gennaio 2020 da redazione

Per la prima volta nella storia dell’umanità assistiamo oggi ad una forte concentrazione di individui in grandi città. La tendenza al diffondersi dell’aggregazione urbana, iniziata già ai tempi degli antichi imperi egizi, greci e romani, nel corso del tempo è dilagata inesorabile in tutto il globo fino a raggiungere numeri incredibili ed inimmaginabili. Nel solo secolo scorso si è passati da 250 milioni complessivi di cittadini urbani a quasi 3 miliardi e si prevede che entro il 2050, su una popolazione mondiale ipotizzata di 9 miliardi di persone, gli abitanti urbani diverranno 6 miliardi. Le conseguenze di questa nuova realtà amplificano e circoscrivono meglio le necessità umane delle diverse classi sociali e al tempo stesso offrono maggiori opportunità. L’acqua, poca o tanta è distribuita a tutti, le condizioni igeniche e le cure sanitarie sono contenute in standard minimi garantiti, e sebbene i grandi centri urbani subiscano maggiormente le eventuali concentrazioni di fattori inquinanti, paradossalmente sono quelle che ne producono di meno, grazie agli spazi residenziali decisamente più compatti di quelli delle comunità decentrate o agricole. Anche i veicoli destinati al trasporto di persone sono in numero inferiore, grazie ai mezzi pubblici o alla semplice vicinanza dei luoghi da raggiungere. E la ricerca di soluzioni ambientali, più vantaggiose per il pianeta, sono più facilmente delineabili e sperimentabili nelle grandi megalopoli, dove possono nel tempo essere migliorate, e costituire al tempo stesso nuovi modelli di stili di vita per l’intera umanità. Se a questo si aggiunge il potenziale di comunicazione fornito dal mondo virtuale della rete, che amplifica in tempo reale lo scambo di idee, proposte e progetti, se può tornare a sperare nel rapido sviluppo  di un progetto di vita comune e sostenibile.

Nel corso dei prossimi numeri cercheremo di andare a scoprire, una per una, le grandi megalopoli esistenti, le loro criticità e cosa stanno facendo per affrontarle.

Delhi, tra le città più popolate del mondo

La città di Delhi, che fino all’inizio del 900 contava solo mezzo milione di abitanti, oggi ne raggiunge quasi 15 milioni, diventando così una tra le più grandi megalopoli del mondo. Situata a nord dell’India, nel cuore della pianura del Gange, lungo le rive del fiume Yamuna, Delhi si estende su un’area di circa 1500 km², occupata al 50% dalla zona urbana della città e per il restante da quella agricola. Il territorio è suddiviso in 9 distretti, ripartiti a loro volta in 3 zone secondo questo schema:

1. Delhi Centro con Darya Ganj, Pahar Ganj, Karol Bagh;

2. Delhi Est con Gandhi Nagar, Preet Vihar, Vivek Vihar (con l’enclave di Vasundhara);

3. Nuova Delhi con Connaught Place, Parliament Street, Chanakya Puri;

4. Delhi Nord con Sadar Bazar, Kotwali, Civil Line;

5. Delhi Sud con Kalkaji, Defence Colony, Hauz Khas;

6. Delhi Nord Est con Seelampur, Shahdara, Seema Puri

7. Delhi Sud Ovest con Vasant Vihar, Vasant Kunj, Najafgarh

8. Delhi Nord Ovest con Saraswati Vihar, Narela, Model Town

9. Delhi Ovest con Patel Nagar, Rajouri Garden, Punjabi Bagh

L’area urbana è percorsa da oltre 6 milioni di veicoli, compresi i trasporti pubblici di superficie e le auto rickshaw a gas, e quella extraurbana da almeno 12 milioni a cui si aggiungono, linee ferroviarie suburbane, una rete metropolitana molto articolata che entro il 2020 dovrebbe superare quella londinese, con una estensione prevista di oltre 400 km e l’Indira Gandhi International Airport, per i voli interni e per quelli internazionali, uno tra gli aeroporti più trafficati del mondo, destinato a raggiungere una capienza di oltre 100 milioni di passeggeri annui.  A causa del forte inquinamento dell’aria tutti i veicoli destinati al trasporto pubblico sono alimentati rigorosamente a gas.

