Categoria | Politica-Economia

ISIS, bandiere nere sul Medio Oriente

Pubblicato il 12 ottobre 2014 da redazione

Immagine apertura- Bandiera ISIS

La bandiera nera dell’I.S.I.S.

Che il fondamentalismo islamico non potesse finire semplicemente con la morte di Osama Bin Laden o di altri leader del movimento radicale nessuno aveva dubbi.

Ma l’apparizione dell’ISIS, lo Stato Islamico di Iraq e Siria sembra quasi aver sorpreso la comunità internazionale, compreso l’estabilishment degli stati arabi.

Ha stupito la rapidità nell’organizzarsi, l’uso del terrore senza limiti e senza eccezioni, musulmani o cristiani che siano coloro che entrano nell’obbiettivo.

Nel giro di pochi mesi un terzo dell’Iraq (le province del centro – nord) e alcuni territori orientali della Siria sono caduti nelle mani del nuovo movimento integralista, per una superficie totale che è grande quasi quanto il Belgio.

Su internet i soldati del califfato Islamico pubblicano i video delle torture, delle decapitazioni di giornalisti occidentali, combattenti curdi e governativi iracheni, innocenti civili, rivelando una abilità comunicativa pari alla loro crudeltà.

La sfida è di nuovo lanciata, non solo alle potenze occidentali e cristiane, ma a chiunque: sottomettersi o morire.

L’antico grido degli eserciti che durante il medioevo hanno creato l’impero dell’Islam sembra essere tornato, con una forza attrattiva sempre crescente che recluta nelle comunità islamiche un numero ogni giorno più grande di adepti. Anche in quelle dell’occidente: è oramai certo che molti sono i volontari, provenienti dall’Europa, che combattono in Iraq e nella guerra civile siriana sotto la bandiera nera del califfato. Molti combattenti provengono addirittura dagli stessi Stati Uniti, persone nate e cresciute in quel paese. L’ISIS non parla, infatti, di sé come di un gruppo, un movimento, ma come di un’istituzione, un nuovo (ma antico) modello di società che conquisterà e purificherà il mondo corrotto.

Eppure un esercito non si inventa dal nulla, uno stato non si crea, seppur sulle basi della violenza più dura e intransigente, da un giorno all’altro.

Le sue radici sono lontane nel tempo e nella storia del mondo arabo, con un’origine complessa che i servizi dei reporter non possono chiarire e spiegare.

Un fattore che non si può ignorare se si vuole comprendere e combattere seriamente il nuovo furore integralista.

L’ ascesa irrefrenabile del nuovo stato islamico

Nel luglio del 2014 il traballante stato iracheno sembra sul punto di cadere di fronte alla conquista inarrestabile di un nuovo nemico, determinato, ben armato e ben addestrato.

Le orde dei nuovi conquistatori sono arrivate a meno di 100 chilometri da Baghdad e la minaccia si è fatta tanto reale che gli Stati Uniti e gli altri paesi occidentali ora sono precipitosamente ritornate nell’area, con raid aerei (al momento le aviazioni militari statunitense e britannica), mentre molti paesi, Italia compresa, hanno concesso aiuti militari all’Iraq e alle forze combattenti, in primis Curde, che da sempre si battono nell’area per la sopravvivenza del loro popolo.

Fino a ieri ci siamo girati dall’altra parte mentre la Turchia, una nazione della NATO colpiva duramente i gruppi armati curdi (e non solo).

Questi avvenimenti da soli rendono evidente quanto sia seria la minaccia dello stato combattente islamista, tanto da far ritrovare parti da sempre opposte sulle medesime posizioni.

Anzi, lo stesso presidente Assad, accusato di crudeltà inenarrabili verso il suo stesso popolo nella guerra civile in cui è degenerata la “primavera araba” in Siria, ha teso la mano all’Occidente per combattere assieme contro l’ISIS. Lo stesso Occidente che è stato sul punto di intervenire direttamente in Siria contro i governativi di Assad.

Ma intanto l’espansione del Califfato sembra inarrestabile, e in queste ore, il governo Turco sta seriamente preparandosi a intervenire per proteggere i propri confini sul Kurdistan iracheno.

Uno scenario da incubo…

La storia dell’I.S.I.S. inizia nel 1999, mentre Osama Bin Laden e i suoi discepoli stanno costruendo Al Quaeda, forti dei petrodollari degli sceicchi e delle centinaia di organizzazioni clandestine che procurano volontari per la guerra all’Occidente, infedele e materialista.

Bin Laden, di agiata famiglia saudita, ha fatto esperienza negli anni ‘80 durante la resistenza in Afghanistan contro gli invasori sovietici e ha poi organizzato l’addestramento e l’invio di combattenti integralisti in Algeria e in altre zone calde, ma per lo più il suo nome è noto agli “addetti ai lavori” di sicurezza e spionaggio.

Dopo l’11 settembre 2011 il suo nome e le sue intenzioni saranno noti a tutto il mondo.

Al suo fianco Ayman Al Zawahiri, medico egiziano che prenderà il posto di Bin Laden, quando il 2 maggio 2011 le forze speciali statunitensi concludono la lunga caccia al leader di Al Qaeda, sorprendendolo nel suo rifugio ad Abbottabad, villaggio sperduto tra le montagne pakistane nel cosiddetto “distretto tribale”, dove nessun esercito è mai riuscito ad affermare l’autorità di uno stato costituito.

L’altro uomo forte di Al Quaeda, sin dai tempi della guerra contro i russi, è un giovane giordano, ambizioso e spietato, Abu Musab Al Zarqawi.

