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Climate Change: danni incalcolabili

Pubblicato il 24 ottobre 2013 da redazione

Paul Crutzen

Paul Crutzen.

Nel 2000, il premio Nobel per la Chimica Paul Crutzen, durante una riunione di uno dei programmi internazionali di ricerca sui cambiamenti globali, l’International Geosphere Biosphere Programme (IGBP), tenutasi a Cuernavaca in Messico, propose che, essendo l’epoca geologica definita dall’intervento dell’uomo, può essere individuato un nuovo periodo geologico caratterizzato dalla dominazione della specie umana sulla biosfera con il nome di Antropocene. Crutzen scrive: “A differenza del Pleistocene, dell’Olocene e di tutte le epoche precedenti, essa è caratterizzata anzitutto dall’impatto dell’uomo sull’ambiente. La forza nuova […] siamo noi, capaci di spostare più materia di quanto facciano i vulcani e il vento messi insieme, di far degradare interi continenti, di alterare il ciclo dell’acqua, dell’azoto, del carbonio e di produrre l’impennata più brusca e marcata della quantità di gas serra in atmosfera negli ultimi 15 milioni di anni. […] Ma abbiamo una certezza: il nostro impatto sull’ambiente crescerà. […] Non possiamo tornare indietro. Possiamo però studiare il processo di trasformazione in atto, imparare a controllarlo e tentare di gestirlo.”

Dalla rivoluzione industriale in poi, l’umanità si è emancipata in modo straordinario in tutti i campi riducendo fortemente la sua intrinseca dipendenza dalla natura e cercando, in qualche modo, di sfuggire alla catena alimentare che la lega da migliaia di anni a tutto il sistema vivente del pianeta. Anzi, per certi versi si è dimenticata di farne parte, considerando le risorse disponibili sulla Terra come proprie ed esclusive.
Questa astrazione dalla propria posizione nel sistema-mondo risulta evidente dalla percentuale di popolazioni che preferiscono vivere negli asettici centri urbani, piuttosto che integrati nella natura. Le stime del 2008 confermano che la metà della popolazione umana, calcolata oggi in oltre 7 miliardi di persone, vive in centri urbani e si prevede che entro il 2050 subirà un incremento pari al 72%. In pratica quasi tutta la popolazione mondiale presente sul pianetà preferirà le città al pianeta stesso.
Questo modo di vivere, avulso dal proprio elemento, porta le collettività urbane a dare per scontato di essere altro dalla natura e di poterne fare a meno e al convincimento di poter creare un mondo parallelo a “misura d’uomo” nel quale la natura viene presa a prestito, solo come risorsa per i bisogni più stretti o peggio quale elemento decorativo, romantico o nostalgico.
Gli stessi media contribuiscono giornalmente a tenerci, in stile Matrix, completamente dormienti, totalmente ipnotizzati da problemi fittizzi e surreali, come l’ultimo vestito di grido, gli amori segreti della protagonista della serie televisiva più seguita del momento, gli scandali politici, le strategie più innovative per diventare individui di successo, ricchi, belli e alti.
Nessuno mette invece in prima pagina il rischio di estinzione degli elefanti, la tragedia in corso nell’Antartide, di tutti quelli che vi abitano, a quattro zampe, due zampe, volanti, striscianti o pinnanti. Eppure sono, in un modo o nell’altro, intrinsecamente connessi a noi, in quanto parte della nostra stessa catena alimentare e per questo a noi indispensabili. Anche l’uomo è indispensabile al resto della catena. Attraverso i suoi rifiuti mantiene e sostiene gli altri essere viventi interconnessi con lui.
A questo proposito il  botanico Barry Commoner (morto nel 2012), per molti anni docente di  fisiologia vegetale alla St. Louis di Washington, affermava: “Non è facile comprendere i problemi dell’ecosfera per una mente moderna. L’ecosistema sembra restare estraneo alla cultura contemporanea. Ci siamo per troppo tempo abituati a considerare eventi singoli e isolati, ciascuno dipendente da una precisa, unica causa. Ma nell’ecosfera ogni effetto è anche una causa: le deiezioni di un animale o la sua carcassa diventano nutrimento per i batteri del terreno; gli escreti dei batteri nutrono a loro volta le piante e gli animali mangiano le piante […] Abbiamo spezzato il cerchio della vita trasformando i suoi cicli senza fine in eventi umani di tipo lineare: il petrolio viene estratto dal sottosuolo, distillato a carburante, bruciato in un motore e convertito in fumi nocivi che vengono emessi nell’atmosfera. Alla fine di questa linea c’è lo smog. Altre alterazioni che l’uomo ha provocato a danno dei cicli ecologici sono l’emissione di prodotti chimici tossici, di liquami, di montagne di rifiuti, testimonianza del nostro straordinario potere di lacerare il tessuto ecologico che ha garantito, per milioni di anni, la vita del nostro pianeta”.
Dalla rivoluzione industriale in poi l’attenzione maggiore di tutti gli economisti si è spesa a capire come aumentare i ritmi di produzione al minor costo possibile per gli investitori di capitale, ma non per la natura, a spese della quale è stato intrappreso ogni processo produttivo. L’intero pianeta è stato spremuto al massimo delle sue risorse, sopra e sotto il suolo.
Tutti hanno pensato a come preservare, alimentare, e incrementare il capitale economico-finanziario investito, pochi hanno pensato a come preservare e ripristinare il capitale natura.

