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Venti anni dal massacro del Ruanda: un anniversario difficile da ricordare.

Pubblicato il 16 luglio 2014 da redazione

Locandina del film Hotel Rwanda.

Locandina del film Hotel Rwanda.

Sono passati venti anni esatti dalla guerra civile e etnica che nello stato africano del Ruanda nel 1994 vide il conflitto che si trascinava da tempo fra le due principali etnie del paese, Hutu e Tutsi, trasformarsi in un vero genocidio. Una persecuzione di una ferocia che raramente si è vista nella storia dei conflitti umani, che pure è basata in buona parte su guerre e spargimenti di sangue.

Alla fine del massacro, pianificato e perpetrato dalle milizie paramilitari Hutu, che riuscirono a fomentare l’odio verso il popolo Tutsi, un numero imprecisato di vittime stimato tra le 800 mila e il milione, vi trovò la morte in poco più di tre mesi, tra l’aprile e il luglio 1994.

Fu un bagno di sangue, con persone spesso macellate vive a colpi di machete o di vanga.

Solo la conquista della capitale Kigali da parte dell’esercito del Fronte Patriottico Ruandese, a maggioranza Tutsi, mise fine all’olocausto.

Tradizionalmente, tra i Tutsi risiedeva da centinaia di anni l’aristocrazia più antica del paese, rappresentata da allevatori di bestiame, mentre gli Hutu erano più contadini. A parte alcuni tratti somatici presenti più frequentemente fra Tutsi (più alti e dai lineamenti più gentili) e fra gli Hutu (più bassi e dai tratti decisi) però non vi erano differenze di lingua o cultura fra i due gruppi. Anzi, era possibile una certa mobilità sociale fra le etnie, i matrimoni misti non erano eccezionali.

Fu la colonizzazione occidentale, prima quella tedesca poi belga, dopo il primo conflitto mondiale, a istituire una rigida separazione razziale tra i gruppi, riservando ai Tutsi un ruolo di classe dirigente privilegiata. Dopo l’indipendenza ottenuta nel 1959 le tensioni fra Tutsi dominanti e Hutu, che si consideravano sfruttati e defraudati, incominciarono a crescere.

L’orrore di quella “pulizia etnica” non ha nulla da invidiare a quella che in quegli stessi anni, dopo la fine della guerra fredda e dell’ordine mondiale da essa generato, si stava praticando nei Balcani, cuore oscuro dell’Europa e dei suoi fantasmi, mai veramente scacciati.

E forse è per questo che nella memoria dell’opinione pubblica internazionale è più vivo il ricordo degli eventi successivi alla dissoluzione della Jugoslavia: l’assedio di Sarajevo o il massacro di Srebrenica, con le sue fosse comuni.

Eppure non in molti ricordano quella carneficina e l’esplosione di odio fanatico che l’aveva generata,o almeno non ne è ancora veramente cosciente.

Forse l’attenzione internazionale era appunto distratta da altri pericoli, altri problemi, altre priorità…

Ancora oggi il mondo pare essere distratto. Non si è parlato molto sui media di questo anniversario così triste.

Pare non esistere neanche molta consapevolezza sulla destabilizzazione di tutta la regione dei Grandi Laghi Africani causata da quella strage, sul coinvolgimento successivo degli stati confinanti (come l’Uganda e lo Zaire) nel conflitto, che ha portato il totale finale delle vittime a oltre cinque milioni di persone.

Un film per ricordare, un film per insegnare

Immagine 1 : didascalia - Paul Rusesabagina riceve dal presidente statunitense George W. Bush la medaglia presidenziale della libertà per aver salvato 1.268 perssone dal massacro in Ruanda nel 1994.

Paul Rusesabagina riceve dal presidente statunitense George W. Bush la medaglia presidenziale della libertà per aver salvato 1.268 persone dal massacro in Ruanda nel 1994.

Come spesso accade, è stata una fiction a ricordare al mondo, o forse direttamente a fargli vedere nelle sue reali dimensioni, cosa sia stato il massacro dei Tutsi del Ruanda.

Hotel Ruanda” è stato girato nel 2004, a dieci anni dal massacro, ideato e diretto dal regista Terry George. Questa pellicola ha aperto la strada ad altri lungometraggi e documentari girati su quei fatti.

