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Operazione Mato Grosso, l’industria della carità nel terzo millennio

Pubblicato il 05 giugno 2014 da redazione

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Il primo mattone, la Val Formazza.

Dialoghi con Marco, un vecchio volontario che aiuta Padre Ugo dall’Italia e quando puo’ anche sulle Ande..

L’operazione Mato Grosso nasce in Val Formazza per volere di Padre Ugo De Censi.

Padre Ugo, salesiano valtellinese, classe 1924, decide di far partire questo progetto perché crede fortemente nei giovani perché sono portatori del futuro, anche se poi però bisogna tirarglielo fuori.

Negli anni ’75, come responsabile degli oratori salesiani dell’Emilia e della Lombardia, Padre Ugo decide di proporre ai suoi giovani qualche cosa di più concreto che la consueta catechesi.

Si era accorto, infatti, che quando andava negli oratori a raccontare le “cose da preti”, come le chiamava lui, i ragazzi non lo stavano a sentire neppure di striscio. Così decide di fargli incontrare un amico che tornava da una missione, proponendogli di andare là con i ragazzi ad aiutarlo. L’amico missionario resta un po’ dubbioso perché pensa che ormai i giovani sono molti distanti da questo tipo di progetti. Ma padre Ugo insiste e su questa scommessa fa partire l’Operazione Mato Grosso.

Così quell’estate invita tutti gli animatori e i ragazzi più svegli degli oratori dell’Emilia e della Lombardia, a raggiungerlo in Val Formazza, a Sotto Frua, di proprietà dei Salesiani e lì propone l’Operazione Mato Grosso (OMG).

Il suo grande entusiasmo per il progetto trascina e incendia letteralmente i giovani. Ma bisogna sostenere delle spese e trovare i soldi per farlo partire. Così decide di costruire i rifugi della Val Formazza per chi vuole andare in vacanza in montagna d’estate e per chi ama sciare d’inverno. Guidato dai formazzini sceglie i posti migliori, le cime appena sopra i ghiacciai, le più belle della valle.

Padre Ugo sogna a occhi aperti e ogni mattina disegna cartelli diversi, con le tappe del progetto: “Qui costruiamo il rifugio, qui mettiamo lo schilift … l’anno prossimo facciamo questo e questo e con il ricavato avviamo l’OMG.

La sua incredibile semplicità, e una vivacità disarmante, ti travolgevano subito.

L’operazione parte, ma l’aspirazione di Padre Ugo è quella di andare a vivere con i poveri del Mato Grosso. E così a 60 anni parte per le Ande, e si stabilisce a 3400 metri.

In questi anni molti lo hanno seguito e in tanti si sono chiesti come ciò sia stato possibile. La verità che ci sta dietro è semplice. Se tu fondi un progetto o un gruppo, lo fai partire, lo metti in carreggiata e poi però non molli mai la poltrona da responsabile e cerchi di coinvolgere sempre altre persone nel progetto, queste ti seguiranno, ma solo per un pezzettino, non per tutta la vita. Ma se tu te ne vai e dai in mano a qualcun altro il timone della tua barca, quella barca non è più tua. Certo andandotene puoi rischiare che tutto muoia lì, ma se invece va avanti chi proseguirà sentirà quella barca anche sua.

Dalla Missione OMG Padre Ugo scriveva lettere incredibili. Fatti i dovuti saluti e racconti, dal lusco al brusco, alla fine della lettera magari ti chiedeva una macchina fare i mattoni. Non ti chiedeva qualcosa che aveva a che fare con il tuo lavoro. Lettere come quelle, le metti in un cassetto e le lasci lì. Poi ogni tanto il pensiero ci torna sopra come un rompicapo. E così ad un certo punto ti ritrovi in viaggio per Fidenza alla ricerca di una macchina per fare i mattoni. E la macchina la trovi e magari te la regalano e gliela mandi a padre Ugo sulle Ande. Come quando gli serviva una centrale idroelettrica. Ne regalò una l’Enel e anche quella venne smontata e spedita sulle Ande. La filosofia è sempre la stessa: fai un sogno, lo lasci lì e al momento opportuno decolla e si realizza.

