Categoria | Politica-Economia

L’Italia può voltare pagina? L’abbiamo chiesto ad Achille Occhetto.

Pubblicato il 07 aprile 2014 da redazione

occhetto

Nel 1989, grazie all’abile mossa di Silvio Berlusconi e alla complicità della Lega Nord, l’Italia si voltò a destra e in un modo o in un altro vi rimase fino alla recente vittoria del Partito Democratico (PD).

Inspiegabilmente, la grande sinistra di quegli anni, che aveva cambiato nome per svoltare pagina e apprestarsi ad affrontare i nuovi grandi temi del progresso, come forza dinamica e innovatrice, sembrò smarrita, incapace di comprendere quanto le stava accadendo, travolta dalla Questione Morale (denunciata da Enrico Berlinguer), da Mani Pulite con Tangentopoli e dalla crisi storica del Comunismo che con i fatti di piazza Tienanmen si chiuse in un profondo dolore esistenziale. E negli anni successivi gradualmente si assopì, accontentandosi semplicemente di stare all’opposizione.

Nessuna crescita sui problemi emergenti della globalizzazione, del dominio sempre più ingerente delle multinazionali e di una nuova economia finanziaria che sta azzerando il ruolo politico dei partiti e dei sindacati.

Una sinistra apparentemente indifferente alle nuove classi sociali precarie, senza diritti né garanzie sociali, e con scarsa considerazione per i molti movimenti internazionali progressisti, ambientalisti o semplicemente indignati, impegnati a difendere e affermare i diritti universali dell’Uomo, del Pianeta, dei Bambini, degli Animali, dell’Istruzione, della Cultura, dell’integrità degli Ecosistemi, della necessità di rintracciare energie pulite e sostenibili, politiche di condivisione e non di esclusione, politiche per il lavoro e il tempo vita e più in generale per una maggior qualità dell’esistenza. Un intero mondo che da più parti si accorge che è in grande pericolo e prova a farci qualcosa.

Anche oggi, che la sinistra ha vinto le elezioni, e si è assicurata perfino un Presidente della Repubblica del suo colore, continua a comportarsi come se fosse all’opposizione e non al governo, investendo di nuovo la parte più progressista del Paese, che l’ha votata e sostenuta fedelmente fin qui, di quel senso generale di smarrimento che sta alimentando, nel bene o nel male, il crescere dei Movimenti, quali unici e veri veicoli di rinnovamento, e che volutamente o meno, sta restituendo lo scranno a chi, ormai, era stato deposto.

Sembra che il nostro Paese viva sospeso in un limbo. Anzi che si sia arrestato per slancio e partecipazione, arretrando nei diritti fino all’epoca della Costituente, imprigionato in una sorta di campana di vetro da cui non filtra volutamente la luce, mummificato e ingessato dagli interessi di mafia, finanza, oligarchie politiche autoreferenziali e più in generale da irresponsabilità diffuse, giustificate con il più misero luogo comune “così fan tutti”.

Chi doveva promuovere per vocazione un cambiamento, non è stato capace di fermare il declino di un grande Paese né di offrire un futuro dignitoso alle nuove generazioni, che già in massa stanno migrando rassegnate all’estero, in un sostanziale disinteresse del Paese.

Nelle segreterie di partito hanno vinto i singoli personalismi e si è trascurata la pluralità della società civile, tenuta volutamente ai margini della discussione, utile solo a legittimare con il proprio voto gli interessi di una casta ormai invisa anche a se stessa.

Su questi e altri temi abbiamo chiesto all’onorevole Achille Occhetto, l’ultimo segretario del PCI (Partito Comunista Italiano), di provare a fare un po’ di chiarezza.

Occhetto fu infatti l’ultimo politico italiano che parlò di svolta, quale “investimento per il futuro, il tentativo di togliere dalla palude una sinistra priva di prospettive, rendendola al Paese come forza dinamica e innovatrice; una prova ardua, anche lunga, che avrebbe però aperto straordinarie possibilità”

Nel suo libro “La gioiosa macchina da guerra” pubblicato alla fine del 2013, lei rievoca in maniera vivida tutto lo sforzo, la necessità e l’urgenza di un’operazione chirurgica, sul PCI, che non lasciava scampo e che anzi era stata consegnata come indicazione primaria, insieme alla riforma dei partiti, anche dallo stesso Enrico Berlinguer, negli ultimi periodi della sua vita. Da quel lontano 1989 sono passati 15 anni e ancora in molti ricordano quel momento come la morte della sinistra italiana e non come la sua naturale evoluzione verso una nuova forma di partito democratico, che sposava le due facce più importanti del Paese. Dopo tutti questi anni di silenzio e di critiche ingenerose, pensa che ripartire dalla Bolognina, possa servire a riportare la barra al centro?

