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È nato prima l’uomo o la finitezza del pianeta?

Pubblicato il 06 marzo 2018 by redazione

Lo scorso 1° febbraio si è tenuto alla Camera un convegno organizzato dal senatore Carlo Giovanardi dal titolo provocatorio “È nato prima l’uomo o la gallina?”, nel quale si è parlato del ruolo delle proteine animali nell’alimentazione umana e del valore economico della filiera zootecnica, includendo nell’analisi quei comparti che utilizzano i pellami nel settore dell’abbigliamento e della moda. La tesi promossa dall’incontro è stata la seguente: dal momento che milioni di italiani si vestono e si nutrono di prodotti di origine animale, e che altrettanti individui ricavano il loro reddito da attività fondate sull’allevamento, occorre smettere di demonizzare un settore che per l’Italia vale 40 miliardi di euro l’anno.

 

Non intendo soffermarmi in questo spazio sulle argomentazioni etiche, la cui trattazione ci porterebbe alquanto lontano, anche alla luce del fatto che uno dei relatori era Monsignor Mauro Cozzoli, Ordinario di Teologia Morale alla Pontificia Università Lateranense. Sorvolo anche sulle considerazioni nutrizionistiche, che non sono il mio campo, e mi prefiggo invece di evidenziare come si continuino ad utilizzare dei modelli di ragionamento vecchi, propagandandoli come metodi per risolvere problemi socio-economici che a forza di parlarne, non possono più nemmeno definirsi nuovi. Sono ormai quarant’anni, infatti, che si parla in termini scientifici dell’insostenibilità del nostro modello produttivo basato sulla crescita continua, e da più di duecento si discute del problema demografico. Il rebus gigantesco che oggi dovremo risolvere in tempi putroppo rapidissimi sta nel numero di persone che abita il nostro pianeta, e nelle risorse procapite che vengono consumate da ciascuno di questi individui: entrambi questi fattori sono in costante crescita, mentre la dimensione fisica della sfera sulla quale abitiamo continua a rimanere sempre la stessa. I nostri prelievi di risorse già oltrepassano abbondantemente la biocapacità della terra, ovvero le sue possibilità di autorigenerazione, mentre a valle del processo produttivo i rifiuti generati dal nostro modello lineare hanno attivato meccanismi distruttivi quali ad esempio un riscaldamento planetario che rischia di sfuggire completamente al nostro controllo.

Le prime strategie da mettere in atto per minimizzare i danni prodotti sono degli spostamenti da comparto a comparto, con il fine di raggiungere lo stesso scopo, arrivandoci per una strada diversa, che privilegi una migliore efficienza. Così come il trasporto delle merci su gomma, rispetto a quello effettuato su idrovia e ferrovia rappresenta un nonsenso energetico, e genera una serie di pesanti problemi collaterali i cui costi ricadono comunque sulla comunità, altrettanto l’alimentazione carnea è estremamente energivora rispetto a quella vegetariana, a parità di persone sfamate richiede estensioni di terreno fino a dieci volte maggiori, e produce enormi devastazioni planetarie, quali deforestazione, inquinamento di acqua, perdita di biodiversità e generazione di consistenti quantità di gas serra. I costi di tutto questo vanno conteggiati nel bilancio economico finale. Se l’ONU ha avviato nel 2008 una campagna mondiale per la riduzione dei consumi di carne, e l’Unione Europea ha fatto la stessa cosa nel 2009, il problema evidentemente esiste: tutti i responsabili in Europa e nel mondo sono stati invitati a promuovere misure a livello internazionale, nazionale e locale per affrontare le problematiche ambientali e di salute pubblica connesse con i crescenti consumi di carne.

Se ci siamo cacciati in questa situazione di crisi economica planetaria, dalla quale potremo uscire solo con un radicale cambio di paradigma, è perchè abbiamo omesso di includere nel nostro conto economico il degrado del capitale naturale e i danni collaterali prodotti dai molteplici e continui “progressi” del nostro modello, di cui sono stati computati soltanto i benefici, e mai i costi e le conseguenze negative. In un momento storico delicatissimo come questo, nel quale si è ormai conclusa l’era dell’energia a buon mercato, ed il suolo produttivo a fini alimentari sta diventando una risorsa preziosissima, insidiata dall’espansione dei biocarburanti, minacciata dalle conseguenze dei cambiamenti climatici, attanagliata dalla crescita dilagante del cemento e dell’asfalto, stravolta dai dissennati cambiamenti d’uso del territorio, non si possono più adottare delle tattiche protezionistiche che rendono intoccabili ed autoreferenziali alcuni settori. È il momento di confrontare delle opzioni, scegliendo di trasferire le risorse dove si ottengono risultati analoghi con spese ed impatti negativi minori. Prima di giudicare quanto effettivo benessere portino i 40 miliardi di fatturato di quel comparto che non deve essere messo in discussione, domandiamoci quante esternalità negative si generano da quelle cifre, e quanto efficiente sia quel metodo produttivo, se viene messo a confronto con altre possibilità parallele, in una prospettiva di calcolo globale. La natura ragiona in questo modo, e tira avanti senza problemi da quattro miliardi e mezzo di anni. Proviamo a seguire lo stesso schema di pensiero anche noi, che siamo arrivati alla frutta dopo poco più di duecento anni di sviluppo industriale.

di Gabriele Porrati

(coordinatore progetto Cambiamo – www.cambiamo.org)

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