Fare qualcosa per gli altri solo in modo gratuito e volontario

L’operazione Mato Grosso (OMG), anche se fondata da preti salesiani, di spirituale non ha molto. Padre Ugo ti dice solo di mettere l’entusiasmo nelle cose che fai, dopo di che lo spirituale viene da sé. Viene perché poi alla fine certe domande te le fai. Perché fai le cose, fai fatica, soldi non ne porti a casa e alla fine cosa porti a casa? È chiaro che poi alla fine ognuno ci mette del suo. Qualcuno ci vedrà una via spirituale e qualcun altro un’occasione di altruismo. Comunque vada, va nella direzione del Bene. Alla base non c’è un progetto comune, ma la capillarità in cui ognuno viene chiamato in prima persona e poi in ultimo una visione positiva del fare fatica. In una società in cui pochi muovono le gambe se non per andare da casa a una scrivania,  in cui il proprio corpo non è più considerato nel pieno delle sue possibilità, del suo saper fare, ma solo per quel che basta alla routine quotidiana, la fatica è importante perché ti impone l’impiego di tutte le tue capacità. E quando devi fare tutto da solo, perché non hai a disposizione niente se non te stesso, sei obbligato a tirar fuori il meglio che hai e questo genera entusiasmo per esserci riuscito.

Ai ragazzi in effetti non viene proposto nulla, se non di lavorare con altri, come forma di aiuto per realizzare un progetto. La proposta può essere semplicemente accettata o rifiutata. Nel momento in cui il coinvolgimento avviene sarà la persona stessa che si renderà conto che può aderire ad un’altra iniziativa e poi a un’altra e un’altra ancora. Su questa strada sono stati realizzati 14 rifugi, 11 sparsi tra la Val Formazza, la Valle d’Aosta e la Val Camonica e 3 in Perù, che con la stessa filosofia vengono interamente gestiti in modo volontario e i cui proventi vanno tutti all’Operazione Mato Grosso.

L’insegnamento più profondo che Don Ugo ha dato con l’Operazione Mato Grosso, è stato quello di fare qualcosa per gli altri e in modo assolutamente gratuito e volontario. Nel momento in cui l’aiuto viene pagato perde il suo significato e non si può più chiamare volontariato. Se a questo si aggiunge che non ci sono ne capi ne coordinatori, ma solo una grande capillarità in cui ognuno si organizza da solo, ma resta in rete con gli altri, allora si può comprendere più profondamente quanto questo insegnamento non solo sia autentico, ma anche perché funziona. Anche i soldi raccolti da ogni iniziativa finiscono tutti in una cassa centrale, amministrati da un bancario che si incarica semplicemente di cambiarli in dollari nel momento più favorevole e di inviarli alla Missione sulle Ande. Come dice Don Ugo tutti i soldi che vengono raccolti in Italia lui li spende. E in questa semplice formula si dice che ognuno in questa operazione provvede al mantenimento di sé. Perciò i volontari che vanno in Val Formazza a gestire i rifugi si autotassano giornalmente di una quota che serve a coprire quanto consumano e questo a garanzia che tutto quanto verrà raccolto con le attività dei rifugi arriverà davvero alla Missione.

Sono ormai centinaia i ragazzi, che facendo gruppo in Italia e lavorando gratuitamente nei campi di lavoro per la raccolta di ferro, carta, stracci, nella costruzione e gestione dei rifugi della Val Formazza, nella pulizia dei sentieri, del giardinaggio e del taglio della legna, guadagnano i soldi da inviare alla Missione. A volte sono loro stessi ad andare in Missione per qualche mese, e spesso anche per degli anni. Là, come qua in Italia, lavorano gratuitamente per i più poveri.

 

A titolo onorifico  il presidente del Perù ha concesso a Padre Ugo De Censi la nazionalità peruviana

Ha ricevuto la nazionalità peruviana per i servizi resi alla nazione e per il suo intenso lavoro a favore della popolazione di Chacas in Ancash. Per questo titolo onorifico  il presidente del Perù ha approvato un decreto legislativo particolare per permettere a padre Ugo di mantenere la doppia nazionalità. Alla consegna dell’onoreficenza il padre salesiano  ha dichiarato: “L’Italia è la mia Patria. Il Perù la mia Terra. I Giovani il mio Cuore”.

 

Padre Ugo si racconta …

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Quand’era piccolo, cosa sognava di diventare?

