Categoria | Politica-Economia

Obsolescenza programmata

Pubblicato il 29 gennaio 2014 da redazione

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Anche gli oggetti hanno una data di scadenza

Vi siete mai chiesti perché molti oggetti, dai giocattoli, dai telefonini alle sedie, moltissimi prodotti di uso quotidiano sembrino avere una durata limitata?

E perché un prodotto poco dopo esser stato lanciato sul mercato venga sostituito dalla stessa società produttrice con un altro dalle prestazioni sì migliori, ma non tali da richiederne la sostituzione?

Mentre i pezzi di ricambio per il modello precedente diventano introvabili e le riparazioni talmente costose da rendere più economico l’acquisto di un nuovo prodotto.

E’ un dato di vita quotidiana.

Eppure il progresso tecnologico, dalla rivoluzione industriale e capitalista che ha dato vita alle produzioni di massa dovrebbe aver garantito una evoluzione in questo senso.

Secondo molte teorie di eminenti economisti e pensatori politici, la competizione nel mercato tra i produttori avrebbe portato a prodotti sempre migliori e sempre più soddisfacenti per accaparrarsi il favore degli acquirenti. Ma dopo ben oltre un secolo non sembra essere proprio andata così… Vi è una corrente di pensiero economico secondo la quale limitare la durata nel tempo degli oggetti o continuare nell’evoluzione dei modelli in produzione sia indispensabile a garantire alla società consumistica il flusso vitale fra domanda e offerta, cioè la sopravvivenza della stessa e la sua continua crescita.

Questa linea di pensiero è stata definita obsolescenza programmata ed ha la sua origine già all’inizio secolo scorso. Ma se questa teoria sia applicata o meno ancora oggi dai grandi produttori di beni di consumo a livello mondiale è oggetto di un forte dibattito. E, soprattutto, la coscienza che il pianeta si stia avvicinando al tracollo ambientale per il dissennato e iniquo sfruttamento delle sue risorse, renderebbe una tale filosofia produttiva addirittura nociva verso la stessa economia industriale.

La prima vittima dell’obsolescenza programmata, la lampadina.

Immagine 1La lampadina centenaria è una vera celebrità internazionale ormai. Prodotta in un lotto del 1895, donata assieme ad altre dall’imprendiore Dennis Bernal al corpo dei pompieri di Livermore, in California, nel 2001 è stata festeggiata con una vera e propria festa di compleanno, celebrata come uno degli oggetti tecnologici più antichi al mondo. E’ entrata nel Guinness dei primati ed è ripresa in tempo reale da una webcam, nonostante produca una fioca luce di soli 4 Watt rispetto agli originari 60 Watt.

 

 

Dopo che il grande inventore Thomas Alva Edison nel 1871 aveva dimostrato che si poteva produrre luce attraverso l’energia elettrica, iniziando con la sua stessa compagnia la produzione di lampadine e lumi, pochi decenni dopo, all’inizio del 900 vi erano già moltissime imprese a livello mondiale che producevano la nuova e strabiliante invenzione.

Nel 1916 alcune delle più grandi compagnie (la General Electric americana, la OSRAM tedesca, la Philips olandese e molte altre ad esse collegate) crearono a Ginevra, in pieno primo conflitto mondiale, la Phoebus S.A. Compagnie Industrielle pour le Développement de l’Éclairage, società destinata a  standardizzare le produzioni di lampade, divise allora in una miriade di prodotti secondo i d tipi materiali, potenza, sistemi di aggancio alla rete elettrica.

Tuttavia nel 1924 gli accordi fra le aziende dominanti sul mercato si orientarono per la prima volta anche sul reciproco interesse a mantenere ed aumentare le proprie quote, evitando l’ingresso di eventuali altri concorrenti. Era così nato il primo cartello di imprese della storia, in cui grandi società la cui fortuna era nata dalla libertà di impresa, utilizzavano quella grande ricchezza per limitare tale libertà del mercato. Per la prima volta ai tecnici delle imprese venne chiesto di studiare il proprio prodotto perché durasse meno.

