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Il monastero di San Benedetto Po in Polirone

Pubblicato il 19 gennaio 2023 da redazione

Abazia San Benedetto Po

pianta monastero

 

La storia e le origini del monastero di San Benedetto PO
L’area in cui sorge il Monastero di San Benedetto in Polirone intorno all’anno 1000 è poco più che una boscaglia selvaggia, circondata dal Secchia, Lirone e Po. Delle arginature innalzate dagli etruschi e dai romani non vi è più traccia. L’area, paludosa e malarica presenteva solo alcune piccole isole disseminate. Su queste si erano stabilite piccole famiglie, alloggiate in miseri tuguri, che vivevono coltivando piccolissimi appezzamenti e soprattutto di caccia e pesca, come attesta l’incipit dell’atto di donazione di Tedaldo ai monaci del monastero di San Benedetto, “exceptis colonis qui supra res ipsas habitant“.
Sulla più elevata di quelle isole, che si chiamava Muricola o Arcamuricola, sorgeva una cappella votiva dedicata a San Benedetto, per la quale Tedaldo di Canossa riservava grande devozione, così quando questi riesce a estendere i suoi domini a Ferrara e a ottenere il titolo di marchese e comandante di Lucca, prima sede dei duchi di Toscana, nel 1003 rende grazie a Dio innalzando un monumento votivo là dove sorgeva l’umile cappella di San Benedetto. L’ampia chiesa sarà dedicata alla Vergine, a San Benedetto, a San Michele Arcangelo e a San Pietro, unitamente ad altri fabbricati in cui potessero dimorare 8 monaci benedettini, incaricati di ufficiare la chiesa. Così facendo Tedaldo fondava quello che sarebbe diventato il monastero, il cenobio, di San Benedetto in Polirone, così chiamato perché collocato alla confluenza dei fiumi Po e Lirone.

Su tutti i beni donati da Tedaldo al cenobio i monaci esercitavano potere di possesso, potendo procedere alla vendita o permuta di ogni cosa, senza bisogno di alcun permesso da Tedaldo o dai suoi fututi discendenti.
L’atto di donazione viene redatto nel giugno del 1007 nel castello di Canossa. (1)

Il figlio Arrigo, marchese di Bonifacio seguirà l’esempio dei suoi predecessori, con donazioni principesche, come testimoniano diversi atti di donazione. La sempre maggior ricchezza del monastero permette di migliorare, nel corso del tempo, la condizione del territorio attraverso numerose opere di bonifica. Diversi contadini/rustici, accorrono da ogni parte ad offrire i loro servigi ai monaci, trasformando con il loro tenace lavoro le zone paludose in campi rigogliosi e conservando i boschi e le zone di pesca in buona salute, che si estendevano fino a Quistello.

 

San_Simeone

Nel 1014 arriva al convento San Simeone, nato in Armenia, che lasciata la casa paterna decide di dedicarsi alla vita di eremita. In seguito intraprende un lungo periodo di pellegrinaggi in diversi santuari, attraverso l’Asia e l’Europa, che lo portano fino a Pisa, Lucca e Roma, convertendo lungo il suo cammino molti ebrei al cristianesimo. Si reca quindi in Francia e Spagna e nel 1014, tornato in Italia sosta a San Benedetto. I monaci gli offrono di vivere in monastero, ma San Simeone preferisce vivere in una meschina capanna, in cui trascorrerà gli ultimi anni della sua vita, fra mortificazioni, digiuni e preghiere. Morirà nel 1016 e verrà subito canonizzato santo.

 

Matilde-di-Canossa_4

matilda-di-canossa_1

Nel 1046 Bonifacio di Canossa, rimasto vedovo, sposa in seconde nozze Beatrice di Lorena da cui ha tre figli, Federico e Beatrice che muoiono fanciulli e Matilde. Bonifacio muore nel 1052 e Matilde, unica sua figlia eredita e governa l’intero territorio dei Canossa. Di animo pio e cattolico, Matilde di Canossa rinnova i suoi favori al monastero e in particolare per padre Anselmo, il suo direttore spirituale, che presto diventerà vescovo della chiesa e non potrà più occuparsi a tempo pieno del monastero, trasferendone la cura all’abate Willelmo e convogliando il monastero di San Benedetto nella Congregazione di Cluny in Borgogna nel 1077.