Una serie di reazioni a catena stanno provocando sconvolgenti cambiamenti degli ecosistemi.

Non è un semplice problema “romantico ambientalista”, ma un problema puramente economico-biologico. Un terreno coltivato con sistemi intensivi per troppo tempo smette alla fine di produrre. Una risorsa idrica impoverita non serve più gli ecosistemi che da lei dipendono. Senza risorse idriche e del suolo adeguate non avvengono i molti processi biochimici necessari a garantire la vita sulla Terra, compresa la nostra.
Intergovernmental Platform on Biodiversity and Ecosystem ServicesLa fondazione di importanti istituti come l’Intergovernmental Platform on Biodiversity and Ecosystem Services (IPBES) e  l’Intergovernmental Panel on Climate Change (IPCC), che hanno lo scopo di fornire tutti i dati tecnico-scientifici utili alle nazioni per tutelare la biodiversità e la vita degli ecosistemi hanno senzaltro contribuito ad allargare il dibattito internazionale e ad abbracciare come nuovo emblema e simbolo della ricchezza e della prosperità di un paese, il valore attribuito alla natura, quali nuovi indicatori di equilibrio e progresso di un paese.
Molto del recente successo alle elezioni politiche in Germania di Angela Merkel si deve alla sua lungimiranza e attenzione verso l’ambiente.
Ma tutto ciò non è stato sufficiente e una serie di reazioni a catena, indotte dagli interventi massicci dell’uomo, nel corso di questi ultimi due secoli, si sono oramai innescate e, tra gli altri effetti, stanno provocando una sconvolgente modificazione degli ecosistemi che sta causando un’estinzione di massa nella ricchezza della vita oggi presente sul nostro pianeta.
Nessuno sembra molto interessato a questo. Per lo più i grandi economisti, come i grandi scienziati sono impegnati altrove. Lo si vede dai dati economici planetari con il Prodotto globale lordo delle nazioni che supera oramai i 75 000 miliardi di dollari, e l’aspettativa di vita cresciuta grazie alla sconfitta di molte malattie e le moderne tecnologie industriali e robotiche che preservano l’uomo dalle fatiche fisiche e manuali. Insomma un’umanità tutta presa da sé e completamente dimentica di quanto le succede intorno, ferma ancora agli albori di questo sistema economico che, ai tempi del suo esordio, disponeva di risorse illimitate e forse malata di individualismo estremo, che non guarda ne ai suoi simili ne al futuro delle nuove generazioni.

