Categoria | Politica-Economia

Siria, una polveriera da disinnescare.

Pubblicato il 10 settembre 2013 da redazione

Sira mapLa Cina in Medio Oriente e gli interessi con la Siria

Secondo i dati pubblicati dall’Aspen Institute, nel corso del China-MENA Forum, tenutosi a Dubai nell’aprile del 2012, Shaykh Nahyan Mubarak Al Nahyan, ministro dell’Istruzione superiore e della ricerca scientifica degli Emirati Arabi Uniti, ha dichiarato che gli interessi tra la Cina, i paesi del Mediterraneo e quelli del Medio Oriente sono altamente convergenti e che i rapporti tra loro sono destinati a crescere.

I rapporti che la Cina coltiva con i paesi del Middle East e del North Africa (MENA, compreso l’Iran) si basano infatti sulle necessità urgenti di approvvigionamento energetico (come gas, petrolio e altre materie prime) imposte dalla forte crescita economica cinese; al contempo anche i paesi arabi trovano conveniente approvigionarsi di alte tecnologie cinesi a basso costo, come per esempio macchine manifatturiere, con le quali facilitare lo sviluppo delle proprie economie locali.

Per i cinesi quindi l’interesse è duplice: acquisire accesso alle risorse naturali e disporre di nuovi mercati di espansione economica.

Gli interessi di interscambio commerciale con i paesi MENA in ballo non sono dunque pochi e tra il 2003 e il 2011 hanno raggiunto un picco di 263 miliardi di dollari, sfiorando punte di crescita anche del 37%. In pratica il 40% del prodotto cinese è destinato ai soli Emirati Arabi Uniti, che a loro volta lo distribuiscono ai paesi MENA, per un valore di 32 miliardi di dollari annui.

La Cina per contro importa il 35% del petrolio di cui ha bisogno dai paesi del GCC, per un fabbisogno che ormai supera quello degli Stati Uniti e ammonta, al momento, a 6,2 milioni di barili giornalieri.

Si stima che entro il 2015 questi due colossi scambieranno tra loro beni e servizi per quasi 100 miliardi di dollari. Dubai potrebbe essere impiegata come nodo offshore per gli scambi della moneta cinese e gli Emirati potrebbero essere eletti  quale hub per le esportazioni destinate a Iran, Arabia Saudita e Nord Africa.

I benefici economici di questo sodalizio si traducono anche in forti investimenti cinesi, che nel 2010 raggiungevano già la cifra di 13 miliardi di dollari, in particolare nei paesi a maggior presenza energetica quali Iran e Algeria. Anche con Egitto e Siria ci sono accordi favorevoli con la creazione di zone free trade. L’Egitto, in particolare rappresenta per Pechino una zona chiave da cui, attraverso il canale di Suez, far transitare le navi cargo cinesi; si calcola che il 60% dei trasporti fluviali cinesi passi per il Mar Rosso, mentre la restante parte traguardi i principali porti europei, circumnavigando l’Africa. La rotta attuale è quindi molto lunga e costosa e passare per l’Egitto rappresenterebbe oltre che una rotta più breve, un forte risparmio economico.

Infine con gli Emirati, la Banca Cinese del Popolo ha concordato tassi di cambio dello yuan molto convenienti.

Per questi paesi la Cina è diventata un modello di sviluppo economico a cui guardare per uscire dalla povertà, senza passare dai lacci dei vecchi e antichi colonialisti europei. Le strategie già in atto sono diverse. Nel settore dei servizi finanziari il Dubai International Financial Centre, per esempio, è divenuto il primo polo di attrazione per gli investimenti. In Algeria invece, dato che l’economia del paese dipende per il 95% dall’esportazione del petrolio, attraverso la China Petroleum Engineering & Construction Corporation, controllata dallo Stato, Pechino ha avviato la costruzione di un grande polo commerciale e di un’autostrada di 1.200 km che, attraversando l’Algeria da est a ovest, collegherà anche Marocco e Tunisia.

La strategia di penetrazione nell’area MENA, trae la sua origine dalla teoria dei “Tre Mondi”, ideata da Mao Zedong, che ipotizza il mondo suddiviso, sia economicamente sia politicamente, in tre macro-aree: il primo mondo costituito dalle super-potenze; il secondo mondo dai loro alleati; il terzo mondo dai paesi non allineati, come la Cina e l’intero continente africano, che la Cina intende aggiornare al XXI secolo, come annunciato nel 2000, durante il Forum per la cooperazione Cina-Africa e che da allora si tiene ogni due anni, alternativamente nei due paesi.

