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Marina Abramovič: storia della performance

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Marina Abramovič: storia della performance

Pubblicato il 11 maggio 2012 by redazione

Viennale 2012: 'Marina Abramovic: The Artist Is Present' at Gartenbaukino

Artista, partigiana, performer, icona di se stessa: in quasi quarant’anni di attività Marina Abramovič ha sviscerato tutte le forme di espressività legate al corpo, ed è oggi uno dei protagonisti più affascinanti e magnetici dell’arte contemporanea, dalla cui vicenda esistenziale è imprescindibile una parte della storia delle arti performative. Classe 1946, Marina studia all’Accademia di Belle Arti di Belgrado dove si laurea nel 1972 e si avvicina al mondo dell’happening a partire dagli anni Settanta, quando iniziano le sue perfomances dall’emblematico titolo “Rythm”: la prima, “Rythm 10”, è datata al 1972 e prevede che l’artista esegua sul proprio corpo il gioco russo nel quale ritmici colpi di coltello sono diretti tra le proprie dita aperte; a ogni taglio corrisponde l’uso di un nuovo coltello per altre venti volte consecutive. La perfomance è registrata e al suo termine il passato viene mescolato al presente, tempo in cui l’artista riascolta la registrazione e cerca di ripetere gli stessi movimenti, replicando gli stessi errori e tentando così di esplorare le limitazioni mentali, ma soprattutto fisiche del proprio corpo.

blog-marina-pastwork“Rythm 0” è invece datata al 1974: Marina si sdraia, priva di volontà, su di un tavolo accanto a oggetti di piacere e di dolore che gli spettatori avrebbero potuto usare sul suo corpo per una durata di sei ore. Ciò che era iniziato piuttosto in sordina, con i partecipanti che le giravano attorno con qualche approccio intimo, si dovette fermare prima del dovuto a causa di un fruitore che le pose un’arma carica in mano e le posizionò l’indice sul grilletto. Con questa pericolosissima esperienza, la Abramovič creò un’operazione molto seria nei confronti dell’arte allo scopo di affrontare le  proprie paure sulla sua pelle.

Del 1974 è anche “Rythm 5”, atto di purificazione fisica e mentale raggiunta attraverso l’incendio delle proprie unghie e dei propri capelli (tagliati al momento) all’interno di un’enorme stella a cinque punte infuocata. Ultimo atto della performance fu la sua entrata al centro della stella, azione che le provocò uno svenimento e la formazioni di diverse ustioni (ma, in questo caso, l’artista si rese contò della pericolosità dell’azione, commentando l’accaduto con “quando perdi coscienza non puoi essere presente, non puoi performare”).

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Ma l’estrema esplorazione dei limiti fisici avviene in “Lips of Thomas” del 1975: dopo aver mangiato un chilo di miele e bevuto un litro di vino (con consecutiva rottura del bicchiere sulla propria mano), Marina si incide sul petto una stella a cinque punte, si fustiga, si sdraia su una croce di ghiaccio iniziando così uno stato di congelamento. Viene salvata in extremis dal pubblico e, in questo modo, raggiunge il suo scopo: quello di eseguire un dialogo tra sé e lo spettatore che, psicologicamente costretto a reagire, non può restare inattivo dinnanzi a un’azione tanto cruenta. La reazione dello spettatore diventa così l’oggetto dell’esecuzione.

“Feeing the body” (1975), “Feeing the memory” (1976) e “Feeing the voice” (1976) sono poi una serie di performances in cui l’artista si prefigge il fine di purificare corpo e mente scivolando nell’ormai usuale stato di incoscienza: nella prima muove incessantemente il proprio corpo fino a crollare per terra, nella seconda ripete tutte le parole in serbo-croato che è in grado di ricordare fino a non ricordare più nulla e nella terza urla fino a perdere la voce.

Queste le attività di maggiore rilievo nella sua storia artistica, che l’hanno condotta all’ultimo lavoro dal titolo “The Abramovič method”, seconda retrospettiva dal 21 marzo al 10 giugno al PAC di Milano dopo quella del MoMa di New York: Marina riflette ora sul pubblico, vero motore della performance, che guidato e motivato dall’artista vive e sperimenta le sue installazioni interattive.

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Queste ultime sono impreziosite da quarzo, ametista e tormalina per un percorso fisico e mentale che trasforma lo spazio meneghino in un’esperienza fatta di buio e luce, assenza e presenza, percezioni spazio-temporali e alterate che rendono possibile un’espansione di tutti i cinque sensi del pubblico. Il metodo nasce infatti dalla consapevolezza che l’atto performativo è in gradi di operare trasformazioni in chi lo produce e nel pubblico che lo osserva: in un’epoca in cui il tempo è un bene davvero prezioso, ma altrettanto raro, Marina chiede allo spettatore/attore di fermarsi e fare esperienza “hic et nunc”, di ciò che prima di tutto lo riguarda: se stesso e il modo di relazionarsi con ciò che lo circonda. Provare per credere.

di Clara Amodeo

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