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Progetti in ex aree industriali: il caso di Bagnoli

Pubblicato il 17 ottobre 2014 da redazione

L’infrazione del recintoProgetti in ex aree industriali: il caso di Bagnoli

(prima parte)

 

  FOTO 1_2_3 01_ Sol LeWitt, Struttura aperta, 1990 02_ Dispersione urbana in Veneto 03_Gabriele Basilico, Milano Bovisa, 1979

Sol LeWitt, Struttura aperta, 1990.

Questo lavoro, che verrà pubblicato in diverse parti, nei prossimi numeri, è incentrato sulla tematica della creazione di nuove centralità nel tessuto urbano attraverso progetti di riqualificazione.

Data la situazione nella contemporaneità di termine della crescita delle città in maniera espansiva, è necessario creare nuove polarità all’interno del tessuto urbano già consolidato. Nel particolare viene analizzato il caso dei grandi vuoti urbani, generati successivamente a dismissioni di attività industriali, poli fieristici, grandi magazzini o attività che necessitano di grandi spazi per il loro corretto funzionamento. Questi grandi vuoti urbani, caratteristici dell’epoca post-industriale, si configurano come aree di grande potenzialità che modificano fortemente l’assetto urbanistico e infrastrutturale limitrofo e in alcuni casi risultano come ostacoli per lo sviluppo della città. Questo lavoro analizza nel particolare l’area occidentale della periferia di Napoli, che ha nell’area dismessa dell’Italsider di Bagnoli la sua grande potenzialità. L’area ha sviluppato gran parte della sua identità attorno a questo stabilimento e dopo la dismissione ci si è resi conto che la sua presenza ha modificato in maniera praticamente irreversibile il territorio e il paesaggio. È la recinzione dell’industria che ha conservato intatto il luogo e l’ha sottratto alla crescita incontrollata della città; oggi è possibile pensare a uno spazio aperto per la collettività collocato in un paesaggio eccezionale.

La collina di Posillipo, lungo la discesa di Coroglio va a innestarsi verso l’infrastruttura che collega la piccola isola di Nisida; il vuoto urbano è un’opportunità imperdibile per la definizione precisa di questa chiusura, che deve partire dal bordo per configurarsi in continuità con il contesto.

La seconda particolarità del margine dell’area dell’Italsider è la sua doppia valenza: da un lato si configura come una cesura verso la città consolidata, da quello opposto, con la grande colmata in cemento, si configura invece come un’apertura verso il golfo di Pozzuoli, l’isola di Nisida e tutto il paesaggio circostante.

Tutti i progetti legati a quest’area si sono dovuti inevitabilmente confrontare con tutte le rilevanze paesaggistiche offerte, dal progetto di Lamont Young di fine ‘800 ai piani regolatori degli anni ’90 di Aldo Loris Rossi, Renzo Piano e Nicola Pagliara, fino ai progetti più recenti di Francesco Cellini, Zaha Hadid e David Chipperfield.

Bagnoli è diventato quindi uno dei casi di riqualificazione industriale più complessi in Italia e ad oggi sono state fatte numerosissime proposte per la modificazione di quest’area, sempre in rapporto di continuità con la città. Questo studio prende in esame tre progetti, presentati al concorso per il Parco Urbano, indetto nel 2006, i quali presentano strategie molto differenti, ma si soffermano sul concetto di “infrazione del recinto”.

 

Gabriele Basilico, Milano Bovisa, 1979.

Gabriele Basilico, Milano Bovisa, 1979.

Storia e significato del centro – la centralità nell’urbano

Il significato della parola centro è sempre stato importante nella storia dell’uomo, e di conseguenza un punto di riferimento anche nella disciplina dell’Architettura. Fin dalle origini rivela la sua caratteristica geometrica e la sua spazialità: possiamo definirlo come luogo rispetto allo spazio, ciò che emerge dal circostante e da questo si distingue come entità conosciuta, ma anche come luogo in quanto sede della sacralizzazione di un evento, l’area privilegiata di una pratica collettiva, il principio della illimitazione all’esterno e della centralizzazione all’interno del quadripartito cittadino. In particolare, dal punto di vista della disciplina, il centro non ha solo l’aspetto spaziale, ma anche quello temporale. In tempi più recenti, già dall’inizio del secolo scorso, abbiamo assistito a una progressiva e definitiva perdita di questo concetto, che ha portato a una dissoluzione sia delle coordinate temporali sia spaziali con il conseguente consumo dei confini fisici e materiali, manifestatosi esplicitamente nel fenomeno della dispersione urbana.

