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Il Contratto Nazionale dei Lavoratori va in pensione e arriva l’articolo 8, più snello, flessibile… e più mannaro.

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Il Contratto Nazionale dei Lavoratori va in pensione e arriva l’articolo 8, più snello, flessibile… e più mannaro.

Pubblicato il 03 marzo 2012 by redazione

Nino BaseottoIntervista a Nino Baseotto, segretario generale CGIL Lombardia.

In tempi ormai dimenticati Luciano Lama diceva: “Abbiamo sempre cercato di parlare ai lavoratori come a degli uomini, di parlare al loro cervello e al loro cuore, alla loro coscienza. In questo modo il sindacato è diventato scuola di giustizia, ma anche di  democrazia, di libertà, ha contribuito a elevare le virtù civili dei lavoratori e del popolo.”

Oggi si vorrebbe sostituire l’Articolo 8 all’articolo 18. Come cambiano i diritti dei lavoratori rispetto a quelli del vecchio Contratto Nazionale?

L’articolo 18 fa parte degli articoli del Contratto Nazionale dei Lavoratori e prevede che il licenziamento senza giusta causa o giustificato motivo è punito e sanzionato dalla legge. Sopra i 15 dipendenti, laddove il giudice riconosca l’assenza del giustificato motivo, e quindi vi sia stata una discriminazione, scatta la possibiltà di reintegra del lavoratore o, in mancanza di questo, di indennizzo di carattere economico. Sotto i 15 dipendenti vi è solo l’indennizzo economico.

L’articolo 8 è tutt’altra cosa. Inserito a tutti i costi dal ministro Sacconi nell’ultima manovra del governo Berlusconi, dice che le parti, senza specificare come, quali e chi, hanno la possibilità di stipulare a livello aziendale, locale  e territoriale, degli accordi. Questi accordi possono essere stipulati e hanno validità anche se sono in deroga  a quanto stipulato dal Contratto Nazionale dei Lavoratori e a quanto disposto dalle leggi.

L’articolo 8 è stato fatto per ricomprendere, e dare una sponda giuridica, a quanto fatto da Fiat, Pomigliano-Mirafiori, e successivamente con il Contratto Unico Separato del Settore dell’Auto. L’articolo 8, in sostanza, dice che si possono fare accordi locali e territoriali in deroga a contratti e leggi. A questo punto è evidente che “io”, azienda, posso anche decidere che si deroga in tutto o in parte all’articolo 18. Per esempio posso decidere che i licenziamenti, per accordo tra le parti, siano regolati da una procedura che porta ad un indennizzo economico senza la reintegra.

Questo significa che un dipendente assunto con Contratto Nazionale, e quindi tutelato dall’articolo 18, nel frangente di una vendita della società per cui lavora, o di un ramo d’azienda, o ancora in caso di cessione o fusione della stessa ad altri, o con altri soggetti societari, potrebbe ritrovarsi a lavorare per una società al di sotto dei 15 dipendenti, o comunque diversa dalla precedente. Il datore di lavoro potrebbe a questo punto chiedere al lavoratore di rinunciare al contratto in essere?

Sì, il datore di lavoro può, come aveva formulato la Regione Lombardia nella sua proposta iniziale sullo “sviluppo economico e l’occupazione”, osteggiata poi dalle parti e riformulata, concordare con il lavoratore un’indennità di terminazione preventiva, correlata alla sua anzianità aziendale, nella quale il lavoratore sottoscrive che da quel momento e per sempre, rinuncia alla sua facoltà di ricorrere in giudizio.

Per esempio, un datore di lavoro potrebbe anche, per assurdo, decidere di pagare un salario inferiore a quello previsto dal Contratto Nazionale, e in caso di controversie, il lavoratore non avrebbe più il diritto di ricorrere in giudizio per chiedere il mancato salario, allo stesso modo potrebbe dimezzare le ferie o non pagare la malattia. Questo significa che avendo comunque rinunciato a far valere la legge vigente in materia di lavoro, in caso di licenziamento senza giustificato motivo, o per qualsivoglia altro motivo, il lavoratore non può più avvalersi davanti ad un giudice dell’articolo 18. Questo è quanto è stato fatto a Pomigliano-Mirafiori, che grazie all’articolo 8 ha potuto superare tutte le tutele dell’articolo 18, con addirittura la possibilità di sanzionare il lavoratore per malattia.

Cgil ritiene che l’articolo 8 sia un obrobio giuridico, incostituzionale, ma che per dimostrarlo si debba avvaire un percorso complesso, che riesca a interpellare il giudizio della Corte Costituzionale. Se questa ritenesse la nullità dell’articolo 8, sancirebbe un principio e al contempo sancirebbere nulla anche la legge. La strada del referendum, invece abrogherebbe solo la legge, ma abrogherebbe il principio.

Naturalmente Fiat ora sta facendo un po’ quello che vuole, in particolare a Pomigliano, dove si è tutelata un po’ di più. Sembra infatti che nessun lavoratore, precedentemente iscritto a Fiom, sia stato assunto nella nuova società, né probabilmente verrà assunto in futuro.

sindacatiFiom è rimasta quindi tagliata fuori da tutti i tavoli contrattuali?