Per raccontare questa terribile storia, George ha utilizzato la vicenda realmente accaduta di Paul Rusesabagina (interpretato nel film dall’attore Don Cheadle), direttore dell’Hotel des Mille Collines, nella capitale ruandese Kigali. Paul ha una vita abbastanza tranquilla. All’inizio incredulo di quel che si sta preparando, è testimone degli eventi e ne viene coinvolto (la seconda moglie Tatiana e i suoi parenti più stretti sono di etnia Tutsi).

Il 6 aprile 1994 l’aereo che riporta in patria da un incontro internazionale il presidente ruandese Juvenàl Habyarimana e quello del Burundi Cyprien Ntayamira viene abbattuto da un missile terra-aria mentre sta atterrando a Kigali. Ancora oggi non è chiaro chi diede l’ordine, ma fu senza dubbio quell’omicidio il segnale che i ribelli aspettavano per iniziare il colpo di stato e la mattanza degli odiati rivali Tutsi, incolpati dell’attentato. Habyarimana era stato l’anno prima il promotore degli accordi di Arusha fra le fazioni armate Tuytsi e Hutu, che avrebbero dovuto evitare la guerra civile che si stava preparando.

Nella violenza che cresce di giorno in giorno è costretto a usare la sua posizione e il suo danaro innanzi tutto per salvare loro: i quadri dello stato e della polizia sono apertamente con gli estremisti Hutu, forniscono indirizzi e nomi ai ribelli. Lui è un Hutu moderato e quindi è considerato un traditore amico dei Tutsi.

Riesce a portare via anche i vicini di casa, approfittando del fatto che l’albergo è anche sede del comando dei caschi blu dell’ONU e quindi è l’unico luogo non raggiungibile dalle squadre della morte.

Qui collabora con il maggiore dell’esercito canadese Peter Oliver, coraggioso comandante dei caschi blu dell’ONU, il cui piccolo contingente presente per osservare il rispetto degli accordi di pace di Arusha, nulla può fare tra i disinteresse della comunità internazionale e la paralisi dell’ONU, tra i veti incrociati dei paesi membri: Agatha Uwilingiyimana, primo ministro in carica, viene massacrata in casa col marito il giorno dopo, assieme ai 10 caschi blu belgi che dovevano proteggerla. Lo spregio per la comunità internazionale è palese.

Anche la figura di Oliver è ispirata a un personaggio reale, il maggiore generale canadese Romeo Dallaire, interpretato dal famoso attore americano Nick Nolte.

Paul Rusesabagina decide di accogliere, stipandole nelle stanze dell’hotel tutte le persone che riuscivano a sfuggire ai rastrellamenti, premendo sulla compagnia aerea di bandiera belga Sabena, proprietaria dell’albergo, per poterlo utilizzare come rifugio per i profughi. Ottiene, grazie alle sue conoscenze, che il governo di Bruxelles (il Ruanda è una ex colonia belga) contatti quello francese per far cessare la fornitura di armi agli Hutu.

Immagine 2 : didascalia – corpi di civili Tutsi uccisi giaciono in decomposizione sotto il sole tropicale.

Corpi di civili Tutsi uccisi giaciono in decomposizione sotto il sole tropicale.

Allo stesso tempo, nonostante la presenza della polizia nelle strade attorno all’hotel, Rusesabagina accompagna due reporter stranieri a filmare la mattanza delle persone, bambini compresi, trascinate in strada e massacrate e a fare si che le raccapriccianti immagini arrivino alle televisioni di tutto il mondo.

Ma nessuno vuole un intervento in uno sperduto paese del Centro Africa: gi Stati Uniti pongono il veto all’ONU su un intervento internazionale. Troppo vivo il ricordo dei soldati americani uccisi il 3 ottobre 1993 nella cosiddetta battaglia di Mogadiscio, in Somalia, durante l’operazione Restore Hope, il fallimentare intervento nella guerra civile in atto nel paese del Corno d’Africa.

I loro corpi trascinati come trofei nelle strade compaiono nei telegiornali e sui giornali di tutto il mondo.

Queste notizie, assieme all’evacuazione dei cittadini stranieri, dà la certezza a Paul che presto nemmeno l’hotel sarà più un luogo sicuro e realizza che sono stati lasciati a se stessi.

Quando l’esercito e i ribelli Hutu si presentano la mattina dopo per arrestare tutti i Tutsi e gli Hutu moderati, Rusesabagina riesce ad ottenere che almeno una parte sia inserita nell’elenco dell’ultimo volo ONU in partenza da Kigali.

Su quel camion fa salire anche la moglie e i due figli, mentre lui ha deciso di non partire.

Il distacco è drammatico, ma lui ha preso una decisione, la più coraggiosa.

