Categoria | Cultura

Kostantinos Kavafis

Pubblicato il 29 luglio 2015 da redazione

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Ho sentito di uno scrittore che di fronte al mare non faceva nulla; posava la penna e guardava l’orizzonte. Pura umiltà di un piccolo uomo di fronte all’immenso. Del resto nulla è più testardo del mare… ed una testardaggine così incanta chiunque, perfino uno scrittore.


Tutto parte da una piccola onda, lontana, lontana. Sembra solo un ricciolino da niente visto dalla spiaggia, una ciocca ribelle sulla fronte della signorina Acquamarina, invece è una forza leggera, che parte piano e cresce fino a riva, si fa grande e bella per il bagnasciuga, raccogliendo schiuma come pizzo su un velo da sposa, fa un ultimo inchino, più profondo degli altri, ed eccola tornare tenera ad accarezzare la terra. Mai riuscirà ad afferrare quell’innamorato impossibile e mai smetterà di provarci. Quel mare che porta a riflettere sul senso di infinito, che rimanda alle conquiste e alle sconfitte della storia antica, al peregrinare di Ulisse e a Nettuno, re dei flutti, è lo stesso che al mattino luccica sommessamente d’estate, impreziosendo scorci di paesaggi nel mostrarsi timido tra il profilo degli alberi e dei tetti. Sarebbe bello dipingere un quadretto con la sagoma di un uomo serio di fronte al mare; disegnato immobile, seduto su uno scoglio, sul lato della tela, oppure in piedi a gettar sassi rompendo le increspature dell’acqua. Un uomo che, un po’ come il mare, raccoglie in sé il vecchio e il nuovo, apparendo senza tempo, per chi guarda la scena dall’esterno.

 

Il poeta saggio e sincero che mischia mito a vita vera.

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Kostantinos Kavafis lo racconterei così, come un’ombra silenziosa ad osservare il mare, con il cielo trasformato in un foglio bianco su cui rappresentare immagini e ricordi di una vita vissuta in prima persona o ereditata dalla storia. Sembra tutto molto etereo, ma non basta un quadretto a descrivere un paesaggio. La vita raccontata da Kavafis è fatta di sensi, di vento, di carne e di vivo sentire, espresso in un caleidoscopio di frammenti crudi e taglienti. Un mosaico alla greca, quasi. Tanti tasselli diversi e fittamente collegati, che perdono la loro netta piccolezza nella meraviglia dell’insieme.

Kostantinos nasce ad Alessandria d’Egitto, come Ungaretti, stimato collega; due uomini uniti da una sola terra e da un solo destino, accolti reciprocamente da due paesi affacciati sullo stesso Mediterraneo. La Grecia è la terra d’origine di Kavafis e dei suoi genitori, la patria di cui onorarsi di essere cittadino, ma Alessandria resterà sempre la sua casa, un luogo evocato nelle sue poesie come una terra immaginifica – un po’ nido, un po’ prigione –  a cui volgere il pensiero per riposare la mente, per ascoltare il sussurro delle leggende e vivere interamente la vita. Una vita riempita di fatti, di operosità –Kavafis fu giornalista, operatore di borsa, interprete e dipendente al ministero di Alessandria – in cui la poesia non era una sposa, ad aspettarlo a sera, ma un’amante discreta, da nascondere al mondo e da accarezzare in silenzio, nel buio.
Una passione sottile sfociata in due raccolte di poesie pubblicate nel primo Novecento e in un successo inatteso, che lo accompagnò fino alla sua morte, avvenuta nel 1933, il 29 aprile, lo stesso giorno che lo vide venire alla luce.
Un inconsapevole esempio di ciclicità, che ricalca il suo vissuto senza tempo: nascere e morire, solo due momenti di uno stesso percorso, che ritorna e si ripropone anno dopo anno, vita dopo vita, racconto dopo racconto, in una giostra che mischia sfrontatamente la contemporaneità con il passato, annullando ogni distanza.