La perdita del centro avviene perché si passa da un assetto ‘figurale’ della forma stessa ad un altro che la riconosce come “struttura” e “sistema aperto”. Fino al Rinascimento maturo abbiamo il primo caso, caratteristica propria della fondazione di qualsiasi abitato, dove c’è l’individuazione di un centro e il tracciamento di un solco perimetrale. Da un punto di vista urbano, l’abitato trasmette la propria forza sul circostante esteso, evidenziando gli aspetti esclusivi e definendo in maniera netta il rapporto interno-esterno. Casi esemplificativi di questo concetto sono le piante di fortificazioni come Palmanova o Sforzinda, che si basano sul concetto di centralità assoluta, con la definizione precisa della perimetrazione che dà alla composizione l’assetto figurale già citato. Lo spazio monocentrico dell’umanesimo porta ad una centralità “aggressiva” che verrà attenuata prima dal manierismo e poi dal barocco, con la sostituzione dello spazio centrato con uno spazio che possiamo definire “policentrico”: le piazze rinascimentali erano solitamente quadrate e circolari, mentre quelle dei periodi successivi prevalentemente ellittiche o rettangolari; queste figure rappresentano una dilatazione dello spazio, con una conseguente sua frammentazione e moltiplicazione. Da qui in avanti infatti, come detto prima, avremo la perdita del concetto della forma come figura. Il centro antico e le mura urbane saranno i soli elementi che indicheranno la figura dell’abitato, e verranno scavalcati da una rimisurazione dello spazio che porta allo sviluppo di nuovi fuochi interni ed esterni alla città, punti d’appoggio di una struttura che procede per relazioni orientate verso un intorno indeterminato ed esplorabile. La forma, ormai vista come struttura, prescinde da delimitazioni o centralità univoche, e viene ridefinita come principio di correlazione dell’abitato con il suo intorno, dimostrato dai progetti del periodo:

“la campagna non è più considerata come altro dalla città ma come parte di questa attraversata dai tracciati che collegano funzioni propriamente urbane.”

Durante l’ottocento questo modello strutturale viene esplicato attraverso un sistema di connessioni multiple che attiva e moltiplica secondo un’articolazione stellare intorno agli abitati consolidati. Concretamente infatti è visibile un sistema di radiali e anulari che allo stesso tempo garantisce il primato di centralità alla città, ma che ne amplia le connessioni con l’intorno. I presupposti per il passaggio ad un ‘sistema aperto’ sono ormai definiti: circolazione, ripetizione e funzionamento. Una volta consolidato questo passaggio c’è stato il fenomeno della dispersione urbana: dall’inizio del ‘900 sono emerse nuove polarità urbane non più assimilabili a nuclei di riferimento gravitazionali, grazie anche alle realizzazione di nuove infrastrutture, quali autostrade e ferrovie. Questo concetto porta delle conseguenze non solo da un punto di vista fisico, ma anche negli usi e nei comportamenti sociali: c’è un diffuso “relativismo culturale”, un alveare di reti e di relazioni sociali che annienta qualunque gerarchia o centralità prestabilita. Avviene lo spostamento dalla mononuclearità del modello centrato alla multipolarità dell’acentrato. Una prima appropriazione del territorio esterno da parte della città centrale ha corrisposto infatti la trasformazione dell’espansione urbana intorno al nucleo consolidato in periferia. Una progressiva saturazione dello spazio intorno alle città ha portato alla creazione di megalopoli, territori eterogenei che possono essere letti in maniera unitaria grazie alle infrastrutture.

Nella contemporaneità le città non tendono più a espandersi e per questo motivo le nuove centralità vanno ricercate all’interno del tessuto consolidato della città stessa.

La riqualificazione dei luoghi (o non-luoghi) situati all’interno della città che non hanno identità nell’immaginario collettivo, o che l’hanno persa per diverse cause storiche, deve essere un punto di partenza per creare nuove polarità nei tessuti urbani già consolidati.

