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Viviamo in una società che invecchia di più e nasce di meno

Pubblicato il 08 maggio 2015 da redazione

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Dal  1840 in poi l’aspettativa di vita è aumentata di tre mesi all’anno. A quei tempi una donna poteva arrivare a 45 anni, oggi ne traguarda tranquillamente 83. Secondo le previsioni statistiche è probabile che entro la metà di questo secolo si passerà a 88 anni ed entro la sua fine si festeggeranno i cento anni di età.

Le ragioni di questa novella longevità non sono ancora chiare, ma è una tendenza osservabile su tutto il globo, indipendente dalla ricchezza o povertà di un paese, dal grado di sanità raggiunto o dalla minor frequenza di conflitti armati in corso. Se poi la biogenetica darà un’ulteriore spinta, questa tendenza potrebbe anche accelerare.

Nel frattempo i ricercatori cercano il farmaco dell’elisir di lunga vita, capace di rallentare l’invecchiamento. Sta infatti ormai prendendo piede l’idea che molte malattie, come per esempio cancro, Alzheimer, ictus e aterosclerosi, dipendano sostanzialmente dall’invecchiamento. Anche nel campo della genetica si sta cercando di capire come replicare il proprio sé stesso per un tempo il più lungo possibile.

Google stesso ha fondato nel 2013 una società, la California Life, che si occupa di studiare le ragioni dell’invecchiamento e di come riuscire a prolungare la vita. Sarebbe un modo per contrastare il trend, in rapido aumento, che vede un calo generalizzato delle nascite. Ma vivere più a lungo comporta un costo sociale che non era stato previsto e una maggior spesa pubblica destinata ai servizi e alle cure mediche per gli anziani.

Nel Buck Institute, in California, nato grazie a un pacchetto di azioni petrolifere lasciate, dai coniugi Buck, ad una fondazione con lo scopo preciso di studiare e capire perché le persone invecchiano, ora stanno studiando i lieviti. Il lievito ha un corredo cromosomico per un terzo uguale a quello dell’uomo ed è stato osservato che eliminando alcuni geni muore più in fretta, mentre eliminandone altri vive più a lungo.

Sempre nel Buck Institute, genetisti sono comunque riusciti a quintuplicare la durata della vita dei vermi e a eliminare le disfunzioni cardiache che insorgono con l’età . Hanno anche osservato che somministrando, in trasfusione, sangue di giovani topi in esemplari più vecchi e malati, questi ringiovaniscono. Ora stanno cercando di capire quali sono le molecole presenti nel sangue dei topi giovani che riattivano le cellule dormienti di quelli più vecchi, per poi riprodurle sinteticamente ed evitare le trasfusioni.

Anche la dieta ipocalorica si è dimostrata molto efficace nell’allungare la vita, ma sopportare i crampi della fame tutto il giorno non è certo una condizione di vita ottimale. In ogni caso, controllare il peso, arricchire la dieta di frutta e verdura, ridurre gli zuccheri, fare attività fisica regolarmente e dormire un numero di ore sufficienti, mantiene di sicuro il corpo in buona forma.

 

Perché si vive più a lungo

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Al momento la scienza non è ancor arrivata ad attribuire con precisione l’età a una persona in modo scientificamente esatto, se non con uno scarto per difetto o per eccesso di una ventina d’anni, o più semplicemente leggendo i dati anagrafici. Unico indizio oggettivo osservabile l’invecchiamento dei tessuti, o se preferite di intere colonie di cellule, che invecchiando non sempre funzionano bene, soprattutto nelle fasi di riparazione cellulare, alla base di molte malattie dell’invecchiamento e più frequenti dopo i cinquant’anni.

Un altro indizio è che da 1840 il trend di maggior aspettativa di vita è sempre, costantemente, migliorato e se si pensa che nel paese delle stelle e strisce la mortalità infantile è di un solo caso ogni 170 nati, non c’è più molto da migliorare.

Anche guarire di cancro non alzerebbe la vita media che di qualche anno. Unico inciso, si è osservato che gli avventisti del settimo giorno hanno un’aspettativa di vita superiore alla media di una decina d’anni, dovuta con molta probabilità al loro stile di vita: non bevono, non fumano, sono vegetariani, si riposano un intero giorno alla settimana, fanno attività fisica regolare e soprattutto vivono in grandi gruppi sociali che li obbligano a una continua interazione. Anche quelli sposati vivono più a lungo dei singol, e soffrono meno di ictus e di infarto.