 Intergovernmental-Panel-on-Climate-Change.


Intergovernmental-Panel-on-Climate-Change.

Rapporto dell’IPCC

Il rapporto dell’IPCC, la relazione scientifica sul riscaldamento globale, parla chiaro: i rischi sono ormai incalcolabili.
L’ultima valutazione internazionale della scienza del clima sottolinea chiaramente che i rischi sono ormai fuori misura e sarebbe poco scientifico ignorarne l’evidenza o peggio rimandare all’infinito la discussione sul come affrontarli.
Secondo Lord Nicholas Stern, autore del rapporto Stern 2006, sull’economia dei cambiamenti climatici, le attuali proiezioni scientifiche e le recenti previsioni economiche sottovalutano i rischi del riscaldamento globale.
Mentre gli scienziati riconoscono alcuni potenziali conseguenze, quali lo scioglimento del permafrost, che rilascerebbe il potente gas serra metano, non affrontano, invece, le possibili conseguenze economiche perché sarebbero troppo difficili da quantificare.
Secondo Stern i modelli economici finora proposti sono ancora troppo superficiali e grossolani, perché ipotizzano che, anche se il riscaldamento globale perdurerà, i costi che ne deriveranno alla fine saranno relativamente minimi.
Ipotesi di per sé insostenibile se applicata alle dimensioni e al tipo di cambiamento che potrebbe avere luogo.
L’aumento delle temperature, superiori di 3, 4 °C rispetto a quelle del periodo pre-industriale e perpetuatesi fino al 2010 avrebbe messo “fuori strada” gli analisti.
Il prezzo che l’umanità dovrà pagare per le condizioni di civiltà in cui si è potuta sviluppare avranno come contropartita conseguenze così gravi da metterne a rischio lo sviluppo e danneggiarne la futura crescita.

Cambiamento della temperatura superficiale rilevato tra il 1901 e il 2012 fonte: Climate Change 2013: The Physical Science Basis (IPCC)

Cambiamento della temperatura superficiale rilevato tra il 1901 e il 2012
fonte: Climate Change 2013

Centinaia di migliaia, milioni o addirittura miliardi di persone potrebbero essere costrette a spostarsi da dove vivono, provocando conflitti o persino rischiare di venire sterminati su vasta scala; potrebbero crollare importanti infrastrutture condivise e ingenti risorse naturali.
Il rapporto IPCC è finito ora nel mirino degli scettici del cambiamento climatico, che hanno badato di più a rilevare errori e incongruenze con il rapporto del 2007, invece di porre maggior attenzione al contenuto del rapporto.
Stern ha ribadito che qualsiasi valutazione che basi il proprio fondamento su migliaia di fonti, probabilmente conterrà degli errori, ma il dato importante, che dovrebbe saltare all’occhio è l’allarme univoco e coerente lanciato dalle organizzazioni scientifiche.
La valutazione IPCC, basando le sue analisi sulle leggi della fisica degli ultimi 200 anni, mostra una pericolosa tendenza di fondo che evidenzia il variare delle temperature in rapporto alla crescente concentrazione dei gas a effetto serra.
Stern ha sollecitato l’Unione europea a darsi come obiettivo, entro il 2030, la riduzione del 50% dei livelli di emissioni che si registravano nel 1990. Gli obiettivi climatici ed energetici dell’UE  sono in gran parte gli stessi per quasi tutti i paesi membri.

Rispetto agli obiettivi climatici ed energetici fissati per il 2020, gli Stati membri dell’Unione europea stanno mostrando progressi diseguali, ma nell’insieme, grazie alle misure nazionali già adottate, dovrebbero riuscire a diminuire le emissioni di gas a effetto serra del 21%. Questi sono i dati che arrivano dalla nuova Agenzia europea dell’ambiente (AEA ).