Troppo forte il legame che si è creato con chi è costretto a restare, anche se questo vorrà dire andare incontro a morte certa.

Ma un traditore rivela alla radio che i camion ONU trasportano profughi Tutsi e incita al loro linciaggio. Il direttore riesce ancora una volta, con l’uso della corruzione e delle sue amicizie europee, a ottenere dalle autorità ribelli che i camion rientrino all’hotel.

La situazione precipita quando il funzionario di polizia corrotto che ha finora evitato di entrare nell’hotel vuole altro danaro, che Rusesabagina però non ha. Con uno stratagemma riesce a portarlo in un altro albergo, nella cui cassaforte vi è ancora danaro, ma il funzionario a quel punto vuole fuggire all’estero portando Paul Rusesabagina come ostaggio.

Il direttore, alla fine di un teso confronto, riesce a convincere il funzionario a rientrare all’Hotel Des Mille Collines in quanto sarebbe stato l’unico disposto a testimoniare il suo intervento a protezione dei profughi.

Al momento del rientro trovano che i ribelli stanno già entrando nell’hotel. Incomincia un conflitto a fuoco tra gli estremisti Hutu e un reparto dell’esercito che ha deciso di seguire l’esempio del direttore e difendere i profughi.

Alla fine una colonna di mezzi dell’ONU riesce a raggiungere l’hotel e a portare in salvo il direttore, con la sua famiglia e tutti i profughi. Al coraggio di Paul Rusesabagina è stata riconosciuta la salvezza di 1.268 persone, sia Tutsi che Hutu. Una goccia in un mare di morti, ma comunque pur sempre la salvezza per molte vite umane.

La sua figura eroica, come un nuovo Oscar Schindler o un nuovo Giorgio Perlasca, è senz’altro servita agli sceneggiatori del film per attirare l’attenzione del pubblico.

Ma sicuramente la sua vicenda fa riflettere ancora una volta quanto sia sottile la linea tra il farsi trascinare dall’onda degli eventi, dentro un unico pensiero omologante e il rimanere fedele alla propria coscienza, mantenendo il possesso della propria anima e della propria dignità di uomo.

Mentre per tutti gli altri, i governi occidentali, le opinioni pubbliche, l’ONU, quei volti e quel sangue sono cose lontane, faccende d’Africa, per Paul giorno per giorno questa distanza si annulla. Nei volti terrificati, nel puzzo dei cadaveri, nel pianto dei bambini cessa la distanza.

Anche lui ha una posizione, un tenore di vita che gli consentirebbero di stare lontano dalla realtà. Ma la guerra e il massacro non sono più immagini dalla televisione, le vittime sono persone come lui, che soffrono come lui.

E allora decide di stare con loro, fino a diventare anche lui una vittima potenziale.

Deve far riflettere il destino successivo di Paul: oggi vive in Belgio, dove ha ricominciato tutto da capo. Nel suo paese non può tornare, non è persona gradita. Alcune appartenenti alle autorità governative hanno dichiarato che Paul Rusesabagina ha travisato i fatti e li usa per farsi pubblicità.

Come se quelle migliaia di teschi, riesumati e conservati negli ossari, non esistessero.

E’ un film a tratti duro, che ripropone ciò che accadde senza troppi sconti: i bambini come bersaglio preferito, la tortura e lo stupro sistematico delle donne, l’ossessiva propaganda, specialmente della radio, che ha seminato e accresciuto l’odio verso il vicino di una vita, l’amico fraterno, persino i parenti, sulla sola base di un’appartenenza etnica.

E dovrebbe aiutarci a vedere quel che Paul ha visto nei volti del suo prossimo. Perché genocidi e pulizie etniche continuano ancora oggi in molte parti del pianeta.

Ad esempio, nel Darfour, regione del sud Sudan, dove ora una debole tregua sembra aver fermato le armi, ma solo per il momento.

La giustizia successiva, riparare per non dimenticare

Anche se dopo gli accordi del 2002-2003 è ritornata una relativa pace nella regione, restano i problemi dei reciproci addebiti fra le comunità. L’ONU, dopo la paralisi che le ha impedito un intervento coordinato, ha cercato di rispondere alla sfida dei massacri con un rinnovato impegno giuridico, per ribadire il principio scaturito dai processi di Norimberga e inseriti nelle dichiarazioni dei diritti dell’uomo.

Già con la risoluzione n. 955 del 9 novembre 1994 il consiglio di sicurezza dell’ONU ha istituito il Tribunale Internazionale Penale per il Ruanda, con lo scopo di perseguire i colpevoli del reato di genocidio.

