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A Palazzo Strozzi, a Firenze, la mostra “Anni Trenta – arti in Italia oltre il fascismo”

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A Palazzo Strozzi, a Firenze, la mostra “Anni Trenta – arti in Italia oltre il fascismo”

Pubblicato il 19 novembre 2012 by redazione

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Donghi, Donna al caffe, Ca Pesaro.

Un tuffo nel passato tra mostre sindacali, cinema, manifesti, radio e disegno industriale: stiamo parlando di “Anni Trenta – arti in Italia oltre il fascismo”, mostra di oggetti d’arte datati 30’s in corso presso il Palazzo Strozzi di Firenze fino al 27 gennaio 2013. L’esposizione, attraverso 96 dipinti, 17 sculture e 20 oggetti di design provenienti da collezioni private, musei, fondazioni ed enti italiani e stranieri, vuole infatti illustrare un periodo storico cruciale che ha segnato, negli anni del regime fascista, una situazione artistica di estrema vivacità: per questa impresa i curatori, Antonello Negri con Silvia Bignami, Paolo Rusconi, Giorgio Zanchetti e Susanna Ragionieri per la sezione di Firenze, hanno dunque optato per una valutazione geografica e cronologica del momento che, in un percorso espositivo diviso in sette sale a tema, si confronta con i temi caldi dell’arte dell’epoca, dalla pittura alla scultura, dal design al cinema alla fotografia.

La mostra, partendo dalla prospettiva critica del testo “Arte italiana” di Giovanni Scheiwiller, si apre con una prima suddivisione dell’arte italiana in specifiche “scuole” locali: ne fanno parte Milano, capitale dell’arte nuova rappresentata da Sironi e Wildt, la Torino di Casorati e dei suoi seguaci Menzio, Chessa e Mori, Firenze con Soffici, Rosai, e Lega e Roma, divisa tra classicismo e realismo. La più outsider tra le città italiane, tanto da non essere citata nel testo di Scheiwiller, è Trieste, che tuttavia è stata scelta per proporre uno sguardo diverso dai grandi centri dell’arte italiana: ne sono protagonisti il surrealismo di Arturo Nathan, le visioni alla Jules Verne di Vittorio Bolaffio e i travestimenti di Carlo Sbisà.

Di seguito, la sezione dedicata ai giovani mette in luce le nuove forze emergenti in quel decennio: “Nella politica delle arti del regime fascista  – spiega Paolo Rusconi – ci si pone il problema dei ragazzi nati a inizio Novecento: ministri e burocrati dell’arte, ossia artisti chiamati dallo Stato per diventare imprenditori dell’arte, riescono a tenere a bada l’irrequietezza giovanile mettendo a punto un sistema espositivo composto di mostre sindacali regionali e interregionali nazionali”. Ma le cromie accese di Guttuso e Birolli, i riferimenti ai primitivismi di Scipione, Raphael e Mafai e le suggestioni europee e internazionali non piacciono ai critici dell’epoca, tanto che Ugo Oietti arriverà a recensire sulle pagine del “Corriere della sera” quello che egli considerò un “padiglione sanatorio”. Per questo i giovani si distaccheranno da questa nuova forma espositiva per preferire le gallerie di Milano e di Roma o, in casi estremi, l’estero.

E’ quest’ultimo il caso degli “artisti in viaggio”, cui è dedicata la terza sezione della mostra: il regime li accusa di fuoriuscitismo, grave onta in quel periodo di autarchia, ma allo stesso tempo li sfrutta come propaganda fascista nei due centri dell’attualità artistica europea, Parigi (presso cui soggiornano gli italiens de Paris, de Chirico, Paresce, Savinio, de Pisis, Campigli e Tozzi) e Berlino (centro quantitativamente meno importante del primo ma rappresentato da de Fiori, Mucchi e Paladini); dal canto loro gli artisti  italiani all’estero optano per un linguaggio in cui le contaminazioni con il gusto europeo sono evidenti nella ricerca sia del colore sia della forma, impressionista e surrealista. Piccola eccezione della sala è rappresentata dalla percezione che due artisti non italiani ma residenti in Italia hanno, in quel periodo, della nostra nazione: si tratta di Edward Irvine Halliday, inglese, e di George Cheyssal, francese, che dipingono paesaggi romani con evidenti riferimenti al primitivismo italiano.