Tendenze e proiezioni in Europa per il 2013
Il rapporto dell’AEA considera i progressi della UE, nel raggiungimento della riduzione delle emissioni di gas a effetto serra, dovuti all’efficienza energetica e all’uso di energie rinnovabili . L’Unione europea ha ridotto le emissioni tra il 1990 e il 2012 di circa il 18 % – quindi  ha quasi raggiunto il 20% prefissato per il 2020.
L’UE, rispetto al 2011, ha anche aumentato del 13% il consumo di energia rinnovabile  da fonti rinnovabili e dovrebbe arrivare al 20 % entro il 2020.
Hans Bruyninckx , (direttore esecutivo SEE), ha detto che: “Le ultime analisi dell’AEA confermano che l’energia rinnovabile e l’efficienza energetica stanno avendo un effetto significativo sulla riduzione delle emissioni. Dobbiamo continuare gli sforzi in questa direzione se vogliamo ottenere i tagli di emissioni richiesti dalla Scienza del Clima. Gli Stati membri devono assicurarsi che le scelte di oggi favoriranno un futuro a bassa emissione di carbonio “.

Protocollo Kyoto: ratifiche.

Protocollo Kyoto: ratifiche.

Primo bilancio complessivo rispetto agli impegni del Protocollo di Kyoto, per il periodo 2008-2012.
Nel 2012 le emissioni sono scese quasi dell’1%: questo il dato approssimativo sulle emissioni di gas serra recentemente pubblicati. L’attuale relazione dell’AEA si basa anche su queste cifre e per la prima volta fornisce un quadro completo delle riduzioni di emissioni ottenute dopo l’impegno di Kyoto.
I 15 Stati membri che l’hanno sottoscritto, stimano di aver ridotto le emissioni del 12,2 % , ben oltre l’obiettivo dell’8% richiesto dal Protocollo di Kyoto nel 2008.
Una semplice riduzione dell’inquinamento atmosferico potrebbe salvare milioni di vite l’anno, entro la fine del secolo.
Un recente studio, pubblicato da diversi scienziati di tutto il mondo, riunitisi a Stoccolma per sviscerare nei dettagli le ultime valutazioni degli scienziati del clima e le loro proiezioni sugli effetti del riscaldamento globale su vasta scala, dalla siccità alle alluvioni, all’aumento dei livelli del mare, illustra i benefici di una drastica riduzione dell’inquinamento atmosferico da combustibili fossili.
” E’ sorprendente quanto si potrebbe ottenere, in termini di salute, controllando il cambiamento climatico”, ha detto Jason West, della University of North Carolina a Chapel Hill, il cui studio è stato pubblicato su Nature Climate Change.
Si calcola che entro il 2030 si riuscirebbero a evitare 300.000-700.000 morti premature, e entro il 2050 800.000-1,8 milioni e da 1,4 a 3 milioni nel 2100.

Doha.

Doha.

In Asia orientale il tasso di popolazione esposta all’inquinamento atmosferico è altissimo.
La ricerca evidenzia come riducendo le emissioni delle centrali elettriche a carbone, degli scarichi delle automobili e delle altre fonti di particolato inquinante (PM2.5 ), diminuiscano gli attacchi cardiaci, gli ictus, il cancro ai polmoni e le malattie respiratorie.
A differenza di quelli precedenti, questo nuovo studio ha preso in esame la situazione globale: “L’inquinamento atmosferico non si ferma alle frontiere “, si legge sul rapporto, “Se la Cina riduce l’inquinamento, anche le persone al di fuori della Cina ne beneficieranno. Alcuni inquinanti viaggiano attraverso il Pacifico o verso il sud – est asiatico. ”
La relazione tiene anche conto della crescente longevità delle persone, evidenziando una maggior probabilità di incorrere in malattie cardiovascolari, piuttosto che morire in giovane età per malattie infettive.
Lo studio relaziona poi il notevole risparmio economico che si potrebbe ottenere. La US Environmental Protection Agency assegna un valore di 7 milioni di dollari per ogni vita, mentre l’Unione europea assegna 2 milioni di dollari per ogni vita.
Il rapporto infine conclude: “Il cambiamento climatico è un problema a lungo termine e ogni beneficio ottenuto dalle azioni intraprese da un paese,  va a vantaggio di tutti gli altri. Ma il miglioramento della qualità dell’aria che si ottiene in poche settimane, deve spingerci a fare qualcosa subito “.