Nel giro di un paio di anni tutte le società principali vantavano una durata di ogni lampadina fino a 1000 ore. Ma se pensiamo che la durata media delle lampadine di brevetto Edison era di 2.500 ore. E nell’estate del 2001 nella caserma dei pompieri di Livermore, in California, ha festeggiato con una cerimonia pubblica la più antica lampadina in servizio al mondo, restata accesa quasi ininterrottamente dal 1901 e prodotta con sistemi precedenti a quelli introdotti dal cartello Phoebus.

Certo il caso di un singolo oggetto di durata eccezionale non può essere giudicato come metro di paragone per la storia dell’intera categoria di prodotti, ma talvolta certi casi fanno riflettere. I sostenitori della teoria dell’obsolescenza programmata ritengono che moltissimi oggetti, come la lampadina, finirono anzitempo la loro vita utile in quanto sostituiti prima del tempo da prodotti propagandati come più duraturi, ma in realtà pensati e costruiti per durare meno. E si è aperta la caccia nel mondo ad altri esemplari di oggetti antichi ancora funzionanti, dimenticati nell’oblio del tempo che passa.

Nel 1924, in un periodo in cui l’industria automobilistica affrontava la prima saturazione del mercato delle quattro ruote, Alfred P. Sloane Jr., allora direttore generale della General Motors, propose di introdurre la politica del model year: ovvero, differenziare esteticamente e nelle dotazioni i modelli in produzione ogni pochi anni, se non ogni anno, mantenendo i prezzi il più possibile invariati, per incentivare il cambio dei mezzi ai proprietari o attirare nuove fasce di acquirenti. Questo collideva con la politica storica del principale rivale, Henry Ford, il cui successo si era basato proprio sulla standardizzazione della produzione (la famosa Model T resta ancora l’auto più prodotta di tutti i tempi) così come del lavoro sulle catene di montaggio. Chi avesse ragione lo decretò il mercato: nel 1931 la General Motors superò la Ford nel mercato interno americano e ne attaccò le quote su quelli esteri.

Pochi anni dopo, nel 1932, la grande multinazionale chimica Dupont inventò il nylon, una fibra sintetica che ha rivoluzionato l’industria dell’abbigliamento e non solo. E’ questa invenzione che ha permesso alle truppe alleate di disporre di paracadute a buon mercato, mentre gli avversari dovevano utilizzare per lo più la seta, molto più difficile e laboriosa da ottenere. Soprattutto dopo la seconda guerra mondiale, il nylon è stato applicato nella produzione di calze da donna, assolutamente meno smagliabili di quelle in seta.

Ma Emile Du Pont stesso, dopo il primo iniziale boom, di fronte a una rapida stabilizzazione delle vendite chiese ai suoi stessi tecnici e chimici di assottigliare i fili della maglia e modificare la composizione chimica del materiale, di cui all’epoca deteneva il brevetto, così da assicurare la minor durata delle calze e quindi portare le signore ad acquistare più di frequente i suoi prodotti. D’altro canto c’è chi ha rilevato che tali modifiche abbiano di fatto consentito l’evoluzione estetica di quel prodotto, essenziale per il pubblico a cui è destinata, mantenendo il più possibile un prezzo sostenibile alla vendita.

In realtà storicamente il concetto di obsolescenza programmata o pianificata venne ufficialmente esposto nel 1932 da un eclettico e colto immobiliarista statunitense, Bernard London, in anni in cui il crack della borsa di New York stava mettendo al tappeto l’industria manifatturiera statunitense. London presentò in un libro la sua idea secondo la quale l’economia si sarebbe ripresa dalla tremenda depressione in cui versava solo ampliando l’idea di scadenza dei prodotti propria del campo alimentare, anche a tutti gli altri prodotti. Auto, vestiti, lampade, radio, mobili, insomma se tutto fosse stato prodotto con materie prime più scadenti, quindi anche meno costose, cambiandone spesso design, aspetto finitura, ciò avrebbe da un lato fatto diminuire il prezzo dei prodotti finiti rendendoli di nuovo alla portata dell’acquirente medio.