Di quegli anni è la riforma di Papa Gregorio VII per le investiture, contro Arrigo IV, che troverà in Matilde di Canossa una valorosa sostenitrice.
Morto Willelmo (1098) i monaci eleggono loro padre spirituale l’abate Alberico, capo della Congregazione Cluniacense.
Nel 1105 il monastero risultava possessore di:
– Mezza isola di San Benedetto, comprese tutte le decime, le selve, le aree di pesca e la chiesa di San Biagio.
– Tutta l’isola di Gurgo, comprese paludi e selve.
– Il castello e la villa di Quistello.
– Il monastero di San Benedetto di Gonzaga e la chiesa di San Batrolomeo, comprese decime e pertinenze.
– Le ville di Vico e Gabbiana e la chiesa di Sant’Andrea, comprese decime e pertinenze.
– La chiesa di San Siro e San Venero e metà del castello.
– Molte altre chiese e cappelle dei vescovadi di Brescia, Ferrara, Bologna, Parma, Malamocco e Lucca.

Il papa allora proibisce di creare nelle suddette chiese Abati, dichiarandole altresì esenti e immuni da ogni autorità e non soggette a scomunica o interdetto.
Toglie anche ai vescovi l’autorità di celebrare messe solenni o adunanze nel monastero o quella di scomunicare luoghi o monaci di San Benedetto, senza aver prima consultato la Santa Sede.

Il 1° marzo 1109, Matilde infine dona l’intera isola di San Benedetto e fa testamento che alla sua morte spettasse al cenobio tutta la sovranità da lei esercitata e altresì l’amministrazione dell’Ospitale di Ognissanti in Mantova, dove trovavano alloggio e cura i pellegrini poveri che di là transitavano. Ospitale che Matilde stessa aveva fatto erigere. Al monastero affidò anche la cura della sua collezione di libri, (che oggi formano la collezione del Polironiana) a cui i monaci si dedicavano a copiare e miniare.

tomba_matilde di canossa

Matilde muore il 24 luglio 1115 a Bondeno e il suo corpo viene trasportato nella chiesa del monastero di San Benedetto, che lei stessa aveva predisposto e in cui per suo espresso desiderio voleva essere sepolta.
Al monastero lasciava quasi tutti i suoi beni e ne ribadiva la completa indipendenza. Le sue reliquie saranno poi trasferite a Roma.

 

Il monastero e la regola “Ora, leget et labora”
Il monastero è autosufficiente in tutte le sue attività.
Nella piazza principale di San Benedetto si erge una statua di Matilde di Canossa che indossa l’armatura da guerriera e impugna la spada. In chiesa Matilde è rappresentata con in mano un frutto di melagrana, che con tutti i suoi chicchi uniti, rappresenta la condivisione, la solidarietà e la prosperità della comunità cristiana.

I monaci ->> MONACUS = SOLO
Il monaco vive di preghiera alla ricerca di Dio.
In Oriente i monaci vivono soli come eremiti, in Occidente vivono in comunità e seguono la regola di San Benedetto da Norcia: “Ora, leget et labora”.
Tre parole imperative: prega, leggi/studia e lavora.

Ora ->> La preghiera è il momento più privato di ricerca di dialogo con Dio, ognuno nella propria cella (ma anche tutti insieme, collettivamente in oratorio, in refettorio e nel coro dell’altare.
I momenti di preghiera quotidiana erano diversi, partire dalle prime luci dell’alba, e secondo orari che cambiavano anche in base alle stagioni:
⦁ lodi del mattino (appena svegli)
⦁ prime
⦁ terze
⦁ seste
⦁ none
⦁ vespri
⦁ compieta (prima di coricarsi)
⦁ vigilie notturne (si alzavano dopo la mezzanotte).