I vantaggi economici sono molteplici per entrambi i popoli e servono anche come deterrente politico per contenere la tendenza occidentale a un’egemonia economico-politica, da sempre imperialista. La costruzione di impianti industriali e servizi di collegamento nell’area MENA, affranca inoltre la Cina dal pericolo di una crisi di sovrapproduzione e, dall’altro consente ai paesi destinatari di limitare la loro dipendenza dalle importazioni e prodursi in casa quel che gli serve.

Tuttavia, la necessità di un costante approvvigionamento energetico è messo a rischio dalle basse garanzie di stabilità politica e di sicurezza in cui versa la regione, con frequenti tensioni sociali che nel tempo potrebbero rivolgersi anche contro la stessa Cina. In ogni caso una maggior stabilità politica serve anche ad impedire processi di liberalizzazione e di apertura politica che molti paesi MENA in effetti non vogliono, in nome appunto di una sempre più propagandata crescita pacifica, necessaria alla collaborazione con il paese cinese amico. L’attuale crisi siriana, inoltre, potrebbe obbligare la Cina a una maggior esposizione politica che ribadisca con più forza la sua posizione e il suo ruolo al tavolo del Consiglio di Sicurezza dell’ONU e ponga fine all’attuale strategia di “sviluppo silenzioso”.

Siria-gas-nervino

Fonte: http://www.agi.it

Cresce la tensione tra Occidente e Siria a seguito dei fatti del 18 agosto 20013.

In un’intervista alla Cnn, lo scorso Agosto, il presidente Barack Obama aveva ammesso la possibilità di un intervento militare in merito alla questione Siria, rafforzato dall’arrivo del cacciatorpediniere Uss Mahan nel Mediterraneo, subito smentita da indiscrezioni anonime rilasciate alla stampa britannica che “il presidente Barack Obama non ha preso alcuna decisione di passare all’azione sul piano militare“, anche se un avvertimento al dittatore siriano, Bashar al-Assad, sembra scontato, soprattutto dopo la morte di circa 1300 persone, condotte probabilmente con armi chimiche, il 18 agosto scorso. Si aspetta ora l’arrivo degli esperti dell’Onu che dovrebbero raccogliere tutti gli elementi necessari a individuare i mezzi realmente utilizzati per effettuare questo massacro.

Nel frattempo lo scacchiere internazionale e locale inizia la sua frammentazione nei vari schieramenti e al fianco degli Usa si schiera la Turchia che cerca, in questo modo, di ottenere un proprio ruolo nella regione. Il ministro degli Esteri di Ankara, Ahmet Davutoglu, in un’intervista al quotidiano Milliyetche ha dichiarato che “si unirebbe a una coalizione internazionale contro la Siria anche se il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite non riuscisse a raggiungere un consenso” e “Se in questo processo fosse formata una coalizione contro la Siria, la Turchia ne farebbe parte“.

Si oppongono invece Russia e Iran, alleati di Damasco che ribadiscono alla Casa Bianca che bisogna accertare con assoluta chiarezza cosa sia realmente accaduto, come ribadito, durante un colloquio telefonico da Mosca il ministro degli Esteri russo Sergei Lavrov a quello americano John Kerry, in cui ha posto l’accento sulle “conseguenze estremamente gravi di un possibile intervento militare per il Medio Oriente e il Nord Africa o Paesi come l’Iraq e la Libia che sono ancora destabilizzati“.
In Siria, inoltre i seguaci di Al Nusra (del movimento di Al Keida) per vendicare il massacro dei gas hanno annunciato che colpiranno la zona di Latakia abitate dagli alatiti a cui fanno eco i mullah di Teheran, annunciando “conseguenze devastanti”.

Secondo il New York Times alla Casa Bianca si sta studiando il caso del Kosovo come un precedente “per un’azione senza il mandato delle Nazioni Unite“ e nell’ipotesi, probabile, che la Russia “metta il veto in Consiglio di Sicurezza” l’amministrazione Obama potrebbe decidere di bypassare l’Onu sulla Siria.
Come in Kosovo “così in Siria, sono stati uccisi dei civili e la Russia aveva legami di lunga durata con le autorità di governo accusate degli abusi. Nel 1999 il presidente Bill Clinton aveva usato l’appoggio della Nato e il fondamento logico di tutelare una popolazione vulnerabile per giustificare 78 giorni di incursioni aeree“.

L’Unione europea, per il momento non ha ancora espresso un parere unanime, per un intervento militare pro o contro Damasco.
Poche ore dopo l’accusa di uso di armi chimiche, Laurent Fabius, ministro degli esteri francese, chiedeva un intervento militare, mentre in Italia il nostro ministro Emma Bonino preannunciava già il suo dissenso ad un intervento militare nell’eventualità di un incontro alle Nazioni Unite. La stessa Angela Merkel si dichiarava apertamente contraria a un intervento militare in Siria, come infatti riferiva il suo portavoce Steffen Seibert: “Non seguiamo la strada di una soluzione militare. Non crediamo che sia possibile risolvere il conflitto dall’esterno, ma che si debba  invece trovare una soluzione politica“.