Ma io ritengo che più che ripartire bisogna ritornare alla Bolognina. Bisogna ritornare a capire che cosa era successo e che cosa volevamo fare alla Bolognina. In realtà alla Bolognina c’erano due sbocchi possibili: il mio che era quello di un nuovo inizio e cioè di un’uscita da sinistra dalla crisi del Comunismo, per dar vita a una nuova forza democratica di sinistra attraverso una costituente che unisse tutte le componenti più avanzate del riformismo italiano e l’altra via invece quella di D’Alema che aveva parlato di una dura necessità e che però lo ha spinto nella direzione di una ricerca del salotto buono, del governo per il governo e di una visione moderata della politica.

Io ritengo invece che bisogna ritornare a quel grande spirito di innovazione, che avemmo in quei giorni e che aveva salvato la sinistra. Non è vero che la sinistra non è stata salvata, perché nei paesi dove non c’è stata la svolta sono crollati i partiti comunisti e oggi non ci sono più. Guardiamo in Francia, ma guardiamo a tutti gli altri paesi europei. In Italia, nel bene o nel male, c’è stata una presenza, soprattutto con il primo Governo Prodi: per la prima volta nella storia, degli ex comunisti al governo del Paese. E non era detto che doveva avvenire questo. Noi venivamo da una sconfitta storica, eppure grazie alla Bolognina andiamo al Governo.

Nell’introduzione al suo libro, colpisce la verità delle ragioni che portarono così lunga vita al Partito Comunista Italiano, che fu capace in effetti di raccogliere milioni di italiani e diede risposte alla loro umiliazione, alla loro stanchezza dal Fascismo e alla meschinità piccolo-borghese del conformismo. Tutti questi uomini e donne trovarono in effetti sotto la bandiera del PCI i fondamentali. I fermenti sociali che animavano quel momento chiedevano infatti diritti, libertà sessuale e parità fra gli uomini e le donne. Pensa che dietro agli elettori che oggi hanno promosso Matteo Renzi alla guida del PD vi siano le stesse ragioni?

In parte sì, ma non totalmente perché io credo che purtroppo la ragione fondamentale per cui molti hanno votato per Renzi era legata a una parola d’ordine, che come il passaparola circolava, che era quella “Renzi ci fa vincere” più che a delle idee progettuali di fondo. Non c’è dubbio che il problema di vincere, il problema di uscire dalla morta gola in cui eravamo caduti era un problema importante, ma non è sufficiente. Io credo che bisogna ancora ricuperare delle idee progettuali, che non siano di corto periodo, ma che ripropongano una diversa idea di Italia, una diversa idea d’Europa e che mettano al centro i veri problemi dello scontro sociale e di classe.

Oggi, come nel 1989, c’è questa necessità di rinnovamento e di ripartire, un po’ in tutto il mondo. In effetti sono nati tantissimi Movimenti Progressisti e che combattono per tantissime tematiche. In Italia invece queste tematiche si affacciano solo di recente. Non crede che oggi alla sinistra servirebbe il coraggio per una seconda svolta politica che la porti nel cuore del rinnovamento europeo?

Più che a una seconda svolta politica, io penso a un “inveramento” del progetto della svolta che potrebbe avvenire anche attraverso una rifondazione del Partito Democratico assieme ad altre forze della sinistra come ad esempio a Sel, ma anche alle forze migliori che hanno votato e che sono state portate in un vicolo ceco e per il Movimento 5 Stelle e coloro cioè che vogliono cambiare effettivamente la società. Quindi una rifondazione del Partito Democratico che possa avvenire nella discussione di alcuni fondamentali, cioè i fondamenti ideali e politici di una nuova forza democratica e di sinistra che si può anche realizzare attraverso una consultazione di massa degli elettori, sulle idee e non solo sulle persone.

La nuova legge elettorale, l’Italicum, sembra molto simile alla legge Acerbo del 1923, e sta effettivamente sbarrando, come allora, la strada ai piccoli partiti e promuovendo sempre più il partito unico e di conseguenza, in risposta, una crescente onda antidemocratica che rifiuta la discussione politica a tutti i livelli. Le liste bloccate e tutto il sistema di premio di maggioranza che raddoppia i seggi alle forze vincenti, anche per poche percentuali rispetto alla realtà poi del Paese, non pensa che riducano di molto la sovranità popolare italiana?