L’Abate ->> Abbas = padre/capo spirituale
Al mattino tutti i monaci si riunivano nella sala del Capitolo, per ascoltare o portare le loro istanze all’Abate che guidava tutta la comunità monastica.
Tutti dovevano obbedienza, devozione e rispetto all’Abate, che era scelto e nominato dai monaci del monastero. La sua elezione avveniva nella sala del Capitolo.
L’Abate era responsabile per tutti e di tutti i monaci dell’Abazia.
Ogni giorno, i monaci riuniti nella sala del Capitolo leggevano uno dei 73 precetti/capitoli della regola di San Benedetto.
Se si considera che in un anno ci sono 365 giorni e li si divide per 73, se ne evince che ogni precetto veniva letto e meditato durante l’anno almeno 5 volte.
Ogni capitolo, spiegato per bene dall’Abate e meditato per almeno 5 volte durante l’anno, era quindi ben conosciuto da ogni monaco. Perciò, se veniva disatteso/disubbidito/non osservato, ai trasgressori venivano assegnate punizioni e anche fustigazioni corporali, fino all’allontanamento dal monastero, per decisione dell’Abate. (si dice …“avere voce in capitolo”).
Nella sala del capitolo, ogni monaco aveva la possibilità di esprimersi, con osservazioni, riflessioni, suggerimenti e anche critiche su quanto avveniva nel monastero e alla fine l’Abate faceva sintesi, prendendo le decisioni su quanto necessario a risolvere le diverse situazioni.
Occorre tener presente che spesso i monaci erano nobili che facevano voto di povertà e obbedienza alla Regola.

Labora ->> L’intera vita di ogni monaco era incentrata non solo sulla preghiera, ma anche sul lavoro. “Il lavoro allontana l’ozio, che corrompe l’anima”, questa era la stella polare. Lavorare equivaleva, dunque, a pregare. Attraverso il lavoro si partecipava, infatti, all’opera creatrice di Dio.
Prima di questa epoca il lavoro era un’attività riservata solo a servi e schiavi. I nobili non lavoravano, anzi disdegnavano il lavoro in quanto tale. Fu solo con San Benedetto che il lavoro venne “nobilitato”.
Tutta la vita monastica e le attività che si svolgevano ogni giorno miravano alla completa autosufficienza del monastero stesso. I monaci costruivano i muri per l’ampliamento delle diverse parti del monastero, preparandosi da soli i mattoni che fabbricavano con l’argilla e che poi cuocevano nelle loro fornaci. Tessevano i filavano i tessuti con cui confezionavano le loro vesti e ogni arredo necessario alla loro vita, che costruivano nel loro laboratorio di falegnameria.
Coltivavano ortaggi, cereali, legumi e ogni altra pianta necessaria al loro sostentamento.
Ogni alimento veniva predisposto in vario modo. Per esempio macinavano i diversi cereali che avevano coltivato, riducendoli in farina, che usavano poi per preparare il pane.
Allevavano piccoli animali domestici, come capre, pecore e mucche, con il cui latte preparavano il formaggio. Le pecore venivano tosate per la loro lana.
Gli animali venivano poi uccisi, oltre che per le carni, essiccate per l’inverno, anche per ricavare dalle loro pelli i fogli di pergamena su cui scrivere. La pergamena più pregiata, il vellum, si ricavava dalla pelle di vitello.

 

Lo scriptorium

Scriptorium

Scriptorium ->> luogo della scrittura
Si trattava di una porzione del complesso monastico, una vasta sala illuminata da numerose finestre dove si svolgeva l’attività di copiatura da parte dei monaci amanuensi, che lavoravano posizionati in modo da ricevere la maggior quantità di luce possibile e il maggior numero di ore.
I monaci impegnati in questa attività erano:
⦁ gli scriptoris ->> scrivevano il testo di tutte le pagine del codice, lasciando degli spazi vuoti per le decorazioni e le lettere miniate, che servivano per l’incipit di ogni nuovo argomento del testo.
⦁ i miniatoris ->> disegnavano le lettere miniate e le decorazioni negli spazi lasciati vuoti dagli scriptoris
⦁ il magister ->> organizzava il lavoro dell’intero processo.