Basta una parola, un’immagine suggerita da un verso asciutto per far risorgere una memoria eterna, per spalancare le porte dell’Ade e riportare in vita la voce dei morti.

 

Voci ideali e care
di quanti morirono o di quanti sono
per noi persi come morti.

Talvolta parlano nei nostri sogni,
talvolta le ode nel pensiero la mente.

E con il loro suono affiorano
suoni della prima poesia della vita –
come musica che si spegne, lontano, nella notte.

Kavafis parla della fragilità della vita come di una fortuna mirabile: la continuità tra ieri e oggi, tra morti e vivi. Noi raccogliamo su di noi ciò che ci è stato lasciato e il testimone delle vite altrui diventa a tratti beneficio e a tratti danno: una missione da portare a termine. Si tratta di ascoltare le voci antiche per interpretare il presente e di ricordarsi che tutto finisce e ricomincia, in un consolatorio e rapido alternarsi di inverni e primavere. E’ questa la linea che tiene insieme gli scritti del poeta alessandrino: la consapevolezza di quanto tutto sia proiettato verso l’eterno e destinato a ritornare, prima o poi, in qualche forma. La vita è vista con lo spirito pieno del decadentismo novecentesco: una fila di candele accese davanti a sé, che inesorabilmente si spengono, aumentando il nero della notte alle spalle.

 

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“I giorni del futuro ci stanno davanti
Come una fila di candele accese –
Calde, dorate e luminose

I giorni del passato restano indietro,
triste fila di candele spente,
le più vicine mandano fumo ancora,
fredde, consunte e storte.

Non voglio più vederle: mi addolora la vista,
e mi addolora della loro prima luce il ricordo.
Guardo avanti le candele accese.

Non voglio girarmi e con terrore scoprire,
come presto si fa lunga la fila buia,
come presto aumentano le candele spente.”

 

Si apre dunque lo spazio per un nemico sottile: il rimpianto, che accompagna inevitabilmente la fugacità di un’esistenza che sfugge al controllo.
Le origini del poeta si fanno strada con prepotenza, imponendo al lettore questa idea maestosa e crudele di moira, di destino irrinunciabile, impossibile da fuggire, ma non sufficiente ad evitare la nostalgia di quello che sarebbe potuto essere e non è stato.

 

(…) E sprezzante dell’atroce vecchiaia
pensa a quanto poco aveva goduto gli anni
in cui aveva forza, eloqui e bellezza.

(…) E pensa a come la Saggezza l’aveva deriso,
e a come si era sempre fidato – che pazzia! – di lei,
bugiarda, che gli diceva: «Domani. Hai tanto tempo.»

 

Forse la grandezza dell’ananke, quel fato tanto descritto nella mitologia classica e nei poemi omerici, ci viene riproposta da Kavafis come una semplice ruota che gira – lasciandoci poco tempo per fare e per dire – e capace di coglierci alla sprovvista, instillando in noi il sorriso vuoto dell’incoscienza. Umanizzato il mito, ecco che si apre un ventaglio di sentimenti correlati, primo fra tutti l’illusione della speranza e poi il delirio di onnipotenza, che prima o poi verrà a riscuotere il conto da chi è stato tanto tracotante da pensare di sottrarsi alle leggi della vita. In fondo è questo – dice Kavafis – il tragico privilegio dell’umanità: la mancanza di controllo su ciò che succederà.
L’eroismo dunque si frantuma in mille pezzi di fronte alla realizzazione di una innata inconsapevolezza  intrecciata al destino umano.

Kavafis parla di sé come di un uomo raccolto in questa dimensione universale, solo, tra tanti, soli come lui.
Ed ecco che tra i versi si fa strada la storia personale del poeta e il suo senso di distacco dagli altri, nella celebrazione di una solitudine ancestrale, profonda, come quella degli eroi del mito, chiamati in schiere a combattere, in fondo, solo per salvare se stessi.

 

Senza riguardo, senza pietà, senza pudore
mi hanno costruito intorno grandi e alte mura.