Se da piccolo mi chiedevano cosa volevo fare da grande rispondevo che volevo fare il prete. Io sono nato vestito da prete. Ho sempre voluto fare il prete. Non so perché. Cosa significa fare il prete. Fino a quando sono stato in casa di correzione per minori ad Arese, la casa di correzione più grande d’Italia (Barabit, così la chiamavano), per oltre vent’anni, fare il prete significava predicare. Raccontavo gli episodi della creazione, ma dopo tre mesi di predica quei ragazzi mi guardavano con distacco e dicevano che raccontavo delle gran balle. Oggi è così, della dottrina e delle encicliche i ragazzi se ne fanno un baffo. Alla fine di questa esperienza ho capito che la religione è la vita che si vive, non le parole che si dicono.

Quand’ero ragazzo ero così semplice e buono che credevo a tutto quello che mi dicevano. Ricordo che quando mi spiegarono cos’era l’inferno, cos’era l’eternità mi spaventai a morte. Il prete così raccontava: “Muori e dopo il giudizio comincia la pena eterna. Ma cos’è l’eternità?  Viene un angelo alla spiaggia del mare. Prende un granello di sabbia e lo butta via.. sono passati cento anni. Quando l’angelo avrà buttato via tutti i granelli della sabbia di tutte le spiagge di tutti i mari e di tutti gli oceani, allora comincia l’eternità.” Ricordo di essere quasi caduto a terra per la paura. Mi feci addosso di tutto! Nell’ora di religione ricordo che non faceva domande nessuno. E nessuno sapeva nulla ne sull’Inferno ne sul Purgatorio. Oggi se racconti le stesse cose, i ragazzi non si impressionano più e spesso ti mandano anche a quel paese.

Come nasce l’idea dell’Operazione Mato Grosso?

Ad Arese, dov’ero direttore spirituale ormai da alcuni anni, ad un certo punto mi nominarono confessore, incaricato degli oratori della Lombardia e dell’Emilia. Lì avevo un caro amico, Luigi Melesi che aveva un fratello della mia stessa età, che era missionario in missione. Nel ’64, Padre Pedro, il fratello del mio amico Luigi, rientra in Italia per una vacanza e lo incontro anch’io. Dalla faccia capivo che era stanco e accompagnandolo alla nave che lo avrebbe riportato nella sua missione, nel salutarlo, per la gran commozione, gli prometto che sarei andato a trovarlo, in Brasile nel Mato Grosso.

Così con questo pensiero in testa riprendo il catechismo ai miei ragazzi della Val Formazza. Però, c’era sempre molto disinteresse per la dottrina e più attenzione sul come preparare il Genepì.. Così un giorno parlando con loro gli racconto che dovrei andare a trovare un missionario in Brasile e che anziché fare il campo estivo in Val Formazza mi piacerebbe farlo nella missione di Padre Pedro. La mia era poco più di una battuta, un sogno a occhi aperti. Ma i ragazzi improvvisamente si fecero attentissimi e all’idea del Mato Grosso esplosero con un grandissimo entusiasmo, come un fiammifero acceso in mezzo alla benzina! E così mi venne da riflettere su come una un’idea così stramba e impossibile gli interessasse di più dei racconti su Mosè.

Detto fatto. Decido di andare dai miei superiori, i salesiani di Torino per dirgli che vado in Missione a fare un’opera buona, ma preferisco non dirgli che porto i ragazzi con me. Il mio superiore, invece, dopo avermi ascoltato mi chiede subito se vado da solo o se porto con me i ragazzi. Bisogna capire che in quel periodo, in Italia gli oratori erano ancora divisi in oratori maschili e femminili, due anni prima dei movimenti giovanili del ’68.

Il mio superiore che nella fattispecie, era il più severo e rigido di tutti quelli che mi potevano capitare, inaspettatamente mi dà subito il permesso di andare. Superato lo scoglio più difficile, torno a casa e scrivo subito a Padre Pedro che però mi risponde che non ci vuole. Alla fine, con l’intervento di suo fratello Luigi, don Pedro accetta e decidiamo che a Natale, con 24 ragazzi scelti fra quelli più in gamba dei vari oratori, si parte per il Brasile.

Il caso però mi rema contro e il 24 Maggio, il giorno di festa di Maria Ausigliatrice, per noi salesiani un giorno fondamentale per la nostra fede e devozione, vengo ricoverato in ospedale per una grave ricaduta di una mia vecchia malattia, la TBC ossea, per la quale avevo già subito anche un trapianto.