Ma io voglio premettere che sono stato sempre d’accordo e sono ancora d’accordo nel passaggio dal proporzionale al maggioritario, perché ritengo fondamentale che si arrivi al bipolarismo, cioè a due grandi schieramenti alternativi. Tra l’altro è grazie proprio al bipolarismo che si è rotto un mito che ha dominato la politica italiana, che era quella dell’unità politica dei cattolici in uno stesso partito. Però, io penso che bisogna sapere, sapientemente, avere un mix tra l’esigenza del maggioritario e del bipolarismo, e la capacità di rappresentare tutte le forze, tutte le componenti, tutte le tensioni culturali che sono dentro il Paese. Per fare questo è chiaro che bisogna cambiare molte cose dell’Italicum, in modo che non ci sia un eccessivo distacco fra il Paese rappresentato e i rappresentanti del Paese che deve essere rappresentato.

Tra l’italiano medio sempre più combattuto tra il chinarsi alla riverenza opportunistica, l’inarcarsi del coraggio momentaneo dei maldipancisti o il costringersi in un immobile moderatismo, quale pensa che vincerà?

Non c’è dubbio che c’è un elemento di acquiescenza di moderatismo diffuso di massa, anche di opportunismo, che è stato introdotto da molto tempo nella società italiana, almeno dal periodo in cui si è fatto prevalere l’individualismo, il farti da te, l’arraffa arraffa, lo sgomitare, il vincere per vincere. È iniziato con la Milano da Bere, nel periodo craxiano e questa visione distorta dei rapporti umani e dei rapporti sociali è diventata molto diffusa e si è passati dalla solidarietà, che era un tema molto importante nelle classi subalterne italiane, la solidarietà contadina, la solidarietà delle vecchie cooperative, la solidarietà delle società di muto soccorso, di un’Italia che era molto solidarista a un Paese invece di rampantismo dilagante.

Io credo che noi dobbiamo ancora lavorare molto per superare non tanto Berlusconi, che mi sembra superato, ma il berlusconismo che è andato sotto la pelle della società italiana.

Intanto però la politica arrogante italiana lavora sempre più per la disgregazione nazionale e ci spinge verso uno sfrenato individualismo. In tutto questo scenario la sinistra sembra prendere pochi impegni, rubandoli al volo al malcontento generale. Nessun programma politico a lungo termine né visione di un progetto sociale, economico, né tanto meno ideale. Non le sembra che l’intento sia quello di poter cambiare al volo le carte, in un gioco in cui il banco, alla fine, non paga mai?

Se l’intento è questo io credo che il calcolo è sbagliato perché poi non paga il banco del centro destra, ma finisce per pagare il banco del centro sinistra, come è avvenuto negli ultimi anni. Quindi io spero che si capisca che non si può mettere in campo una bolla mediatica. Il rischio è che noi abbiamo la bolla mediatica, una promessa viene superata da un’altra e ancora da un’altra e alla fine i conti non tornano. Questo è il mio dubbio anche su quanto sta avvenendo adesso nella politica italiana. Naturalmente la mia speranza è un’altra, perché io vedo che dietro a questo c’è una volontà di cambiamento e di movimento. La gente soffre, la gente spera che questa corsa porti a qualcosa di positivo. E quindi io sono indotto a stare con la gente che spera. E sperare anch’io in questo momento, ma devo unire, come diceva Gramsci, ma anche Carlyle prima, il pessimismo dell’intelligenza all’ottimismo della volontà. Voglio essere ottimista, ma l’intelligenza mi dice che bisogna stare allerta, perché c’è anche il rischio di una bolla politico-mediatica.

Non le sembra anacronistico che nell’era della globalizzazione si insista ancora così tanto sui “vari distinguo”, anche personali?  Che speranze ha la sinistra di ricompattarsi, invece, in un vero grande partito, dove tutto questo venga in qualche modo stemperato e ci si impegni tutti insieme per riuscire a fare questa cordata di cui l’Italia ha assolutamente bisogno? E al contempo, lei pensa che dietro questo smantellamento del Paese ci siano anche altre ragioni oltre a una sorta di incapacità politica?