Burocrazia e corruzione

La città offre tutti gli aspetti e le spigolosità di una grande megalopoli e costituisce uno tra i più importanti osservatori di flussi migratori provenienti dalle zone agricole più povere del nord del paese, che lasciano le loro comunità rurali per la drammatica scarsità di acqua che pregiudica i raccolti e mina in modo irreversibile la sopravvivenza di interi clan familiari, spingendo gli individui più giovani verso le grandi città vicine alla ricerca di nuove fonti di sostentamento. Così Delhi continua a crescere e ad ammassare moltitudini di poveri, spesso costretti a vivere in strada o negli slum, piccolissimi rioni urbani, simili a bidonville, in cui vivono ammassati come sardine decine di migliaia di persone, come quello di Calcutta in cui su uno spazio appena tre volte più grande di un campo sportivo si accalcano più di 70000 abitanti. La città, come molte altre è annualmente attraversata, tra luglio e agosto, dai monsoni con forti esondazioni del fiume Yamuna e notevoli disagi e rischi per i quartieri più poveri della città. Anche l’escursione termica, passando da 0 °C, d’inverno, a quasi 50 °C in estate e una percentuale di umidità che arriva tranquillamente al 100%, rende la sopravvivenza molto difficile. L’altissima densità umana odierna ha però radici antiche che risalgono ai lontani imperi medioevali. Fra i più recenti quello di Moghul, di cui ne fù la capitale per oltre due secoli, e alla fine dei quali nel 1911, dopo varie traversie, passò sotto il dominio dei coloni inglesi. Solo nel 1947, quando l’India ottenne l’indipendenza dal dominio britannico divenendo una repubblica, la città venne eletta capitale del paese, sede dell’attuale governo e parlamento indiano. Per gestire la città e i servizi l’amministrazione si avvale di più di 620.000 dipendenti pubblici e 219.000 provenienti dal privato. L’apparato burocratico che ne scaturisce è tra i più corrotti del mondo e per ogni pratica, dalla più semplice alla più complessa il tarriffario extra da pagare è estremamente variegato e calibrato sulla capacità di spesa di ogni singolo interessato. Si paga per qualsiasi cosa e ogni questione è sostanzialmente gestita e arbitrata in maniera indiscriminata. A questo si aggiunge poi una forte repressione che impedisce alle classi più deboli di migliorare la loro condizione, in molti casi di semischiavitù, come nel 1984 quando durante alcuni disordini vennero uccisi 3000 sikh. Ciònonostante Delhi costituisce insieme a Bombay una delle due piazze commerciali più importanti dell’Asia, caratterizzata da un forte trend di crescita occupazionale in costante miglioramento, favorito anche dagli investimenti di società multinazionali che investono sia nel settore dei servizi, sia in quello manifatturiero, contando sulla disponibilità di risorse produttive competenti, a basso costo e con una buona conoscenza della lingua inglese. E nonostante la povertà sia molto diffusa, la struttura urbana offre indubbiamente più benefici di quelli che si potrebbero ottenere in un vilaggio o in una fattoria periferica. Permette alle donne di uscire da un destino di nascita già segnato lasciandole concorrere a un maggior sviluppo delle loro capacità e abilità, offre ai bambini un reale percorso di alfabetizzazione e istruzione e permette a grandi moltitudini di diseredati di rivendicare il loro diritto alla vita.

di Adriana Paolini

leggi anche: La città della gioia di Dominique Lapierre

… ” Trecentomila naufraghi della città del miraggio vivevano come le nostre due famiglie. Gli altri si ammucchiavano nell’intrico delle catapecchie dei suoi tremila Slum. Uno slum non era esattemente una bidonville, semmai una specie di miserabile città operaia abitata unicamente da profughi delle zone rurali. Vi si trovavano riunite tutte le premesse per portare gli ex contadini alla degradazione: sottoccupazione e disoccupazione croniche, salari terribilmente bassi, lavoro inevitabile dei bambini, risparmio impossibile, indebitamento insanabile, beni privati dati in pegno e definitivamente perduti a più o meno breve scadenza; scorte alimentari inesistenti e necessità di acquistare quantità piccolissime: 10 centesimi di sale, 25 centesimi di legna, un fiammifero, un cucchiaio di zucchero; mancanza assoluta di intimità: una sola stanza per dieci dodici persone. Ciò nonostante il miracolo dei ghetti lager era l’accumulo dei fattori catastrofici che vi si trovava, equilibrato da altri fattori che permettevano ai loro abitanti non solo di rimanere pienamente uomini, ma altresì di superarsi e diventare uomini-modello-di-umanità. Nelle bidonville si praticavano l’amore e l’aiuto reciproco, la spartizione con chi era più povero, la tolleranza verso ogni fede o casta, il rispetto per il forestiero, la giusta carità per i mendicanti, gli infermi, i lebbrosi e perfino i pazzi. I deboli venivano aiutati invece di essere annientati, gli orfani immediatamente adottati dai vicini, i vecchi presi a carico e venerati dai figli”.

guarda anche …

http://www.mherrera.org

http://www.urbanrail.net/as/delh/delhi.htm

http://www.prb.org/Articles/2007/delhi.aspx

http://news.bbc.co.uk/2/hi/south_asia/4389563.stm

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