Questo colpo gobbo della provvidenza è stato la mia fortuna.  Insieme ai ragazzi e alle loro famiglie decidiamo, infatti, che la prima spedizione per il Mato Grosso parte lo stesso. E io, rimasto a casa inizio a scrivere ai ragazzi e sempre per iscritto a riferire alle loro famiglie come procede la missione e proprio grazie a questa corrispondenza epistolare nasce una piccola rete, che sarà poi il cuore dell’Operazione Mato Grosso.

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Padre Ugo pittore, sciatore e suonatore di fisarmonica

Padre Ugo nasce in un paesino della Valtellina, a Polaggia, in provincia di Sondrio, il 26 Gennaio 1924, in una famiglia semplice con cinque fratelli. Entra molto giovane in seminario con il fratello Ferruccio. Nel ’52 viene ordinato salesiano, dopo tre anni di degenza nell’ospedale di Santa Corona a Pietraligure per una grave tubercolosi ossea.

Padre Ugo ama profondamente la montagna e cresce esplorandola palmo a palmo, a piedi e sugli sci. Ne apprezza il silenzio, i colori, la natura e anche la fatica dello zaino.

La celebra anche con la musica, quella classica dei paesini di montagna, attraverso i canti e la fisarmonica, che suona mirabilmente. Arrivato sulle Ande officia la messa suonando la sua fisarmonica e tocca così, fin da subito, le corde del cuore della gente semplice del posto, senza tante chiacchiere, ma entrando direttamente in comunione con loro.

Ma le montagne della Valtellina Padre Ugo non le ha solo esplorate e cantare, ma le anche fissate nella memoria, per sempre, attraverso la pittura. Il suo stile è quello degli impressionisti, il tratto è preciso, pulito e delicato. Le proporzioni e le prospettive sono ben fatte e sobrie. I paesaggi richiamano spesso il suo paese natale, con le piccole baite dai tetti in beola, le piotte, i boschi, i prati a perdifiato, le vette fiere sullo sfondo di cieli azzurri e tersi e in generale una visione di insieme da cui traspare il cuore dell’autore, carico di emozioni autentiche.

Lui stesso confessa che ancora oggi quando dipinge, ormai non più di due volte all’anno, vi si immerge a tal punto da perdere la cognizione del tempo, delle cose, della fame, del sonno, della sete, del freddo, di se stesso. Finalmente, completamente perso nel colore e nell’arte, per lui così importante.

Che tipo di organizzazione vi siete dati?

L’Operazione non ha capi. Io stesso sono uno che lavora con i ragazzi, che gli sono simpatico, uno di loro. La filosofia generale è che ogni ragazzo deve portare avanti l’Operazione e deve essere completamente responsabile di tutta l’Operazione. Se uno sbaglia, prende una multa o compie, nell’aiutare i poveri, una qualsiasi disattenzione, ne risponde in prima persona, perché si è assunto “la responsabilità personale di aiutarli”.

Spendi tutto il tempo libero che hai, il Sabato e la Domenica viene a lavorare gratis per i poveri. Tutti i soldi si mettono via. Tu stesso che hai ricevuto soldi per quello che hai fatto gratuitamente, se vuoi li porti personalmente nella Missione. Ti paghi il viaggio con i tuoi soldi e quando arrivi là se vuoi ci resti, per tutto il tempo che puoi, un mese, quattro mesi, tre anni. Quello che desideri, che ti puoi permettere.

In missione oggi ci sono almeno 300 ragazzi che da diversi anni vivono lì e lavorano gratis per i poveri. Chi li mantiene? I loro amici in Italia, che lavorano, anche loro nel tempo libero, gratuitamente e mandano i soldi ricavati dal loro lavoro alla Missione. Questa organizzazione, che a molti potrà sembrare stramba, senza capi, ne regole, dura da 45 anni e ormai si estende oltre che in Brasile, anche in Bolivia, Perù ed Ecuador.

Evidentemente ormai è anche già troppo grande. Nell’Operazione l’importante è conoscersi tutti, uno a uno. Un po’ come nei gruppi terroristici, che per’altro qui in missione abbiamo anche conosciuto bene… quelli di Sentiero Luminoso: che fare, che soffrire, che morire… hanno ammazzato due dei nostri, un volontario, Giulio Rocca nel 1992 e Padre Daniele Badiali nel 1997.