Ma la ragione fondamentale dell’attuale situazione che domina l’Italia, l’Europa e il Mondo è ancora il pensiero unico monetarista. E quindi questo potere unico monetarista è fortissimo. Ha i grandi poteri internazionali, i poteri finanziari, che sono gli unici poteri sovranazionali che dominano il mercato, ma non solo il mercato delle merci e dei servizi, ma anche il mercato delle idee, il mercato politico e quindi in realtà destra e sinistra si muovono tutti dentro questo circolo magico prodotto da questo potere immenso. Le alternative, quindi, sono alternative relative, importanti anche, perché è chiaro che negli Stati Uniti d’America è meglio votare Obama piuttosto che un repubblicano guerrafondaio, è chiaro che in Italia è meglio votare Renzi piuttosto che Berlusconi. Ma il problema vero non è questo. Il problema vero è rompere quel cerchio che sta impedendo di affrontare il tema di fondo, che è il tema dell’uguaglianza e il tema del mutamento del modello di sviluppo.

Lei è stato tra i cofondatori del Partito Socialista Europeo (PSE) nonché il suo Vicepresidente. Trova che nell’era della globalizzazione, e di questo formarsi ancora di grandi territori, come era un po’ nel passato, si possa parlare ancora di democrazia? E quale ruolo può incarnare la politica dei partiti rispetto alla forma più snella e mondiale dei Movimenti, se presupponiamo che la democrazia ha bisogno di spazi territoriali piccoli, dove il confronto faccia a faccia sia importante, dove non ci sia oligarchia politica, come invece c’è ora, ma soprattutto dove siano nette le separazioni tra le classi, e la politica, quindi, trovi il suo vero ruolo che è quello di mediatore fra le classi.

Rispetto al processo di livellamento di tipo sovranazionale che distrugge tutte le realtà locali e tutte le partecipazioni, tutte le forme di presenza democratica da un lato e il ritorno invece al piccolo e bello, ma chiuso dentro un enclave, un orticello separato, fra questi due estremi c’è una possibilità di unire l’elemento particolare, locale, legato al popolo, alla possibilità cioè dei cittadini di intervenire con i processi internazionali, che sono ormai ineluttabili.

Quindi, io credo che la soluzione vera di questa dialettica, fra il particolare e il generale, fra il locale e il generale, sia una visione federalista. Il federalismo è la soluzione, il federalismo europeo, cioè gli Stati Uniti d’Europa è la soluzione. E il rapporto fra Partiti e Movimenti deve diventare qualche cosa che riforma i Partiti. Perche è i Partiti devono diventare qualche cosa di radicato al territorio, che va al di là della funzione di governo delle coalizioni e che gettano il cuore oltre l’ostacolo e nello stesso tempo devono avere delle linee di scorrimento con i Movimenti. I Movimenti nello stesso tempo non devono trasformarsi in Partiti perché perdono la loro vocazione di provocazione, di freschezza, ma devono continuamente, come un’acqua fresca che si rinnova attorno ai problemi, svolgere la loro funzione di pressione e di innovazione.

Secondo te perché gli italiani della sinistra o di sinistra o che ricordano i valori della sinistra, dovrebbero leggere il tuo libro?

Dovrebbero leggere il mio libro innanzitutto perché ci sono state sulla svolta delle contraffazioni. Molti italiani l’hanno accettata anche come una necessità importante, ma alcuni l’hanno accettata con opportunismo.

Altri l’hanno avversata considerandola che fosse necessariamente moderata e di destra.

Il mio libro dimostra invece che tutte e due queste posizioni sono sbagliate, che è possibile scegliere la sinistra senza cadere nelle nostalgie di vecchie politiche, che hanno portato al fallimento perché non hanno unito libertà e uguaglianza, e senza però andare sul piano scivoloso dell’opportunismo e del cedimento.

Copertina_Libro_Occhetto

Concludiamo l’intervista con un piccolo passo tratto dal libro La gioiosa macchina da guerra.

[…] “L’innovazione non produce immediatamente i suoi frutti. L’albero potato prima di esplodere in tutta la sua potenzialità, sembra impallidire in un brivido di morte. E’ il momento in cui gli scettici e gli ignoranti possono sprizzare veleno. Gli increduli si divertono a irridere. Ma sono soprattutto quelli in malafede che, sguazzando nell’ampia palude degli imbecilli e increduli, utilizzano sapientemente quel momento di incertezza.

Tuttavia, rimane un salto da compiere. Un salto gigantesco, sospeso tra la vita e la morte. Nell’innovazione non si rimane a metà strada. O si salta sulla nuova sponda o si precipita nell’abisso della derisione e, a volte, della morte. Solo dopo questo viaggio, compiuto in un attimo che non ha tempo, si saprà se ancora una volta il miracolo è la vita. Il vaccinatore deve annunziare il suo messaggio di vita, deve mettersi alla prova. Deve accettare il duello mortale. Deve testimoniare con la sua disponibilità al sacrificio.