Dall’altro la necessità di sostituirli più di frequente avrebbe aiutato a rilanciare il volano virtuoso della domanda – offerta.

La posizione di London però conteneva un altro concetto, oltre a quello dell’ obsolescenza tecnologica, quella della style obsolescence, ovvero l’obsolescenza per moda.

Questa è stata via via applicata nel mondo della moda, dell’abbigliamento e degli accessori: una linea, un colore o un tessuto viene dichiarato deliberatamente superato dalle cosiddette tendenze per le stagioni successive, dettate da stilisti e grandi case di moda. Si incita la crescita nel pubblico di un desiderio di sentirsi al passo con i tempi, ammirato, cambiando il proprio guardaroba in linea con ciò che è più in uso nel momento, facendo leva sulla psicologia del consumatore medio. Magari potenziando questo meccanismo con l’uso di tessuti o tecniche che rendono gli abiti e gli accessori comunque meno resistenti.

Quindi, il desiderio indotto con una effettiva necessità di sostituire oggetti che si deteriorano velocemente con l’uso. Sicuramente una linea di sviluppo che sta alla  base degli affari del pret a porter ancora oggi…

Il grande designer Brook Stevens era convinto della funzionalità dell’obsolescenza programmata in una moderna società dei consumi.

Il grande designer Brook Stevens era convinto della funzionalità dell’obsolescenza programmata in una moderna società dei consumi.

Nel 1954  il grande designer americano Brooks Stevens, uno che disegnò di tutto, dai treni alle bottiglie delle bibite nei magici fifties, durante una convention di operatori pubblicitari identificò l’obsolescenza pianificata come uno dei motori interni del  boom postbellico dell’economia americana: per Stevens una delle missioni di un designer, oltre che creare oggetti realmente funzionali, era quella di “instilling in the buyer the desire to own something a little newer, a little better, a little sooner than is necessary”, cioè di instillare nel compratore un continuo desiderio di possedere qualcosa di un po’ più nuovo, un po’ migliorato, in un po’ meno tempo di quanto sia realmente necessario.

Stevens era anche convinto, almeno lo era all’epoca, che la serie degli oggetti dismessi e ancora efficienti non sarebbe finita anzitempo alla discarica, ma avrebbe avuto una seconda vita. Si sarebbero infatti creati vasti mercati di oggetti di seconda mano per fasce di consumatori che non potessero permettersi di accedere ai prodotti più nuovi e costosi. In realtà questa nuova filosofia sempre più abbracciata dall’economia del benessere portava già in sé anche i semi della sua critica.

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Per una volta vorrei possedere qualcosa interamente prima che si rompa. Faccio sempre a gara con lo sfasciacarrozze, finisco di pagare l’auto ed è già agli ultimi colpi! Il frigorifero consuma le cinghie come un dannato maniaco! Queste cose le programmano: quando hai finito di pagarle sono già consumate

(da Morte di un commesso viaggiatore, Arthur Miller, 1953).

La corrente cambia: le prime voci contro la pianificazione della durata degli oggetti.

La Volkswagen a sorpresa, nelle sue campagne pubblicitarie del 1959, decise proprio di sostenere una posizione contraria dichiarando con orgoglio che i suoi veicoli, nel progetto, nei materiali e nelle componentistiche, erano fatti per durare e evitavano ogni politica di limitazione della loro vita utile. Una dichiarazione che andava a riconoscere apertamente l’esistenza nella società dei consumi di questa tendenza e a smentire tutti coloro che la minimizzavano o addirittura parlavano del complotto inesistente dell’industria ai danni del consumatore.

Nel 1960 il giornalista economico e critico sociale Vance Packard sorprese  l’America ed il resto del mondo con il suo libro the waste makers, i produttori di rifiuti. Fu il primo atto di accusa  documentato e argomentato contro il consumismo di massa, il materialismo sfrenato che condannava oggetti ancora perfettamente efficienti allo sfascio, allo spreco di risorse naturali ed all’accumulo di rifiuti che né l’uomo né madre natura sapevano come eliminare.