Questo è un movimento molto semplice, dove il passa parola conta. Tu conosci sempre l’avversario e l’amico. E lavori per lui perché lo conosci e sai che non è un imbroglione. Lavorando insieme ci si conosce uno a uno e di ognuno sai come questi lavora. Quando invece un movimento diventa troppo grande diventa difficile ricordarsi di ognuno.

Certo io sono già troppo vecchio, ho 87 anni, ma tutti i ragazzi che passano da qui li dovrei conoscere tutti.

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La testimonianza di Daniele Granini, un volontario italiano che da alcuni anni vive a Chacas, come responsabile del progetto della Casa per i Danielitos

Danielitos, sono tutta gente rifiutata dalla società, perché non ci vedono, non camminano, hanno insomma menomazioni o mutilazioni di ogni tipo. Se vuoi quindi aiutare questo tipo di ragazzi devi pensare a un modo che ti permetta di sostenerli tutta la vita. Così cominci col costruire un ospedale e ne prendi uno, tetraplegico spastico, trovato per strada vestito di iuta in mezzo al fango. Gli costruisci una casa dove possa muoversi liberamente, senza barriere architettoniche. E lo occupi nelle diverse attività come l’orto, la serra, la cura degli animali, lo curi aiutandolo anche con laboratori di musicoterapia e fisioterapia e le attività occupazionali come la carpenteria, e poi cerchi di scoprire le sue abilità e le metti a frutto. Il problema dei disabili siamo noi. Noi gli poniamo dei limiti. Invece mettendoli in un situazione positiva e funzionale puoi scoprire che sono capaci di fare cose incredibile! Una volta aperta la porta non si torna più indietro.

Ormai ci sono 10 adulti e 18 bambini di 12-13 anni. Quando dai la possibilità a questi ragazzi di vivere con dignità, ritorna tanto.

Una volta intrapreso questo cammino non puoi fermarti perché se di questa casa tu non te ne occupi questa casa non ci sarebbe. Ogni opera di Padre Ugo è legata a una persona ed è necessario che poi dall’entusiasmo iniziale si maturi anche un po’ di fedeltà, un po’ di desiderio di sognarci ancora un po’ sopra, di migliorare e di dare anche una possibilità di lavoro agli assistenti, che sono persone del posto che per il loro lavoro ricevono uno stipendio che gli permette di mantenere se stessi e le loro famiglie. E così si aiutano anche altre persone, perché anche gli assistenti sono poverissimi.

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I chiodi fissi da picchiare in testa

… Chiodo n°4

Abbasso la scuola educatori!

Abbasso la cultura!

Il pericolo più grande di chi vuole educare la testa dimenticando di educare la vita.

Di arrivare al cervello anziché al cuore.

Di sapere le cose anziché viverle.

Di imparare dai libri, statistiche, riviste, TV anziché dalla vita delle persone.

Di leggere libri anziché leggere uomini.

Ho constatato che il decadere delle istituzioni educative hanno, in questo chiodo, il cancro peggiore della loro vitalità e del loro spirito antimondano.

Non conta il sapere, ma conta il vivere.

 

Ma tutti i soldi che vengono raccolti dove vanno a finire?

Tutti i soldi che si raccolgono, proprio tutti, devono arrivare ai poveri. Nessun soldo deve essere speso nell’organizzazione.

Devi pagare le casse: ti arrangi. Devi pagare le tasse: ti arrangi. La nave che imbarca la centrale idroelettrica: ti arrangi. Tutti i soldi che si sono guadagnati con le opere  e le attività di volontariato devono arrivare ai poveri. Non si deve spendere niente. L’associazione non ha nessuna spesa di gestione.

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La gente semplice di quà vuole una chiesa. Come si fa?

A Chimbote, città di 700mila abitanti, serve una cattedrale. Il vescovo lo dice a qualche amico e questa voce arriva anche a noi. Cosa facciamo? Chiamo il miglior capo cantiere che ho, Pierangelo. Va a Chimbote e fa un sopraluogo e rientrando ammette che le difficoltà non sono poche perché Chimbote è tutto mare. Alla fine Pierangelo si dà un gran da fare e tutto d’un colpo scopro che questo ragazzo è ingegnere, architetto e artista. Se volete sapere cosa fa l’Operazione Mato Grosso e vi capita di passare da Chimbote andate a visitare la cattedrale e vedrete di cosa sono capaci i nostri ragazzi! Con 10 operai la cattedrale è stata costruita ed è stata affrescata e arredata con mobili, sculture sacre e mosaici. Ogni cosa che serviva è stata realizzata interamente dall’OMG e a Pierangelo che vive qui, insieme a sua moglie, e lavora da diversi anni completamente in modo gratuito e come lui a quello addetto al ferro e a quello addetto al vetro e a tutti gli altri volontari che hanno una forte propensione all’arte.