I Codici
Il manto degli animali, una volta essiccato, veniva schiacciato, raschiato e schiarito e ritagliato in fogli rettangolari. Ogni foglio era, quindi, ripiegato una volta e poi piegato una seconda volta a formare un quaderno di quattro pagine. Legando poi più quaderni fra loro si otteneva un libro, detto codice. Per scrivere sulle pagine dei codici occorreva preparare un inchiostro che aderisse bene alla superficie dei fogli preparati, detto inchiostro ferrogallico, che serviva per il testo dei codici.
L’inchiostro ferrogallico si otteneva mescolando, in varie proporzioni, alcuni tipi di “galle”, escrescenze della corteccia di alcuni alberi come la quercia, ricche di tannini, e diverse altre piante e terre, ridotte in polvere nel mortaio. La polvere ottenuta veniva poi mescolata con resina, albume d’uovo, latticello di fico e miele, a formare un inchiostro facile da stendere, scorrevole, che aderiva perfettamente alla superficie.
Per gli inchiostri colorati, invece, che servivano per le decorazioni e le lettere miniate si usavano, per esempio, due minerali, il Minio per il colore rosso saturno e il lapislazzuli (lapis=pietra) per il colore blu oltremare, anch’essi ridotti in polvere nel mortai e poi addensati con gli altri componenti fra cui l’olio di lino.
Per scrivere e stendere l’inchiostro si usava una penna d’oca o altra piuma di volatili di grandi dimensioni.

Tutti i monaci sapevano leggere, lo imponeva la loro regola, ma pochi sapevano scrivere.
La lettura permetteva la riflessione e la meditazione dei 73 precetti.
Tra le maggiori qualità dei monaci, infatti, oltre alla fedeltà, la responsabilità, l’obbedienza, l’umiltà, la generosità, l’accoglienza e la gentilezza c’era il saper stare in silenzio/taciturnitas, per ascoltare se stessi e il mondo, in meditazione, contemplazione dell’opera di Dio. Il silenzio, dunque, come valore. Anche parlare, ma sottovoce.

 

La biblioteca

Codex Amiatinus

codici

Presieduta dal monaco armarius (il bibliotecario del monastero), la biblioteca conteneva migliaia di libri, disposti per materie lungo le pareti della sua sala. L’ultimo armarius fu lo stesso abate Mauro Mauri, prima che Napoleone Bonaparte, nel 1797 sopprimesse il monastero. Quasi tutto il patrimonio artistico fu disperso salvo alcune centinaia di manoscritti oggi conservati nella biblioteca teresiana di Mantova.

 

Infirmarius

Infermeria ->> Infirmarius (infĭrmus =”debole”)
Il monaco che presiedeva l’Infermeria era l’Infirmarius, che preparava:

Decotto
Per estrarre dalle erbe le loro proprietà curative, si bollivano per un certo tempo tutte le parti fresche della pianta (foglie e corteccia) nell’acqua, si filtrava e si beveva.

Cataplasma
Si bollivano per un certo tempo tutte le parti della pianta fresca (foglie e corteccia) nell’acqua, si filtrava l’acqua e le parti della pianta bollite si avvolgevano in una pezzolina e il cataplasma così ottenuto si applicava alla parte del corpo ammalata.

Fumigazioni
Le erbe fresche venivano messe a bollire nell’acqua calda fino a ebollizione. Poi si toglieva il contenitore dal fuoco e si respiravano i fumi.

Sciroppo
Si bollivano le erbe insieme al miele, poi si filtravano le erbe e il liquido denso così ottenuto si raffreddava e si conservava in contenitori adeguati, per usarlo all’occorrenza.

Infuso
Si faceva bollire l’acqua, si toglieva il contenitore dal fuoco e vi si immergevano le erbe essicate per qualche minuto. Si filtrava e si beveva.

Le erbe medicinali
Alloro, Salvia, Rosmarino, Camomilla, Malva, Ortica, Timo, Isoppo.