Fiom è fuori perchè tra le tante nuove regole, un adi queste dice che, chi non ha sottoscritto il nuovo contratto Fiat, non ha più nessun diritto sindacale. Quindi Fiom è fuori dalla fabbrica, è fuori dai tavoli, e se c’è un lavoratore che vuole iscriversi alla Fiom deve firmare delle carte bancarie con la Fiom e non può più firmare la delega sindacale, come gli altri lavoratori. Fiat infatti non procede più alla trattenuta attraverso la busta paga e si rifiuta di versare questi contributi alla Fiom, perchè per Fiat la Fiom non esiste più. Occorre infatti tener presente che tra le clausole del nuovo contratto Fiat, tutta la contrattazione precedente, tra Fiom e Fiat, nell’intera storia passata tra questi due soggetti, è da ritenersi completamente decaduta.

E tutti quei lavoratori, iscritti alla Fiom, che sono già assunti in altre aziende del settore Auto, che fine fanno?

Questi lavoratori possono rimanere iscritti alla Fiom, ma non hanno più la possibilità di avere il delegato sindacale in fabbrica, e l’azienda potrebbe anche non riconoscere più neppure i rappresentanti Fiom delegati alla sicurezza, come sembra stia succedendo a Pomigliano, gli iscritti alla Fiom di Pomigliano possono rimanere iscritti, se lo vogliono, ma devono creare un legame organizzativo direttamente con la Fiom in merito alle trattenute sindacali, perchè anche per loro, a partire dal 31 gennaio 2012, tutte le deleghe firmate a suo tempo sono da ritenersi scadute.

Ma come è potuto succedere che i diritti dei lavoratori siano tornati indietro di quasi mezzo secolo?

Questo è il modello americano, dove il sindacato che ha la maggioranza è l’unico sindacato. La struttura sindacale in America funziona per maggioranza di iscritti, e per esistere deve avere l’adesione del 50% dei lavoratori + 1, ma nelle aziende in cui non riesce a passare di fatto è fuori. Per altro in America esiste di fatto un unico sindacato molto forte che contratta per tutti.

C’è stata quindi una traslazione sindacale che ha portato in Italia un’idea di sindacato, completamente diversa e lì il concetto è quello che l’agibilità sindacale deve essere supportata da chi accetta di firmare il contratto. La Fiom non ha accettato e quindi è fuori.

Salvo che Fiom dica che si è sbagliata. Ma anche nel caso in cui accettasse di firmare il contratto non è detto che sarebbe automaticamente riammessa, perché tutti i soggetti firmatari dovrebbero decidere se accettare di ammetterla o meno.

E gli altri sindacati non pensano di dare un sostegno a Fiom? Si tratta in fondo di un precedente molto pericoloso.

Cisl e Uil sono stati sempre completamente solidali con il modello Fiat. Cgil invece ha aperto una riflessione per capire come fare a riportare i delegati sindacali in fabbrica, fosse anche solo per riaffermare la natura stessa del sindacato che non può e non deve stare fuori dai cancelli delle fabbriche. Infatti la risposta che Fiom fino ad ora ha ideato è stata quella di parcheggiare un camper Fiom, fuori dai cancelli Fiat, quale presidio permanente, ma certamente non è questa la risposta più adeguata. Occorre invece rientrare nella fabbrica per essere presenti quando un operaio si infortuna. Se non c’è il delegato sindacale, o c’è quello di un’altra organizzazione che però guarda dall’altra parte, perchè l’azienda glielo ha chiesto o la pensa in maniera diversa, allora sì che la questione si fa più seria.

Stiamo quindi assistendo a una vera retrocessione dei diritti dei lavoratori?

Certamente così il lavoratore è solo, lasciato completamente a sé stesso.

intervista a cura di Adriana Paolini

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Contratto Unico – Proposta Fornero Gennaio 2012

Pubblicato il 19 gennaio 2012 by redazione

IL CONTRATTO UNICO

Accesso con tutele a tappe, poi niente licenziamenti

L’idea è quella di sostituire con un unico contratto gli attuali 48 censiti dall’Istat. E’ la frammentazione che penalizza soprattutto donne e giovani e che porta il salario medio lordo di un lavoratore italiano il 32% sotto la media dei Paesi dell’area euro. Nascerà per questo il Cui, contratto unico di ingresso. Avrà due fasi: una di ingresso, che potrà durare, a seconda dei tipi di lavoro, fino a tre anni. E una seconda fase di stabilità, in cui il lavoratore godrà di tutte le tutele che oggi sono riservate ai contratti a tempo indeterminato.

Durante la fase di ingresso, in caso di licenziamento con motivazioni che non siano di tipo disciplinare (“giusta causa”), il datore di lavoro non avrà l’obbligo di reintegrare il dipendente ma potrà risarcirlo in pagando una specie di penale pari alla paga di cinque giorni lavorativi per ogni mese lavorato. In caso di una fase di ingresso di tre anni, il licenziamento dovrà essere risarcito con sei mesi di mensilità.