Grazie a questo, una parte importante di coloro che appartenevano alla classe dirigente del paese (ministri, prefetti, ufficiali dell’esercito, alti funzionari, direttori di radio e giornali) e che hanno pianificato e attuato la strage, sono stati individuati, processati e condannati, sia in Ruanda che negli stati vicini. Alcuni di questi sono sotto processo ancora oggi. Pochi sono stati identificati e processati in altri paesi, in virtù della norma internazionale che rende i reati contro l’umanità perseguibili dall’ordinamento di qualsiasi paese.

Immagine 3: didascalia - 13 dicembre 2008, il colonnello Thèoneste Bagosora, uno degli architetti del massacro, è stato condannato all’ergastolo dal tribunale internazionale penale per il Ruanda.

13 dicembre 2008, il colonnello Thèoneste Bagosora, uno degli ideatori del massacro, è stato condannato all’ergastolo dal tribunale internazionale penale per il Ruanda.

Tale attività ha però richiesto un gravoso impegno economico (costato oltre 200 milioni di dollari) e di tempo, impossibile da applicare in un paese dove migliaia di persone si sono rese colpevoli di reati violenti.

Cercare le prove, ascoltare i testimoni, tenere i dibattimenti richiederebbero uno sforzo insostenibile. In parte la magistratura ordinaria, seppure il Ruanda sia un piccolo stato povero, ha risolto moltissimi casi singoli di violenze.

Per moltissimi indiziati ha voluto dire restare appesi in un limbo, rinchiusi in prigione, in attesa di un processo che potrebbe non arrivare mai.

E’ per questo che le nuove autorità ruandesi hanno favorito l’applicazione di un antico istituto giuridico, la Gacaca. Si tratta di un processo collettivo, che avviene di fronte alla comunità dei villaggi, il cui fine non è punitivo, ma soprattutto di riconciliazione.

Se l’accusato riconosce la propria colpa, può anche ritornare libero: l’ammissione della colpa davanti agli altri membri della comunità ha una funzione liberatoria, di purificazione. Sarà poi il consiglio del villaggio assieme ai parenti delle vittime a stabilire se e come il colpevole dovrà contribuire, col proprio lavoro a favore della comunità, a risarcire il danno che ha causato.

Oggi il Ruanda è impegnato in un ambizioso piano di modernizzazione, per cui ha un bisogno assoluto di riportare la pace sociale. Il riconoscimento delle colpe e l’accettazione della propria storia recente è un passo fondamentale, anche se restano molte ferite aperte, molte questioni irrisolte.

Continuano a essere presenti nella società ruandese quelle mancanze di trasparenza nella gestione del potere, delle risorse economiche che sono state una delle cause del furore etnico.

Il Ruanda deve imparare la lezione e voltare pagina, ma questa volta nessun paese potrà girarsi dall’altra parte e avrà bisogno di nuovo di un aiuto.

di Davide Migliore

 

Linkografia e Bibliografia

 Pagina Wikipedia dedicata al film “Hotel Rwanda” del 2004.

 http://it.wikipedia.org/wiki/Hotel_Rwanda

Pagina dedicata al reale protagonista delle vicende raccontate nel film “Hotel Rwanda”.

http://it.wikipedia.org/wiki/Paul_Rusesabagina

“Rwanda 1994 : i cento giorni che non sconvolsero il mondo”, di Gabriele Della Morte, pubblicato sul Huffington Post, 7 aprile 2014.

http://www.huffingtonpost.it/gabriele-della-morte/ruanda-1994-i-cento-giorni_b_5102853.html

Il Tribunale Internazionale dell’ONU istituito per giudicare i crimini contro l’umanità perpetrati in Ruanda.

http://it.wikipedia.org/wiki/Tribunale_Penale_Internazionale_per_il_Ruanda

 Le colpe dell’ONU nel genocidio ruandese, di Aristarco Scannabue, Limes Online, 30.6.2014.

http://temi.repubblica.it/limes/le-colpe-dellonu-nel-genocidio-del-ruanda/61226

La Repubblica, pubblicazione dal blog “Sancara – blog sull’Africa” dell’articolo di Gianfranco Della Valle dell’11 gennaio 2011.

http://www.repubblica.it/solidarieta/diritti-umani/2013/04/06/news/ruanda_ricostruzione_6_aprile_1994_scoppia_l_inferno_in_ruanda-56066606/

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