Il consumismo diventava così un costume culturale, una via alla ricerca della felicità attraverso il feticismo dello shopping. Egli accusò il sistema finanziario – industriale di utilizzare l’obsolescenza programmata nella produzione i beni e nell’induzione propagandistica come metodo per ridurre i consumatori a masse di spreconi, perennemente indebitati e scontenti, alla ricerca dell’oggetto perfetto… già nel 1957 aveva svelato nel suo libro the hidden persuaders le tecniche psicologiche subliminali di massa utilizzate  dall’industria pubblicitaria per manipolare e orientare le scelte dei consumatori. Successivamente pensatori e sociologi come Jaques Fresco o Herbert Marcuse affrontarono il tema nella loro critica al modello di società moderna.

L’obsolescenza programmata è incominciata a divenire oggetto di studio degli economisti e dei critici sociali, che intravidero in essa non solo un metodo di politica industriale ma un segno: ovvero, eminenti studiosi sottolinearono come sin dalla sua apparizione fu utilizzata soprattutto da quelle industrie di più grandi dimensioni che in un determinato settore avevano raggiunto posizioni di mercato dominanti, in una situazione di oligopolio di fatto.

Tali industrie avevano utilizzato (e continuavano a farlo) l’obsolescenza programmata come un mezzo per limitare la libertà del consumatore, per evitare l’ingresso di nuovi potenziali competitori e, quindi, di mantenere porzioni di mercato consistenti, di dominio, anche senza meritarselo. Quindi l’uso massivo dell’obsolescenza programmata era passato dall’essere un mezzo, criticabile o meno, per potenziare la crescita delle economie di libero mercato, a chiaro segno di crisi e di difficoltà di queste ultime.

Negli  anni ‘70 l’affermarsi dei movimenti ambientalisti e la presa di coscienza dei danni mostruosi causati all’ecosistema del pianeta(spreco di risorse naturali e squilibri tra i popoli del mondo nell’accesso alle stesse) fecero cambiare l’atteggiamento culturale verso questa filosofia: l’obsolescenza programmata venne percepita come obsoleta essa stessa: in fondo era nata in un momento storico in cui la fiducia nella crescita senza fine delle economie era quasi una fede (con la sola eccezione dei sistemi di pensiero socialisti ed anticapitalisti, almeno in origine), in tempi in cui il concetto di sostenibilità era di là da venire.

Ancor più recentemente  il filosofo francese Serge Latouche, nella sua teoria della “decrescita felice”, ha individuato nell’obsolescenza programmata  uno dei tre pilastri della società dei consumi, assieme al credito ed alla pubblicità. Ma molte imprese, visti gli orientamenti diffusi nell’opinione pubblica tornarono a considerare conveniente investire sulla durabilità degli oggetti, sulla loro riparabilità, in una inversione di tendenza almeno parziale alla fine degli anni 80 su cui nessuno avrebbe osato scommettere fino al decennio precedente. Tuttavia, una rondine non fa primavera…

La rivoluzione digitale: ovvero quando quel che esce dalla porta, rientra dalla finestra.

La seconda grande rivoluzione industriale, quella del microchip, ha invece dato una seconda , insperata, possibilità al concetto di obsolescenza pianificata degli oggetti. La grande corsa all’informatizzazione, l’incredibile progresso dell’industria elettronica, dai personal computer al tablet, dal telefax ai telefoni cellulari ha finito per reintrodurre e rilanciare l’uso delle durate pianificate degli oggetti.

Certamente dagli anni 90 del secolo scorso il progresso nella ricerca in questo campo è così rapido che la progettazione, l’ingegnerizzazione e la produzione di un oggetto, per quanto veloci, non riescono a preservare un prodotto dall’essere rapidamente superati da realizzazioni tecnologiche di molto superiori. Anzi, la concorrenza rapidissima e spietata ha nuovamente diffuso la tentazione di fare ricorso alla tecnica dell’obsolescenza programmata per influenzare il comportamento dei consumatori.