Parlare di un nuovo inizio significa prima di ogni cosa riportare alla memoria un’esperienza di grande solitudine. E’ sempre la solitudine il prezzo da pagare quando si deve decidere ciò che occorre proporre a se stessi e agli altri: perdere se stessi per ritrovare se stessi”. […]

[…]“Passato e presente”. In queste ultime pagine del libro mi permetto di rivolgermi, in modo diretto ai compagni di sempre e ai nuovi amici. Sarebbe un grave errore culturale ritenere che quanto avvenuto nell’1989 riguardi solo la storia del Pci e le vicende della più grande famiglia socialista. E ciò per due motivi. Il primo è che le contraddizioni, o se volete, i contrasti che si aprirono tra gli stessi fautori della svolta, da me precedentemente documentati, sono gli stessi contrasti che animano, o sarebbe meglio dire, che uccidono attualmente lo stesso PD. Riguardano la visione del partito e della riforma del sistema politico, la cultura della legalità e dei diritti, i rapporti tra politica, società civile e i movimenti, i destini dello stesso modello di sviluppo, l’idea di società, di Europa e di mondo. Su questi temi le diversità di opinione sono trasversali. Se gli uni dovrebbero evitare di trasferire nel PD il peggio del Pci, gli altri  dovrebbero evitare di portare in dote il peggio della Dc. Anche perché i due peggiorativi, com’è avvenuto contro Prodi, spesso si congiungono. Il secondo motivo lo riassumo in latino: de fabula narratur. Mi piace consegnare queste riflessioni allo stesso Matteo Renzi, per stimolarlo nella direzione, già intrapresa, della rottamazione non solo dei nomi, ma delle idee, senza smarrire il senso e le radici di un percorso che è comune in quanto inimmaginabile senza ciò che è avvenuto nell’89. La svolta ha avuto un effetto domino, nel bene e nel male, e ha favorito la trasformazione di tutti gli altri partiti. Piaccia o non piaccia, le cose sono andate così. Mentre io non so come sono fatte le poltrone di Palazzo Chigi e dintorni, queste sono state ampiamente frequentate da esponenti provenienti da Rifondazione comunista, partito nato come il Pds, dallo stesso Congresso di Rimini. La stessa fine dell’unità politica dei cattolici sarebbe stata impensabile e molto problematica dentro il vecchio sistema proporzionale e senza l’alleanza tra la nuova cultura istituzionale della svolta e il patto referendario di Segni. Sono questi i motivi per cui, soprattutto quando si parla ai giovani, non ci si può limitare, riferendosi al passato, a parlare delle proprie radici, laiche o cattoliche che siano. Il mio passato non fa tesoro solo della lezione di Gramsci e di Berlinguer, ma anche di quella di Matteotti, dei fratelli Rosselli e di Don Milani. Se si vuole alimentare il bacino di un nuovo grande fiume, non si possono disconoscere o chiudere alcuni suoi affluenti. Per questo voglio dire a Matteo Renzi, e a tutti gli amici che provengono da un’altra tradizione, che il loro stesso destino politico è legato al nuovo inizio e alla capacità di raccogliere, pur in un dialogo molto ampio con tutta la società italiana, il lascito di una tradizione di sinistra intrisa di tanti sacrifici, di lacrime e sangue, di molti errori, ma anche di grandi, bellissimi sogni.[…] (da La gioiosa macchina da guerra, di Achille Occhetto, Editori Internazionali Riuniti, 2013).

di Adriana Paolini

 

Linkografia:

Link youtube al video dell’intervista sopra riportata.

http://youtu.be/ja7o65UyBbg

Biografia sintetica di Achille Occhetto:

Achille Occhetto, deputato dal 1976, è stato segretario nazionale della Fgci, segretario generale del

Pci, e dal febbraio 1991 al giugno 1994 fondatore e segretario nazionale del Partito democratico

della sinistra. È stato co-fondatore e vicepresidente del Partito del socialismo europeo nel 1990, più

volte eletto deputato nel parlamento italiano e in quello europeo e presidente della commissione

Affari esteri della Camera (dal 1996 al 2001); inoltre è stato membro del consiglio d’Europa dal

2002 al 2006. Ha scritto: Intervista sul ’68 (Editori Riuniti), Per un nuovo movimento (Laterza),

L’indimenticabile ’89 (Feltrinelli), Il sentimento e la ragione (Rizzoli), Governare il mondo (Editori Riuniti), Secondo me (Piemme).

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