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Leydi e l’ “altra” musica.

Pubblicato il 12 settembre 2013 da redazione

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Roberto Leydi.

bella ciaoCanti partigiani, canti di lavoro, canti popolari italiani: come sono sopravvissuti fino ai nostri giorni? Come facciamo a conoscerli così bene e a cantarli alle manifestazioni o alle feste di paese?

Fu Roberto Leydi, il primo etnomusicologo italiano, che, dopo un viaggio nel Bronx americano alla scoperta della musica dei poveri, si rese conto che non occorreva prendere un aereo per ascoltare nuovi suoni: fino a quel momento, gli studiosi si erano impegnati solo nella ricerca e nella raccolta di realtà musicali extracontinentali (81), dando per scontato il loro stesso paese; in tutti i trattati si parlava di musica africana, indiana, cinese, americana, araba… ma mai di quella europea, Italia compresa.

Ormai consapevole di questo, Leydi si prodigò al fine di riportare alla luce il folklore del suo paese: fece visita alle famiglie delle campagne italiane e registrò canti partigiani come “Bella Ciao”, canti di mondine come “Mamma mia dammi 100 lire” e persino i canti di lavoro dei pescatori di tonnare. Pubblicò il frutto delle sue ricerche e registrazioni in varie raccolte, la più nota delle quali è il “Nuovo Canzoniere Italiano”, divenuto manifesto del falk revival del paese.

NuovoCanzoniere3Antologia Leydi Dopo questa suo studio sul campo, diresse la collana “Alia musica” e la rivista “Culture musicali”, nella quale venivano pubblicati articoli sulle ricerche etnomusicologiche di luminari della disciplina, ma anche novità in merito al folklore italiano e non, dopodichè cominciò ad insegnare etnomusicologia al DAMS di Bologna; nello stesso periodo, rese disponibile la sua collaborazione per le prime sperimentazioni radiofoniche del neonato studio della RAI, tra i quali il tributo all'”Ulysse” di James Joice, con la collaborazione di Umberto Eco.

Il lavoro di Roberto Leydi diede un contributo notevole alla ricerca etnomusicologica europea, ma soprattutto penetrò a fondo il contesto culturale italiano: fu così importante che venne allestito uno spettacolo teatrale, con la collaborazione di Dario Fo, intitolato proprio “Bella Ciao” per portare in scena i canti popolari e farli conscere anche ad un pubblico più colto. Purtroppo l’idea della performance del rinomato attore non coincideva con lo spirito della rappresentazione: Fo aveva in mente un vero e proprio spettacolo teatrale, con tanto di costumi e scenografie, mentre quello che premeva a Leydi era la rappresentazione della pura e semplice musica, senza elementi che distraessero lo spettatore. Conseguentemente a questa divergenza di opinioni, la collaborazione si sciolse e nacque un nuovo spettacolo, chiamato sempre “Bella Ciao”, nel quale, questa volta, i canti erano semplicemente intonati e suonati dal vivo da gruppi di musicisti falk revival.

Quest’anno, per il decimo anniversario della morte di Roberto Leydi, avvenuta nel 2003, il professor Scaldaferri, docente di etnomusicologia nella facoltà di beni culturali dell’università statale di Milano, ha organizzato una serie di conferenze in ateneo alle quali ha invitato i principali collaboratori dello studioso, tra cui sua moglie Sandra Mantovani ed Umberto Eco.
Insieme hanno ricordato con tanto affetto e tanto coinvolgimento il prezioso collega ed amico, ma soprattutto il suo ruolo importante nel panorama culturale quale primo studioso italiano della musica “altra”, non colta, tradizionale, quella che è sempre stata emarginata dalla cultura benpensante per la sua origine in un contesto di protesta sociale e di povertà. E’ stato ricordato anche per la donazione del suo intero archivio privato (ben 700 strumenti musicali, 10.000 libri, 6.000 dischi, 1400 nastri magnetici con le sue registrazioni) al Centro di dialettologia e di etnografia di Bellinzona, in Svizzera, avvenuta pochi mesi prima della sua morte.

Dunque oggi, alle manifestazioni, alle feste di paese, o semplicemente in cerchio sulla spiaggia con una chitarra in mano, quando si rievocano i canti della nostra tradizione bisognerebbe ricordare che parte della gioia messa in quelle note la dobbiamo a quest’uomo, ritratto nelle ultime foto con le sembianze di un nonno dalla lunga barba, seduto davanti al suo computer in uno studio disordinato, pieno di strumenti e scartoffie, lievemente annebbiato dal fumo di un sigaro.

di Valentina Geminiani

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