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Dispersione urbana in Veneto.

 

Industria, vuoti urbani e infrastrutture – La dismissione del limite

Un punto di partenza ineludibile è, senz’altro, lo studio particolareggiato dei bordi; in essi, si trova concentrato il fondamento del progetto che tende alla continuità: in un primo momento hanno solo segnato un limite di proprietà, posteriormente sono diventati la matrice sulla quale si è sviluppato quel frammento urbano. (vedi anche: “La stazione, il parco, la città”, nelle prossime pubblicazioni)

La fase post industriale del ciclo di vita della città ci ha lasciato in eredità nelle periferie numerose aree particolarmente vaste, definite spesso come grandi “vuoti urbani”, legate a fenomeni di dismissione.

La dismissione, per quanto possa sembrare un fenomeno legato all’ultimo secolo, è in realtà un processo ciclico situato all’interno delle attività umane. Nell’ambito urbano questo atto costituisce la “forza motrice della trasformazione urbana”, come adattamento del costruito a ragioni sociali, economiche e culturali che mutano velocemente nella società.

Queste grandi aree sono nella maggior parte dei casi ex aree industriali, ma possono anche aver ospitato altri tipi di attività, come mercati all’ingrosso, ampi spazi fieristici non più utilizzati, scali ferroviari, caserme e altre funzioni urbane tipiche della periferia che per necessità dell’evoluzione della società non sono più in uso. Tra la fine dell’ottocento e la prima metà nel novecento l’industria era dominata dai settori del meccanico e del chimico, che prevedevano ampi stabilimenti e tanti complessi di attività svolte da aziende piccole e medie.

Alcune città nel mondo, come il caso esemplificativo di Detroit, hanno orientato la propria crescita in quegli anni proprio nello sviluppo industriale. Lo specifico caso della città americana si è modellato intorno a corridoi industriali, i quali sono diventati dei poli di attrazione lavorativa, fino al fallimento di tali stabilimenti, verso gli anni settanta del secolo scorso.

Dagli anni ottanta ci si accorse che non era più necessario avere grandissimi stabilimenti industriali; l’obsolescenza di questi impianti che da un certo punto di vista hanno già trasformato in maniera irreversibile il territorio, ha di fatto determinato in maniera molto forte la trasformazione dell’urbano e delle infrastrutture che gravitavano intorno a questi grandi vuoti recintati. Il rapporto che ha il recinto delle aree industriali di grandi dimensioni con il tessuto urbano definitosi ai suoi bordi ha portato a una limitazione nella crescita della forma urbana, che si è adeguata alla condizione di limite.

Questo “grande vuoto”, una volta dismesso, risulta un evidente e pesante ingombro all’interno della città, che porta difficoltà dal punto di vista della viabilità generale. Se da un punto di vista può sembrare negativo il fatto che l’area risulti da ostacolo per i collegamenti diretti in linea d’aria, da un altro punto di vista la creazione di strade indirette, sinuose e tortuose che costeggiano il recinto, vanno a consolidare l’identità dell’area.

Una delle grandi rilevanze delle aree industriali dismesse risiede nella massività del suo confine, impermeabile alla trasformazione urbana, ma che con il suo peso riesce a condizionarla.

Come avvenne nelle demolizioni ottocentesche delle fortificazioni, la liberazione delle antiche funzioni di grandi aree interne alla città rappresenta una straordinaria opportunità per essa di creare una nuova struttura di spazi aperti. Questi “enclaves” risultano delle eccezioni all’interno del paesaggio urbano e hanno enorme potenzialità funzionale, in qualità di spazi aperti e di connessione infrastrutturale.

Se è stato questo confine a definire in maniera così rigida la trasformazione del territorio, il progetto nel contemporaneo dello spazio aperto all’interno delle aree dismesse deve partire dallo studio del bordo.

Il bordo è infatti l’unico strumento che ha la possibilità di instaurare un dialogo tra un nuovo polo e la città.

Nei bordi si trova il fondamento che tende alla continuità con il contesto, componente fondamentale per creare una nuova centralità urbana, indipendentemente dalla funzione che il vuoto urbano ospiterà.

di Fabrizio Esposito

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