Quello che più guardo in effetti nelle persone è la loro vocazione all’arte. Fare cioè le cose bene. Quando vuoi fare davvero le cose bene devi farle gratis. Devi cioè cercare di fare la cosa migliore non per i soldi, ma perché è quella che puoi.

La cattedrale di Chimbote è stata consacrata il 25 Agosto del 2007 dal Cardinale Tarciso Bertone, insieme a migliaia di giovani della Sierra giunti via mare in pellegrinaggio. Il coro stesso per quell’occasione era composto da 1000 ragazzi, diretti personalmente da Padre Ugo.

 

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Padre Ugo, ma cos’è la carità?

La cosa più importante nel fare la carità non è tanto quello che dai, quanto quello che perdi. Questa, è una cosa mia, te la regalo. La fatica è, che la cosa è mia, e io me la sono guadagnata, non me l’hanno regalata, e io la regalo a te. Fatti povero! Infatti, a mio avviso, la chiave dell’amore è perdere! Saper perdere! Se uno non vuol perdere e ha sempre l’idea di vincere non ce la fa.

I poveri sono peggio dei ricchi, più egoisti! Perché sono poveri. Il ricco ha capito alcune cose, alcune regole. Il povero … ma per carità! Qualcuno pensa che il povero sia come Gesù nella culla. Stai fresco! Quello ti sputa in faccia. Quando lavori per i poveri devi farti perdonare quello che gli regali!

 

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La chiesa di Chacas e la Scuola d’Arte Taller, di intaglio coloniale, pittura e scultura

La chiesa Chacas, lunga circa 80 metri, piuttosto stretta, riassume tutta la mia vita e la mia missione. Quando arrivai pioveva dal tetto e da tutte le parti. Le cappelle laterali erano sempre piene di acqua e di fango. Questa chiesa antica, con muri larghi 1,60 m, con il suo lungo corridoio stretto, buio e lugubre, completamente in disarmo, sembrava più un tunnel, una cassa da morto. Eppure in fondo a quel tunnel c’era un bellissimo altare del 1700 che sembrava dirmi ogni volta che lo guardavo “aggiustami, aggiustami”. Così per due o tre anni lo guardavo e pensavo come potevo fare. Nel frattempo girando a cavallo o a piedi i 100 km della parrocchia tenevo d’occhio anche i giovani di 14-15 anni, i ragazzi della Sierra che non trovando nulla da fare partivano immancabilmente alla volta di Lima a cercar fortuna, a buscar la vida, perché la loro terra non gli dava abbastanza e spesso non ne possedevano neppure un metro. Sentivo che dovevo aiutarli, ma mi rendevo conto che dicendo solo messe non servivo a nulla.

Una mattina mentre dicevo messa in questa chiesa per una donna che era venuta a chiedermela, insieme ai suoi cinque bambini, per ricordare il marito che, in preda ai fumi dell’alcool , era morto annegato, pensavo: questa donna, con 5 figli non la sposa più nessuno!  E così l’eco di queste due voci interiori “aggiustami” e “aiutami” mi spingono ad andare a Lima a cercare un maestro d’ascia, un cuzco (maestri di intaglio coloniale), capace di riparare l’altare. Finalmente ne conosco uno e gli chiedo quanto ci vuole per aggiustare l’altare. Lui mi risponde che gli servono almeno 5 o 6 anni. Allora, un po’ spiazzato, gli propongo l’aiuto ti qualche ragazzo. Così nasce Taller la Scuola d’Arte di Intaglio Coloniale di Chacas. Anche se in realtà in quel momento io non pensavo a una scuola, ma solo a un modo per riparare l’altare e aiutare i ragazzi a rimanere a casa loro. Prendo quindi 20 giovani e li ospito nella mia casa, affittatami per pochi soldi da un professore e li sistemo in qualche modo. Gli strumenti per lavorare sono pochi e semplici e il legno non c’è. Il primo legno me lo dà l’impresa che stava facendo la strada, giù dal mare fino su a Chacas: tre camionate di legname di pino. Con tutto quel materiale mi sentivo ricco. E così i ragazzi cominciano a lavorare con questo maestro di Lima. Ero sorpreso e colpito non solo dall’entusiasmo dei ragazzi, ma dall’arte che avevano dentro, che velocemente scaturiva nella bellezza del loro lavoro. Intagliavano la pecora e l’asino a memoria. Erano forme che a modo loro conoscevano profondamente.