L’obsolescenza programmata è tornata ad esser utilizzata sia per la parte software, ovvero per i programmi che fanno funzionare gli oggetti, sia per i supporto materiale e tecnologico, ovvero l’hardware. Tanto per fare un solo esempio, la Microsoft  di Bill Gates per molti anni ha goduto di una posizione dominante mondiale nel campo dei sistemi operativi con il suo windows. Tuttavia Microsoft è stata portata in tribunale numerose volte in giro per il mondo, spesso per class action collettive che hanno riunito migliaia di clienti-utenti: l’accusa sostenuta dai consumatori è stata di produrre programmi informatici deliberatamente imperfetti in modo da costringere gli utenti a comprare le versioni successive migliorate di un prodotto, magari a pochissimo tempo da che si è acquistato il primo software.

L’Ipod di Apple, dotato di batterie che si deterioravano rapidamente, fu oggetto di una classa action di consumatori che costò alla società di Cupertino un salatissimo accordo extragiudiziale.

L’Ipod di Apple, dotato di batterie che si deterioravano rapidamente, fu oggetto di una classa action di consumatori che costò alla società di Cupertino un salatissimo accordo extragiudiziale.

Altra accusa, in realtà mossa non solo a Bill Gates ma anche al suo grande rivale Steve Jobs, “patron” dell’impero Apple, è stata di produrre continuamente versioni nuove di software, con modifiche tali da rendere difficile il dialogo tra documenti creati con programmi precedenti e computers dotati di versioni più nuove, e viceversa. L’avvento dei software cosiddetti “open source”, cioè le cui chiavi di programmazione sono liberamente a disposizione degli utilizzatori e non sono più un segreto aziendale, ha dato un colpo notevole a questi monopoli moderni. Così come non rendere volontariamente disponibili sul mercato parti di ricambio per prodotti non più in produzione anche se da pochissimo tempo.

La Apple, dopo una azione di massa promossa da una avvocatessa nel 2003 e relativa alla scarsissima durata delle batterie dell’Ipod (e del costo astronomico dei ricambi), firmò un accordo risarcitorio con le controparti, ma non ammise mai di aver creato componenti deliberatamente deboli e facilmente usurabili.

Oppure, sul lato hardware, sono state sospettate fortemente di sviluppare prodotti concepiti in maniera tale da avere bisogno di riparazioni e ricambi (magari giusto giusto dopo la scadenza della garanzia di legge?), ma che questi ultimi non siano più disponibili, se non a prezzi così elevati da rendere più conveniente l’acquisto di un altro apparecchio nuovo. Inoltre gli oggetti dismessi finiscono, con triangolazioni ardite in violazione delle leggi sull’esportazione dei rifiuti pericolosi, nei paesi in via di sviluppo, come fonti di materiali preziosi, acciaio, cromo, rame, platino.

Milioni di radio, computers, forni a microonde, lavatrici, televisori, stampanti, lettori cd, telefonini resi inservibili dall’invecchiamento precoce vengono così demoliti, ma con mezzi di fortuna, a mani nude, causando una gravissimo inquinamento degli ambienti e contaminazione dei lavoratori, oltre che a lasciare vastissime aree devastate dai rifiuti e resti non biodegradabili.

Del resto, il fenomeno emergente dei repair cafè sta ponendo un argine alla nuova offensiva dei produttori che sono tornati all’obsolescenza pianificata:  in questi atelier tecnici e artigiani aiutano i proprietari a riparare o far manutenzione ai propri oggetti, piuttosto che cadere vittime del meccanismo che impone l’acquisto di uno nuovo. Secondo i dati dell’Agenzia per l’Ambiente, il 44% degli oggetti di elettronica una volta guasti finiscono direttamente in discarica, vittime di questa disincentivazione alla riparazione.