Ed ora sto qui seduto e mi sento disperato.
Non penso ad altro: questa sorte mi divora il pensiero;

con tante cose che avevo da fare là fuori.
Quando costruivano le mura, come non accorgermene.

Ma non ho mai sentito rumore né voce di operai.
In maniera impercettibile, mi hanno chiuso fuori dal mondo
.

 

Il destino rimane la guida del nostro incedere, eppure sembra possibile scorgere una piccola scorciatoia da imboccare per difenderci dal confronto con l’eterno e l’immortale: il sentimento, forza e debolezza di tutti gli uomini, di fronte al quale il mito e persino gli Dei fanno un passo indietro.

 

         Come videro Patroclo ucciso,
lui cosi coraggioso e giovane e forte,
i cavalli di Achille piansero:
la loro natura immortale s’indignava
per quel disastro di morte davanti ai suoi occhi.

(…)Zeus vide le lacrime dei cavalli
immortali e si commosse.
(…) « Voi che né morte sfiora né vecchiaia,
precarie sventure vi rendono afflitti. Coinvolti
dagli uomini nei loro tormenti.»

 

La compassione sboccia come un benefico fiore tra le macerie delle incertezze mortali.
Sentimentalmente è possibile trovare riparo dalla precarietà del fato abbandonandosi alle emozioni, che – per quanto precarie anch’esse –sanno incanalare le energie sul momento presente, che ci libera per poco dal peso del passato e dalla paura del futuro.
Ne deriva una poesia ironica, che racconta di uomini folli, illusi, ma teneri, che vagano nel mondo credendo di aver trovato il modo o la fortuna di scampare alla sorte che temono.
Verrà così raccontato Nerone che, a trent’anni, quando l’oracolo di Delfi gli predisse di “ Temere i Settantatre anni”, si illuse di avere molto tempo innanzi a sé da vivere, non sapendo che nel frattempo, in Spagna, Galba, re settantatreenne, si preparasse a muovergli guerra. Allo stesso modo Kavafis chiamerà beati quei genitori che, ignorando la morte del proprio giovane figlio, gioiranno pensandolo sempre vivo, seppur nell’illusione.

Ci raccontiamo favole per evitare di soffrire e spesso preferiamo vedere solo ciò che ci conviene, ma, destati dal sogno – dice Kavafis – resterà poco spazio per i racconti: arriverà prima o poi qualcosa che ci colpirà proprio dove non ci aspettavamo, indipendentemente dagli sforzi di prevedere quel male e di prevenirlo.

In preda a timori e sospetti,
con la mente turbata e la paura negli occhi,
ci logoriamo pensando a come fare
per scansare il pericolo
che terribile incombe minaccioso.
(…)
Un’altra sciagura, insospettata,
improvvisa, violenta ci cade addosso,
ci coglie impreparati – non c’è più tempo – e ci travolge.

 

L’eco delle parole del poeta è potente: malgrado i tentativi, restiamo sempre esseri umani, piegati a qualcosa più grande di noi.

Che fare dunque?
Godersi l’emozione del momento e riservarsi il privilegio di ricordarla, per trovare sollievo o imparare una lezione.
In questo modo è descritto dal poeta l’amore, come uno spettacolo di fuochi d’artificio che esplodono ad uno ad uno nel cielo, illuminando la notte per un istante, ma di cui, al mattino, resta solo il boato. L’amore descritto da Kavafis è un amore edonistico, dipinto teneramente attraverso frammenti delicati e sensuali di momenti rubati e preziosamente custoditi nella memoria. Basterà un gesto, un sapore, un luogo, un profumo a rievocare l’emozione del primo amore, la carezza delicata sul corpo del primo amante in una camera povera e volgare, nascosta sopra l’equivoca taverna, o l’azzurro zaffiro di due occhi quasi dimenticati, ma vivi.

Kavafis nelle sue poesie d’amore ci parla di sé, della propria giovinezza ad Alessandria, della scoperta della propria omosessualità, vissuta apertamente, malgrado i tempi, e delle proprie esperienze sentimentali.