 

Il cibo e il refettorio

refettorio_correggio-architetture-polirone

La presenza dei monaci nel territorio favorisce la bonifica del terreno, l’incanalamento delle acque, per raccogliere e scolare gli acquitrini, che restituisce terre coltivabili e canali irrigui. Il bosco forniva la selvaggina, con caprioli e maiali selvatici e le noci fornivano l’olio. Il cibo prodotto veniva conservato sotto sale, proveniente dalle saline vicino a Venezia, o essiccato al sole, o anche sotto aceto e sott’olio o più semplicemente conservato nelle giazzare sotto ghiaccio, ricavato dalle lastre che si formavano, d’inverno, sulla superficie delle acque dei fiumi.

Dall’orto ricavavano la rapa rossa, i cereali maggiori come il grano, l’orzo e il farro per la panificazione o i cereali minori come il miglio. Mais e riso arriveranno solo nel 1400. C’erano poi le zucche, da cui ricavavano anche contenitore per acqua e vino e i legumi come fagioli, lenticchie, ceci e fave.
Il latte munto dagli animali domestici veniva usato per produrre formaggio.

Il pasto veniva consumato nel refettorio dove tutti i monaci sedevano in silenzio, ascoltando la lettura dei libri sacri.
Si trattava di pasti frugali (“ne mangioni ne beoni”, recitava la regola) a base soprattutto di polentine di miglio, verdure, formaggio e zuppe di legumi. L’acqua era più spesso malsana e quindi piuttosto si beveva poco vino. Carne rossa e sangue se ne consumava pochissima perché istigava istinti bestiali, salvo riservarne piccole quantità ad anziani e malati.
Nel refettorio troneggiava un grande affresco del Correggio, che incorniciava una grande tela a olio, di Frate Girolamo Bonsignori, con ritratta l’ultima cena. Giuda è l’unico apostolo senza aureola con in mano il sacchetto di monete prese per tradire Gesù.

 

Il chiostro dei Secolari, i laici pellegrini e l’importanza delle reliquie sante

conchiglia

Il monaco ospitaliere gestiva la foresteria in cui arrivavano i pellegrini. In questo locale c’è un affresco che ritrae uno scheletro con la corona. Si tratta della morte incoronata come una regina, a simboleggiare il suo trionfo finale su tutti, ricchi e poveri, miseri o potenti. “Se tu spenderai la tua vita in cose vane, a che servirà la vita. Ma se farai opere buone, il tuo corpo morirà, ma la tua anima e il tuo spirito rimarranno”.

L’affresco racconta dunque questa storia ai pellegrini, che a piedi raggiungevano i luoghi santi e sacri, per pregare, ricevere grazie e indulgenze attraverso le reliquie dei santi o che più semplicemente ricercavano Dio. Camminavano sempre con un bastone, il bordone. Arrivavano stanchi, malati, con i pieni pieni di vesciche, denutriti e disidratati. Portavano un cappello a larga tesa e un’unica veste il saio e un grande mantello chiamato schiavina e in ultimo una bisaccia con le loro povere cose.
I simboli dei pellegrini erano la conchiglia di San Giacomo, per chi seguiva il cammino di Santiago di Compostela, le chiavi incrociate per quelli che si recavano a Roma per pregare sulle tombe di San Pietro e San Paolo e la palma di Gerico per chi si recava nei luoghi cristici come Gerusalemme.
La firma di Matilde di Canossa

Firma di Matilde di Canossa

La firma di Matilde di Canossa era un monogramma formato da una croce con iscritta la frase “Matilda Dei gratia si quid est “, “Matilde, se è qualcuno, lo è per grazia di Dio”. Con questa frase sottolineava che la sua grandezza non era dovuta all’imperatore, ma alla grazia divina.

 

(1) Tra i documenti che ricostruiscono la nascita del monastero di San Benedetto
1° documento del 962 d. C.
Racconta della presenza di un’isola circondata dal fiume Po e dal fiume Loirone, che Adalberto di Canossa acquista e in cui esisteva un insediamento civile già in epoca romana.
2° documento del 1007 d. C.
Racconta della fondazione di una piccola chiesa, che Tedaldo, il figlio di Adalberto, fonda unitamente a un piccolo monastero in cui vivranno 8 monaci.
(Dell’istoria del monastero di San Benedetto, Bendetto Bacchini, p. 16).

 

di Adriana Paolini

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