In ogni caso, che si propenda per la importanza o meno dell’obsolescenza programmata nei sistemi industriali di oggi, forse è giunto il momento di mandarla comunque in discarica….

di Davide Migliore

 

Linkografia:

Documentario trasmesso dalla Rai TV sulla funzione dell’obsolescenza programmata nella produzione moderna, presente anche su Youtube:

http://www.rai.tv/dl/RaiTV/programmi/media/ContentItem-5b88ac4a-db87-4d55-aa19-a16ce4930509.html

Pagina Wikipedia italiana dedicata all’obsolescenza programmata:

http://it.wikipedia.org/wiki/Obsolescenza_programmata

Pagina Wikipedia in inglese dedicata all’obsolescenza programmata:

http://en.wikipedia.org/wiki/Planned_obsolescence

Voce dell’enciclopedia online Treccani.it:

http://www.treccani.it/enciclopedia/obsolescenza-programmata/

La “centennial Light”, la più antica lampadina di serie al mondo ancora in uso:

http://it.wikipedia.org/wiki/Centennial_Light

La Repubblica, articolo di Andrea Tarquini, “la lavatrice che si autodistrugge”:

http://ricerca.repubblica.it/repubblica/archivio/repubblica/2013/03/21/il-trucco-della-lavatrice-studiata-per-autodistruggersi.html

“Il Post”, 30 ottobre 2013, Che cos’è l’obsolescenza programmata:

http://www.ilpost.it/2013/10/30/obsolescenza-programmata/

“Come difendersi dall’obsolescenza programmata”, Francesco Bevilacqua, Il Cambiamento rivista online, 14 agosto 2013.:

http://www.ilcambiamento.it/riuso_riciclo/difendersi_obsolescenza_programmata_consumismo.html

L’Italia pensa all’introduzione di una legge a tutela dei consumatori contro l’obsolescenza programmata:

http://www.tomshw.it/cont/news/italia-obsolescenza-programmata-vietata-per-legge/50263/1.html

Bernard London, forse il primo a parlare apertamente di riduzione della vita utile degli oggetti e a usare il termine di obsolescenza programmata, nel suo famoso libro del 1932:

http://en.wikipedia.org/wiki/File:London_(1932)_Ending_the_depression_through_planned_obsolescence.pdf

Pagina di Wikipedia dedicata a Brook Stevens:

http://en.wikipedia.org/wiki/Brooks_Stevens

la posizione del grande designer Brooks Stevens sull’obsolescenza pianificata dai produttori di beni, in un’intervista rilasciata nel 1991 al museo di storia moderna del Wisconsin, tratta dal sito della Wisconsin Historial Society:

http://www.wisconsinhistory.org/topics/stevens/

Vance Pakard, giornalista economico,  critico sociale e di costume, primo contestatore della filosofia dell’”usa e getta”:

http://en.wikipedia.org/wiki/Vance_Packard

Accordo fra Apple e i promotori di una denuncia collettiva per la durata delle batterie degli Iphone, Corte Distrettuale della San Mateo County, California, notizia riportata da “Appleinsider”, 26 agosto 2005:

http://appleinsider.com/articles/05/08/26/judge_approves_settlement_in_ipod_class_action_suit

L’obsolescenza programmata si combatte con i repair cafè, di Pino Bruno, 4 luglio 2013, Tom’s Hardware:

http://www.tomshw.it/cont/news/l-obsolescenza-programmata-si-batte-con-i-repair-cafe/47360/1.html

Bibliografia:

Ending of the depression through planned obsolescence Bernard London, 1932.

Made to break – Technology and obsolescence in America, Giles Slade, Harvard University press 2006.

The Waste Makers, Vance Packard, New York 1960.

Usa e getta, Serge Latouche, Bollati Boringhieri.

1 Comments For This Post

  1. Viola Errante Says:

    Bellissimo articolo. Conoscevo l’argomento, ma non in maniera così accurata. Con rimandi così precisi posso sempre riutilizzarli ;).

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