 

Si era lasciato del tutto     andare. Una tendenza erotica
troppo vietata               e disprezzata
(innata tuttavia)         ne era la causa;
la società era                   molto puritana.
Aveva perso via via       i suoi pochi soldi;
poi la posizione            e il suo buon nome.

(…)
Cambiando punto di vista    apparirà infatti
un simpatico, semplice            e schietto ragazzo
d’amore che                        al di sopra dell’onore
e del suo buon nome                ha posto senza esitazione.
il puro piacere                     della pura carne.

 

Il poeta scrive di momenti dolci e intimi, di attrazioni sottili e disarmanti, di silenzi, di passioni semplici e pure, di incontri fugaci e raccolti, malleabili fino all’eternità, nel ricordo.
Come se ogni volta, in un abbraccio nuovo, fosse possibile vivere un pezzetto di infinito, ricominciando da capo ad innamorarsi e a stupirsi della bellezza dei lineamenti dell’amato, a cui sarà concesso dire “ per sempre” senza mentire. Non importa se si tratti di una relazione di anni o di un pomeriggio d’amore improvvisato, Kavafis accosta i ricordi uno vicino all’altro e li desidera tutti, seguendone la scia per la città e appigliandosi ad ogni cosa pur di riassaporarne l’ebbrezza.

 

(…) E ieri,
come passavo da quella vecchia strada,
subito si fecero belli per fascino d’amore
i negozi, i marciapiedi, le pietre,
e muri, e balconi, e finestre:
nulla di brutto vi era rimasto.

E mentre stavo lì e guardavo la porta,
e stavo immobile, e mi attardavo sotto la casa,
tutto il mio essere mi restituiva
l’emozione d’amore a lungo in me serbata.

 

Resta forte la malinconia della vita che corre veloce, ma da questa certezza sgorga la passione e brilla, alleggerendo il fardello. Non serve un linguaggio diverso per parlare degli uomini di oggi e di ieri, Kavafis accomuna i temi trattati con la chiarezza del lessico e la nettezza stilistica. Il poeta non indugia in sentimentalismi o retorica, ma colpisce con fermezza, andando dritto al bersaglio, con l’apparente distacco del buon cantastorie.

 

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La poesia di Kavafis è una poesia d’impatto, senza fronzoli, che racchiude in sé la classicità della cultura greca e la modernità socio-culturale del primo Novecento; basta poco per apprezzarne la sottile saggezza e la purezza fresca e rumorosa, così simile al mare da annegare in essa.
Ed ecco che torna quell’uomo, piccolo e solo, sulla spiaggia, che di fronte all’alba sonnecchia, ma si stupisce della bellezza del paesaggio, aprendo per un istante gli occhi.

 

Fermarmi qui. Per vedere anch’io un po’ la natura.
Luminosi azzurri e gialle sponde
del mare al mattino e del cielo limpido: tutto
è bello in piena luce.

Fermarmi qui. E illudermi di vederli
( e davvero li vidi un attimo appena mi fermai);
e non vedere anche qui le mie fantasie,
i miei ricordi, le visioni del piacere.

 

Nel silenzio di un mare al mattino, sarà dunque chiara anche a noi, in una manciata di versi, l’eternità di una storia dipinta sulla tela del cielo.

 

di Mariaelena Micali

 

Fonte:

Poesie d’amore e della memoria,  Kostantinos Kavafis, Newton Compton Editori, edizione 2006.

“I giorni del futuro ci stanno davanti

Come una fila di candele accese –

Calde, dorate e luminose

I giorni del passato restano indietro,

triste fila di candele spente,

le più vicine mandano fumo ancora,

fredde, consunte e storte.

Non voglio più vederle: mi addolora la vista,

e mi addolora della loro prima luce il ricordo.

Guardo avanti le candele accese.

Non voglio girarmi e con terrore scoprire,

come presto si fa lunga la fila buia,

come presto aumentano le candele spente.”

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