Nel tempo, però, capisco che l’arte da sola non basta, bisogna anche pensare alle cose quotidiane e così insieme a un maestro di falegnameria di Chacas, Alessandro, faccio partire anche la scuola per falegnami. Infatti, dopo un anno di scuola di intaglio coloniale, siccome i ragazzi erano già diventati molto bravi, il maestro di Lima mi chiede di avviare un commercio di arte sacra. Io non accetto e allora lui se ne va, lasciandomi solo. Ma i ragazzi guardando e studiando i libri e frequentando qualche lezione del Cusco, dove li porto personalmente alcune volte all’anno, imparano a disegnare e a copiare dal vero. Studiano e progrediscono in fretta e così decido accantonare un momento il restauro dell’altare e di fondare una cooperativa di falegnameria per metterli in grado di procurarsi di che vivere. Solo dopo 10-12 anni il restauro verrà ripreso e completato.

I ragazzi in quel lasso di tempo crescono, si formano e alcuni di loro vanno a Lima ad aprire una loro fabbrica di 10 e anche 15 operai.

Ora ci sono diverse scuole di falegnameria, intaglio e scultura dove vi insegnano spesso i maestri del Val Gardena e di Ortisei. I ragazzi sono ormai più di mille, molti dei quali anche orfani. La scuola è completamente gratuita e comprende il vitto e l’alloggio. Dura 5 anni e alla fine rilascia un diploma professionale riconosciuto ufficialmente dal governo che concede agli studenti la qualifica di “intagliatori”. Come dice Padre Ugo, la scuola cerca di tenere questi giovani vicini alla loro terra, alla loro gente, ai valori, purché siano buoni, gratuiti; aiutino chi ha ancora più bisogno di loro; non si lascino conquistare dal mondo moderno, dal falso, dall’inganno delle luci artificiali.

 

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Una campana nel silenzio delle Ande suona sempre: “solo Dios”

Una campana per ricordare Francesco, un dottore giovane, che voleva un gran bene alla gente, ma che purtroppo si ammala di una brutta malattia e perde la vita. I suoi genitori scrivono a Padre Ugo che hanno deciso di mandargli tutti i soldi di Francesco e di farne quello che vuole. Padre Ugo propone di far costruire una campana molto grande, nel bel mezzo della valle di Yanama dove Francesco aveva lavorato, in un luogo alto, visibile all’orizzonte come una torre di guardia, da dove poterla sentire ovunque nel circondario.  I genitori di Francesco gli rispondono che sono contenti e di procedere. Così in due anni la campana viene finita.

Ma perché una campana? A Yanama ci sono tanti protestanti, cattolici e fedeli di altre confessioni religiose. Così padre Ugo pensa che se quando muore qualcuno, ognuno viene e tocca la campana, questa suonando deve dire una cosa sola: “solo Dios, solo Dio”. Non c’è nient’altro che Lui. Se c’è Lui stiamo tutti bene.

 

La morte è sempre pronta.

“La morte è sempre pronta, ci aspetta, io devo essere disposto a lasciare tutto, sin da ora”. (Padre Daniele Badiali)

Era il 16 marzo 1997, ore 22,45. Padre Daniele ritornava da Yauya su una jeep con altre 6 persone. Alt! Uno sparo e un biglietto minatorio: tanti soldi o la vita. E una pistola alla tempia di Rosaria, una volontaria italiana. “Vengo io, rimani tu, tu quedate, voy yo” Queste furono le ultime parole di Padre Daniele.

 

Cos’è Padre Ugo la Religione?

Il Silenzio. Il lavoro manuale, il sudare. L’Arte. Saper perdere.