 

Perché bisogna mantenere in buona salute gli anziani

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Si calcola che nel 2040 i 65enni americani che oggi sono circa 43 milioni, arriveranno a 108 milioni. Mentre quelli dagli 85 anni in su potrebbero quintuplicare e raggiungere il 6% della popolazione complessiva.

Il problema è che insieme al numero dei sopravvissuti sale anche la solvibilità della previdenza sociale, che avrà tra i tremila e gli ottomila miliardi di surplus di spesa non coperta. Unica possibilità, evitare che all’invecchiamento si sommi l’invalidità, spesso conseguente.

Oggi i malati di Alzheimer, negli State, costano ogni anno 150 miliardi di dollari. Nel 2050 il numero di malati potrebbe triplicare e lo stato dovrebbe stanziare una copertura economica pari a quella per la difesa. Anche le famiglie avranno più di un nonno a carico.

Si dovrà per forza rivedere l’età di pensionamento e i contributi necessari da accantonare in funzione degli anni da godere senza lavorare. Qualcuno pensa che forse sarebbe meglio programmare una dismissione graduale dal lavoro, passando dal tempo pieno al part-time, fino a collaborazioni occasionali.

Anche le università un domani saranno frequentate da generazioni di età diverse e per motivi diversi. Qualcuno ha anche scritto che il lungo periodo di pace che stiamo vivendo è forse dovuto a una società che invecchia di più e nasce di meno. I vecchi solitamente sono naturalmente più soddisfatti delle generazioni più giovani. I vecchi consumano meno e sono anche meno attratti dai beni consumistici e alla moda. Sono meno tormentati da problemi sentimentali o estetici e traggono la loro maggior consolazione dai ricordi e dall’amiciza, così la memoria è la loro ricchezza maggiore e l’amicizia una seconda famiglia con cui condividere la fine della propria esistenza.

 

E se in pensione non ci vuoi andare?

vecchio docente

Immaginate di essere un’importante scienziato o comunque un ricercatore, impegnato da decenni su una ricerca genetica, costata soldi (spesso molto difficili da trovare) e l’impegno di molti altri colleghi, e di ricevere un giorno una lettera dal direttore del personale che vi comunica che a breve verrete sollevati dall’incarico, per sopraggiunto limite di età, diciamo entro i prossimi 5 anni. Fatti due conti realizzerete ben presto di non avere abbastanza tempo per riuscire a concludere il vostro lavoro ne quello che servirebbe per passare il testimone a qualcun altro. Che Fare?

Questo succede a molti ricercatori che dopo anni di studio e impegno, finalmente, intorno ai 65 anni, ricevono, dalle istituzioni pubbliche, le tanto agognate sovvenzioni. Tra il 1998 e il 2004 la casistica è più che raddoppiata e le sovvenzioni sono passate dal 4% al 12%. Sembra una buona notizia, ma non è così.

La questione non pone il semplice dilemma se procedere nella ricerca o andare in pensione, ma costituisce di per sé un paletto di arresto per molti giovani scienziati che chiedono strada per nuovi posti di lavoro o per semplici borse di studio. Così quest’anno il National Institutes of Health (NIH) ha deciso di premiare quegli scienziati che passeranno la mano ai ricercatori più giovani.

La proposta, però, è stata per lo più rifiutata e con forte disapprovazione. Molti hanno,infatti, sottolineato che si è data troppo importanza all’età e troppo poca ai meriti scientifici di una vita di lavoro e che per creare nuovi posti di lavoro se ne sarebbero dismessi molti altri già consolidati. A volte, in effetti, un dipartimento scientifico può contare diverse decine di persone, il cui contratto è subordinato unicamente a un progetto di ricerca in corso, finito il quale, tutte le posizioni lavorative in essere, giocoforza, si azzerano.

Le opinioni sono state comunque molte e a volte discordanti: “Se non si riesce a trasferire un’intero bagaglio di conoscenze e risorse in 40 anni di carriera, a cosa servirebbe disporre di più tempo.”, “Qual è quel professore emerito che può affermare in tutta onestà, di non sapere che prima o poi sarebbe andato in pensione?”