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Crali, Vite orizzontali, GAM

La parte della rassegna dedicata all’arte pubblica vede l’idea emergente della comunicazione di massa entrare nel campo dell’arte. Ma cosa significa, in questo periodo, arte pubblica? “I significati sono due – spiega Silvia Bignami – ossia committenza pubblica, cioè richiesta da Stato o Comune, e circolazione pubblica, ampia, dell’opera d’arte”. Testi come “Pittura murale” di Mario Sironi, “Muri e pittori” di Corrado Cagli e il “Manifesto della pittura murale” di Achille Funi, Massimo Campigli e Mario Sironi portano alla ribalta la pittura murale, l’alto e bassorilievo e il monumento celebrativo i cui temi iconografici cominciano a coincidere con il luogo in cui questi verranno esposti. E’ questo il caso degli affreschi del Palazzo di Giustizia di Milano, commissionati dall’architetto del Tribunale Marcello Piacentini e realizzati da Carlo Carrà, o degli affreschi del Palazzo della Consulta di Ferrara voluti dall’allora Governatore generale della Libia Italo Balbo e realizzati da Achille Funi o, ancora, dei mosaici per il viale delle Adunate presso il Foro Mussolini di Roma realizzati da Gino Severini. Le opere di tale ambito sono per ovvi motivi intrasportabili e per questo si è deciso di esporne cartoni preparatori e bozzetti: l’unica eccezione è quella della scultura “Fiocinatore” eseguita da Lucio Fontana, vincitore del concorso Tantardini indetto dal Comune di Milano per la realizzazione di una scultura da apporre presso il mercato del pesce di Milano.

La quinta sezione della mostra è dedicata al tema dei “contrasti”, in Italia come in Germania, tra avanguardie e tradizione: “Siamo partiti da uno stralcio di testo, l’articolo di Telesio Interlandi pubblicato sulle pagine del quotidiano “il Tevere” – spiega Antonello Negri – per recuperare in mostra tutte le opere bollate dal giornalista fascista come “degenerate””. Ed ecco che compaiono i “Trionfi di Roma” di Cagli, la cui distruzione fu ordinata dall’allora Ministro degli Esteri Galeazzo Ciano, la pittura metafisica di de Chirico, quella espressionista di Birolli, quella astrattista di Melotti e l’architettura razionalista di Terragni. La situazione è la stessa che, nel 1937, sta investendo la Germania: a fianco della mostra dell’arte tedesca, in cui il pezzo “I quattro elementi” di Adolf Ziegler, qui esposto per la prima volta in Italia, viene considerato il capolavoro dell’arte nazista, viene allestita la mostra dell’arte degenerata, che espone opere di Otto Dix e Georg Grosz allo scherno del pubblico europeo. “Il corrispettivo di questa dicotomia in Italia – prosegue Antonello Negri – è l’organizzazione di due diverse esposizioni: quella del politicizzato Premio Cremona, organizzato da Roberto Farinacci, e quella del Premio Bergamo, organizzato dall’allora Ministro della Cultura Giuseppe Bottai e anticipatore della nuova arte italiana dopo il fascismo”.

La sezione dedicata al design si divide tra ceramiche (la Doccia di Gio Ponti, la Laveno di Guido Andlovitz e di Giovanni Gariboldi e l’Albisola di Tullio Mazzotti), arte applicata all’industria (le sedute di Giandomenico Pica e l’illuminazione di Pietro Chiesa e Luciano Baldassari) e interni moderni (le architetture di Giuseppe Terragni): se ne evince la dialettica tra moltiplicazione dell’arte, la riproduzione industriale e oggetto artigianale, unico e spesso di lusso. Tale dialettica viene riproposta non solo attraverso l’esposizione di oggetti originali dell’epoca ma anche attraverso riproduzioni fotografiche di interni (provenienti dall’Archivio Storico della Triennale di Milano) e proiezioni di spezzoni di film raffiguranti interni e manufatti del tempo (provenienti dalla Cineteca di Milano).

La mostra si conclude con una sala dedicata alla città di Firenze che, negli anni Trenta, non si identifica tanto con la pittura o con le gallerie quanto con le riviste moderne: parliamo di “Solaria”, portatrice di una cultura laica e moderna, e “Il frontespizio”, rivista cattolica cui collaborarono anche Rosai, Soffici, Manzù e Viani.

di Clara Amodeo

 

 

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