Queste sono per me le quattro parole che fanno la religione. Non bla bla.. La religione per me è molto diversa da quella che si predica. Parole, discorsi, parlano di cose che nessuno conosce. Siccome il Signore è nascosto dietro queste cose, si farà vedere quando vorrà. Io sono venuto qua che non avevo fede. Facevo le cose solo per amore alla gente. La gente veniva in chiesa con i cartocci di foglie con dentro i cusanos, i vermi delle patate e li metteva sull’altare perché diceva che se il Signore non vede i vermi non li aggiusta. Così mettevano anche le spighe tutte mangiate dagli uccelli e le patate tutte bucherellate con dentro i cusanos vivi. E io mentre dicevo messa dovevo stare attento a tutti questi cartocci appoggiati sull’altare, che allora era un semplice tavolino, per non parlare degli escrementi dell’asino che mettevano sotto il crocifisso, quando perdevano l’asino, perché così il Signore glielo faceva ritrovare.. E io, che ero appena arrivato, e predicavo solo la dottrina, pensavo, ma guarda che maleducati incivili. E loro invece, i campesinos, mi dicevano che ero io l’ignorante che non sapeva nulla. La loro era devozione e non disprezzo. Capire la gente, stare con loro, fidarsi.

 

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E il futuro?

Non mi interessa. Tutti me lo chiedono, soprattutto i vescovi. Si arrangeranno. Tutti vogliono le regole. Fai questo, fai quello. Io mi fido dei ragazzi. Dopo se deve morire, deve morire. Le cose che non muoiono non vanno bene. Le cose di questo mondo devono morire tutte. Anche le religioni. Tutto quanto.

Con la testa sono ateo. Dio è molto al di là della testa. Se uno non ha capito questo, vuol dire che non ha neppure percepito cos’è Dio.

L’ho detto a tavola, al Nunzio Apostolico, ai miei superiori.

Il desiderio di Dio in me, invece, è grande e si manifesta con un po’ di penitenza: nel non fare più quello che voglio io, ma nel fare quello che vogliono gli altri.

Perché non l’anno fatta vescovo?

Perché non me lo merito.

 

di Adriana Paolini

 

Linkografia:

http://it.wikipedia.org/wiki/Ugo_De_Censi

http://www.donbosco3a.it/Home/LOMG/tabid/1218/Default.aspx

http://www.rifugi-omg.org/it/rifugi_o_m_g.html

http://www.rifugi-omg-formazza.it/?p=65

http://it.wikipedia.org/wiki/Operazione_Mato_Grosso

http://www.operazionematogrosso.org/

http://www.omgbolivia.org/

http://www.ilcarrettodellusato.org/index.htm

http://www.cartaamanonelleande.org/it/

http://www.omgroma.com/

http://www.mercatinosolidale.org/

http://www.infoans.org/1.asp?sez=1&sotsez=13&doc=9083&lingua=1

 

Le Opere, le Cooperative OMG (Operazione Mato Grosso) e gli Oratori realizzati in Perù, Bolivia, Brasile ed Ecuador sono centinaia.

Queste sono solo alcune della Provincia di Asuncion (Anchas) in Perù.

Vivaio Forestale

Costruzione strade

Coperativa di tessitura “Maria auxiliadora”

Taller maschile di falegnameria.

Famiglia di Artigiani Don Bosco

Mobili – Scultura legno

Vetrate – Restauro – Progettazione.

Ospedale “Mama Ashu”

Istituto tecnologico Don Bosco

Infermeria – Restauro

Costruzioni artistiche.

Laboratorio per la semente della patata.

Gruppi campesinos (patate).

Fabbrica di tegole.

Fabbrica del vetro.

Taller di tessuto femminile.

Canale di irrigazione.

Coperativa di tessitura “Maria auxiliadora”

Taller di elettromeccanica.

Laboratorio squadratura pietra.

Centrale idroelettrica.

Scuola muratori e idraulici.

Scuola Elementare.

Nel 2002 per ottenere cibo per i ragazzi e risparmiare denaro viene impiantata una fattoria di animali che oggi ha già 80 mucche da latte e sta per nascerne un’altra. Le stalle sono autonome sia per i pascoli sia per il foraggio.

Cooperativa “Carta delle Ande” ha costruito la cartiera Papelera don Bosco.

In mezzo al deserto di Chimbote sono state piantate 5700 piante di vite per la produzione di uva da tavola, da cui si effettuano due raccolti all’anno.

La Casa degli Orfani e dei bimbi abbandonati.

La Casa dei Danielitos.

Scuola d’Arte Taller, di intaglio coloniale, pittura e scultura.

Cooperativa Falegnameria Chacas.

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