Newtok.

Newtok.

foto area di Newtok

Foto area di Newtok.

Primi rifugiati climatici americani
L’ Alaska sta perdendo terreno sul mare ad una velocità preoccupante. Per i suoi abitanti , l’esilio sarà inevitabile. Sono, infatti, più di 180 le comunità indigene in Alaska, che a causa delle frequenti inondazioni e dello scioglimento dei ghiacci, provocato dal cambiamento climatico, stanno perdendo pezzi di territorio.

Ma chi sono i rifugiati climatici?
Sono persone che vengono sfollate dalle loro case per l’impatto del cambiamento climatico – un nuovo tipo di rifugiati che si aggiungono a quelli della guerra, della violenza o della persecuzione.
Nei piccoli e remoti villaggi dell’Alaska, i nativi del luogo, stanno già sperimentando le inondazioni e le erosioni a firma del climate change e molti di loro si sono già attivati per lasciare le loro terre, dove hanno abitato per secoli, e raggiungere luoghi più sicuri.
Fra questi, il popolo di Newtok , una piccola comunità di 350 persone che vive sulla costa occidentale dell’Alaska, a circa 400 miglia a sud dello Stretto di Bering, sta vivendo una catastrofe al rallentatore che si concluderà, molto probabilmente, entro i prossimi cinque anni, quando l’intero terreno su cui sorge il villaggio, verrà definitivamente eroso dal fiume Ninglick , che lo avvolge su tre lati, prima di sfociare nel mare di Bering, portandosi via 100 piedi e più all’anno.
Un rapporto del US Army Corps of Engineers ha previsto che il punto più alto del villaggio – la scuola – potrebbe venire completamente sommersa entro il 2017. Il rapporto si conclude ammettendo che non ci sono possibilità di salvare il villaggio.
Il Consiglio Artico, il gruppo di paesi che governa le regioni polari, si è radunato in Svezia alcuni giorni fa, ma i profughi del cambiamento climatico non sono in cima alla loro agenda, e i funzionari dell’amministrazione Obama hanno detto ai giornalisti che non ci sarebbero più soldi per aiutare queste comunità. Da un rapporto del governo federale si evince che l’86% di tutte le comunità indigene dell’Alaska – sono a rischio per via del cambiamento climatico.
Lo stesso accade e accadrà sulle coste orientali della costa atlantica (come già ha dimostrato l’uragano Sandy) dove numerose popolazioni vivono a soli 50 chilometri dalla costa. Ma, come gli abitanti del villaggio di Newtok stanno già scoprendo, riconoscere la gravità di una minaccia e rispondere per  tempo sono due cose molto diverse.
Il nuovo sito scelto dagli abitanti di Newtok, e approvato dal Governo, si trova a sole nove miglia di distanza dall’attuale villaggio, in cima a un alto costone di roccia vulcanica, su Nelson Island, a una mezz’ora di motoslitta, attraverso il fiume ghiacciato Ninglick.
Ma, secondo le stime governative, il costo dell’evaquazione potrebbe arrivare a circa 130 milioni di dollari e per gli abitanti di Newtok, in ballo ormai da 5 anni con le burocrazie amministrative governative, ottenere questi soldi sta diventando una sfida impossibile. Il premio in palio è semplicemente la loro vita.

di Adriana Paolini

Linkografia:
http://ec.europa.eu/clima/news/index_en.htm
http://www.eea.europa.eu/data-and-maps/pam
http://www.eea.europa.eu/data-and-maps/data/data-viewers/greenhouse-gases-viewer
http://www.eea.europa.eu/data-and-maps/data/data-viewers/emissions-trading-viewer

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