Certo le realtà lavorative in ogni paese sono diverse, così come sono diversi i problemi che gli scienziati più anziani devono affrontare in termini di regole, cultura ed età di pensionamento. Alcuni sono ben contenti fin da subito, altri si precipitano a chiedere le massime proroghe possibili. In Germania è possibile prolungare l’età del pensionamento fino a 68 o anche 71 anni.

Nel 2007, la Corte Europea ha stabilito che nell’Unione europea (UE) si possono obbligare i lavoratori ad andare in pensione, in modo da liberare nuovi posti di lavoro e ridurre la disoccupazione dei lavoratori più giovani. Ma non ci sono prove che un tale approccio funzioni. Gli studi suggeriscono, infatti, che una maggiore occupazione delle persone anziane induce una maggiore occupazione e salari più alti per i lavoratori più giovani. Alcune persone, obbligate a un pensionamento forzato, scelgono di lasciare il paese e magari non passare o pubblicare, gli ultimi dati ottenuti dalla ricerca ancora in corso, che potrebbero essere i più importanti, e dedicarsi al golf…

Poi c’è anche chi si butta in affari, come il biologo giapponese, Norio Nakatsuji, studioso di cellule staminali, che compiuti 65 anni si dedicherà a tempo pieno ha una società di biotecnologie, di cui è cofondatore, la ReproCELL di Yokohama. Veramente Nakatsuji, utilizzando 2 milioni di dollari dei suoi guadagni, ha fondato due società legate alle cellule staminali: una di consulenza che fa da ponte fra il mondo accademico e quello industriale, e un’altra di biotecnologia che sta sviluppando dei dispositivi di riconoscimento di sostanze stupefacenti con le cellule staminali del muscolo cardiaco.

In Giappone gli incarichi accademici disponibili per i laureati sono molto pochi. Nel 2014 la Società Giapponese per la Promozione della Scienza, la più grande agenzia di finanziamento scientifico del paese, ha concesso solo 362 borse di studio post-dottorato, complessive di tutti gli ambiti, su 3.222 domande pervenute. La maggior parte dei dottori di ricerca che non ricevono la borsa di studio accettano lavori a breve termine presso università o enti pubblici di ricerca. Questa situazione dipende sostanzialmente dagli esaminatori, quasi sempre molto anziani, che solitamente hanno svolto questo ruolo per molto tempo e che non cedono il passo facilmente.

Negli Stati Uniti, lavorare oltre l’età pensionabile è diventata la regola piuttosto che l’eccezione.

Tanté che la legge degli Stati Uniti, a partire dalla fine del 1970 ha gradualmente iniziato ad eliminare il pensionamento obbligatorio, per poi abolirlo nel 1986, e dal 1994 anche le istituzioni accademiche hanno dovuto conformarsi. Questi trent’anni  costituiscono quindi un periodo abbastanza lungo di osservazione, durante il quale si è visto che senza una “spinta” forzata a fermarsi, la gente lavora spontaneamente più a lungo.

Secondo la National Science Foundation, la percentuale di scienziati e ingegneri, di età superiore ai 50 anni, che negli Stati Uniti lavorano è aumentata da 1 a 5 nel 1993 e da 1 a 3 nel 2010: insegnano, lavorano nelle amministrazioni e fanno ricerca.

Il 54% degli occupati, di età compresa tra i 50 e i 65 anni affermano di lavorare per loro scelta e molti altri, che l’età della pensione l’hanno ampiamente superata, proseguono nella loro ricerca scientifica come volontari non pagati presso le università dove hanno insegnato per anni, e dove conservano ancora i loro vecchi uffici.

Ma siamo sicuri di voler vivere così a lungo. Dopotutto la convinzione umana che la morte debba essere per forza posticipata nel tempo, e il più possibile, non appartiene alla natura. Ma ormai dal mondo della natura siamo molto distanti e sempre più estraniati.

di Adriana Paolini

 

Linkografia:

http://www.nature.com/news/the-retirement-debate-stay-at-the-bench-or-make-way-for-the-next-generation-1.17487

http://www.theatlantic.com/features/archive/2014/09/what-happens-when-we-all-live-to-100/379338/

Il declino della violenza. Perché quella che stiamo vivendo è probabilmente l’epoca più pacifica della storia, di Steven Pinker, Mondadori 2013.

 

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