Già oggi, durante il periodo di prova, non si applica la l’articolo 18 sui licenziamenti. La riforma prevede che il periodo di prova si possa allungare fino a tre anni e in cambio concede che il contratto di ingresso si trasformi automaticamente, al termine della prova, a tempo indeterminato. L’automatismo evita al lavoratore il succedersi di decine di minicontratti precari. Le imprese dopo tre anni possono licenziare il dipendente con un risarcimento senza essere costrette ad assumerlo.

 

TEMPO DETERMINATO

Per i contratti a termine salario sopra i 25mila euro

Oggi sono una prassi diffusa nelle aziende che possono così assumere senza prendersi impegni particolari nei confronti dei dipendenti. La riforma li renderà invece una specie di lusso, un modo per remunerare professionisti e personale specializzato. Uno studio del Collegio Carlo Alberto di Torino, di cui Garibaldi è direttore, mette in evidenza che nel 2008 il 96% dei dipendenti italiani a tempo determinato guadagnava meno di 35 mila euro lordi all’anno. Una retribuzione per mansioni medio basse.

Con il provvedimento allo studio invece sarà impossibile assumere a tempo determinato dipendenti per i quali viene corrisposto un salario inferiore ai 25 mila euro lordi annui (o proporzionalmente inferiore se la prestazione dura meno di dodici mesi). Naturalmente faranno eccezione i lavori tipicamente stagionali (come quelli agricoli o alcuni nelle località turistiche).

Verrà messo un tetto anche ai contratti a progetto e di lavoro autonomo continuativo che rappresentino più di due terzi del reddito di un lavoratore con la stessa azienda. Se questi contratti avranno una paga annua lorda inferiore ai 30 mila euro, saranno trasformati automaticamente in Cui. La riforma dovrebbe anche prevedere l’introduzione di un salario minimo legale stabilito da un accordo tra le parti sociali. Se non si trovasse l’accordo, il salario minimo dovrà essere fissato dal Cnel.

 

GLI AMMORTIZZATORI

Verso il reddito minimo, ma si cerca la copertura

Oggi sono di tre tipi: cassa integrazione ordinaria, cassa straordinaria e mobilità. L’obiettivo è quello di semplificare e tornare alle origini: con la cassa integrazione ordinaria che interviene solo per far fronte alle crisi cicliche e temporanee dei settori.

Per le crisi strutturali e il sostegno a chi ha perso il lavoro dovrebbe invece intervenire il reddito minimo di disoccupazione. Una misura che esiste in molti Paesi occidentali ma che è costosa. Soprattutto in fasi economiche, come l’attuale, in cui la ristrutturazione delle aziende lascia senza lavoro quote crescenti di lavoratori dipendenti. Ieri Monti ha invitato a far procedere “di pari passo” la riforma degli ammortizzatori sociali con quella dei contratti di lavoro.

Non sarà facile. Con poche risorse a disposizione e con l’inasprimento dei requisiti per maturare il diritto alla pensione, sarà già difficile utilizzare strumenti come la mobilità lunga, oggi ampiamente sfruttati dalle aziende per ristrutturare scaricando almeno una parte dei costi sull’Inps. E’ comunque probabile che il passaggio dalla mobilità al reddito minimo di disoccupazione avvenga in modo graduale nel tempo risolvendo contemporaneamente il problema dei molti che oggi si trovano in mezzo al guado, con una mobilità lunga calcolata per approdare a un’età pensionabile a sua volta allontanata dalla nuova riforma previdenziale.

 

ALL’ESTERO

Ogni Paese ha la sua soglia per garantire i più deboli

In Italia non esiste un salario minimo, come invece si vorrebbe introdurre con la proposta di riforma del lavoro di Boeri e Garibaldi. Il salario minimo è contrattato a livello di categoria o di azienda ed è quindi molto variabile. Ma esistono aree, come quelle dei precari che lavorano a progetto, in cui del salario minimo non c’è traccia. Non è così all’estero dove gli Stati stabiliscono per legge qual è la paga oraria minima che un datore di lavoro può corrispondere.

In genere si tratta di soglie che vengono rivalutate annualmente agganciandole all’andamento dell’inflazione o alla dinamica del Pil. L’obiettivo è comunque quello di stabilire un livello sotto il quale non è consentito andare per far si che tutti i lavoratori abbiano una paga in grado di mantenere una famiglia in condizioni dignitose.

Ogni paese ha fissato quella soglia, a seconda del suo livello di vita e dell’importanza che una nazione annette alla protezione sociale della fasce più deboli della società. Così in Francia il salario minimo è di circa 1.350 euro lordi mensili mentre in Spagna è di circa la metà, 600 euro lordi mensili. Molto basso il salario minimo brasiliano, l’equivalente di 237 euro lordi mensili. Il salario minimo è cinque volte più alto in Inghilterra: 960 sterline, equivalenti a 1.150 euro.

(Rassegna Stampa – fonte Repubblica 19 gennaio 2012)


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