Il Wall Street Journal dal canto suo spiega la titubanza di Obama come conseguenza dei negoziati in corso tra israeliani e palestinesi, fulcro storico principale delle tensioni in Medio Oriente. Se le due parti, infatti, si accordassero lo scenario sarebbe diverso. A questo si aggiunge il lievitare della tensione fra sciiti e sanniti e in definitiva tra Arabia Saudita e Qatar, la prima alleata degli Usa e la seconda vicina al Jihadismo e in generale all’Islam Militante, come quello della Fratellanza musulmana in Egitto. Se quindi Obama scegliesse di intervenire potrebbe accendere forti tensioni con i palestinesi, soprattutto nelle zone controllate da Hamas. Infine un intervento comprometterebbe anche possibili negoziati tra Usa e Iran. A conti fatti quindi attaccare la Siria non conviene a nessuno, men che meno agli Stati Uniti, se non fosse che in gioco, sempre più urgente, c’è il controllo dell’energia e in particolare del petrolio e del gas che, secondo il Telegraph l’Arabia Saudita sarebbe disposta a spartirsi con la Russia se questa rinunciasse a sostenere il regime di Assad.

Sembra infatti che si sia svolto un incontro riservato tra Vladimir Putin e il principe saudita Bandar bin Sultan, durato 4 ore, nella residenza estiva del presidente russo, poco più di un mese fa. Bandar, capo dell’intelligence saudita, si sarebbe recato in Russia per cercare di disinnescare la crisi in Siria. ”Esaminiamo come creare una strategia comune Arabia Saudita-Russia sulla questione petrolifera. L’obiettivo è accordarsi sul prezzo del greggio e sulle quantità prodotte che rendano stabili i prezzi nel mercato globale. Capiamo il grande interesse russo per il petrolio e il gas nel Mediterraneo da Israele a Cipro. E comprendiamo l’importanza del gasdotto russo in Europa. Non siamo interessati a competere con questo, ma possiamo cooperare in quell’area”, ha proseguito.

Un’alleanza Opec-Russia, che nell’insieme rappresenterebbe più di 40 mila barili di petrolio al giorno, il 45% della produzione mondiale, chiuderebbe ogni via d’uscita al resto dello scenario mondiale.

Anche l’asilo politico concesso da Vladimir Putin a Edward Snowden, ha forse evidenziato che in effetti qualcosa sta cambiando e che le vecchie tensioni tra Russia e Usa potrebbero riemergere.

Al momento gli schieramenti a favore o contro un intervento in Siria sembrano così composti: Russia e Cina si oppongono, Usa, Francia, Regno Unito e Turchia vorebbero andare avanti, mentre la Lega Araba è schierata contro Assad senza avallare l’intervento militare. A latere sia la Germania sia l’Italia sperano in una soluzione politica e  condizionano la loro adesione all’approvazione dell’Onu.

Intanto questa settimana Israele si è decisa a dispiegare una batteria antimissile a ovest di Gerusalemme. I militari israeliani, secondo un corrispondente della France Presse, hanno dichiarato che “i sistemi di difesa sono dispiegati in funzione della valutazione della situazione”. Questa misura preventiva è rivolta a possibili ritorsioni in caso di attacco degli Stati Uniti alla Siria.

E mentre tutti portano avanti le loro istanze, i profughi scappati dalla Siria, secondo quanto riferisce l’Alto commissario delle Nazioni Unite per i rifugiati, sono già due milioni di cui la metà sono bambini per lo più con meno di 11 anni; il paese che al momento ospita il maggior numero di loro è il Libano, dove hanno trovato asilo più di 700mila persone.

Papa Bergoglio contro la guerra

Papa Bergoglio, pochi giorni fa all’Angelus ha ribadito che occorre trovare una soluzione al conflitto e apertamente si interroga sui veri motivi che stanno dietro ogni guerra: ” C’è tanto commercio illegale di armi. Tanto. Rimane il dubbio se queste siano davvero guerre per problemi, oppure non siano guerre commerciali, per vendere queste armi nel commercio illegale. Bisogna dire no alla proliferazione delle armi e al loro commercio illegale. Questi sono nemici da combattere uniti e con coerenza, non seguendo altri interessi se non quelli della pace e del bene comune. La ricerca della pace è lunga e richiede pazienza e perseveranza”.

Intanto aspettiamo la dichiarazione di Obama all’America.

di Adriana Paolini

http://childrenofsyria.info/

http://www.agi.it/cronaca/notizie/201309101950-cro-rt10316-papa_francesco_diamo_i_conventi_chiusi_ai_rifugiati

Advertise Here

Foto da Flickr

Guarda tutte le foto

Advertise Here

LINK