Bin Laden vuole che il popolo arabo, sotto la guida di un’elite di confessione sunnita, si unisca per cacciare la presenza e le influenze dell’Occidente cristiano e capitalista dalle terre sacre all’Islam.

E questa visione diviene preponderante specialmente dopo la prima guerra del golfo nel 1991, quando le forze armate occidentali, statunitense in testa, arrivarono nella Penisola Arabica per cacciare l’esercito di Saddam Hussein che ha invaso il Kuwait, senza mai più andarsene anche dopo la sconfitta irachena.

Al Zarqawi ha una visione ancora più determinata: la sua guerra non è solo contro gli occidentali, la cristianità, ma in primis verso quei governi musulmani che hanno dimenticato l’ortodossia indicata dal profeta Maometto facendo entrare la modernità nella società, nell’economia, distinguendo il potere politico da quello religioso.

Al Zarqawi punta sulla traballante situazione dell’Iraq, dove una maggioranza sciita sopporta la sanguinosa dittatura di Saddam Hussein e della minoranza sunnita a cui appartiene.

Jama’at al Tawhid wal Jihad, monoteismo e guerra santa, è il nome che dà alla sua organizzazione, affiliata ad Al Quaeda, ma da subito se ne distingue, perseguendo guerra totale e spietata, la jihad definitiva contro i nemici dell’Islam, interni ed esterni.

Il suo scopo, è quello di infiltrarsi in Iraq e fomentare la guerra civile. Distruggere lo stato preesistente con una violenza assoluta, per poi creare un califfato tradizionale islamico guidato da una classe dirigente esclusivamente sunnita.

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Un F22 Raptor dell’U.S.A.F. mentre viene rifornito in volo. Pare anche questi modernissimi jet siano impiegati nei raid contro installazioni dell’I.S.I.S. in Siria e Iraq.

Al Zarqawi e i suoi uomini in Iraq si distinguono negli anni 90 per una serie di azioni destabilizzanti.

L’invasione americana del 2003, con la seconda guerra del golfo, è l’occasione che stà aspettando per fare il salto di qualità. Kamikaze che si fanno saltare contro le forze armate dei paesi della coalizione occupante, civili occidentali rapiti e decapitati, con le raccapriccianti immagini diffuse in tutto il mondo attraverso internet, attacchi agli hotel e ai centri dove abitano cittadini stranieri.

Ma anche la bomba davanti alla moschea di Najaf che uccide 125 iracheni sciiti, compreso l’ayatollah moderato Muhammad Bakr al Hakim.

Nel 2004 ribattezza la sua organizzazione, Tanzim Qaidat al Jihad fi Bilad al Rafidayn, ovvero Al Quaeda in Iraq, riconfermando l’alleanza con Bin Laden, nonostante la differenza di strategie e vedute sia ormai profonda: Al Quaeda ha però bisogno di esser presente nel calderone iracheno, Al Zarqawi ha bisogno di soldi, armi e soldati addestrati per proseguire la sua rivoluzione islamica.

La mano destabilizzante del gruppo arriva anche all’estero, come nel 2005, con gli attacchi ai turisti occidentali a Sharm El Sheik sul Mar Rosso e il proselitismo in tutti i paesi arabi del Medio Oriente, per sostenere la nascita di gruppi affiliati.

La morte di Al Zarqawi il 7 giugno 2007, centrato da una bomba al laser americana, non ferma la crescita del movimento, nonostante la strategia di collaborazione con i clan sciiti del comandante alleato, il generale Petraeus, abbia circoscritto notevolmente la penetrazione tra le popolazioni locali.

Nemmeno l’eliminazione del suo successore Abu Omar al-Baghdadi nel 2010 serve a molto. La guida passa a Abu Bakr al-Baghdadi, attualmente uno degli uomini più ricercati al mondo. Fino al 2009, infatti, Abu Bakr al-Baghdadi è detenuto nel campo americano di Bucca, ma col passaggio dell’autorità agli iracheni, viene liberato assieme a molti altri prigionieri come segno iniziale di benevolenza del nuovo potere di Baghdad.

Ma le miopi politiche repressive e vendicative del nuovo governo filooccidentale di Baghdad, guidato da Nur Al Maaliki a maggioranza sciita, non fanno altro che spingere tra le file dell’ISIS molti sunniti, ex appartenenti al partito Baath in Iraq.

Esecuzione di un prigioniero da parte di un miliziano dell’ISIS.

Esecuzione di un prigioniero da parte di un miliziano dell’ISIS.

Nel 2011 il sogno degli strateghi jiadisti diviene realtà: dopo il ritiro delle forze armate statunitensi e dei loro alleati, le deboli forze del nuovo governo iracheno non riescono a opporsi alle forze ribelli, che ormai controllano e governano come uno stato le province di Al Anbar, Nineveh, Kirkuk, parti di quelli di Salah ad Din, Babyl, Dyiala e di Baghdad stessa, stabilendo la capitale a Babuqah.

Un’area enorme che va dal confine turco-siriano fin quasi al centro dell’Iraq.

Tanto che si è arrivati all’autoproclamazione dello Stato Islamico dell’Iraq e del levante (I.S.I.L.).

Una visione molto ambiziosa quella di includere tutta l’area del levante classico, che comprende Israele, la Giordania, il Libano, la Siria fino al sud della Turchia, ma si estende concettualmente fino a Cipro, all’Egitto e al Nordafrica nel suo complesso.

Nel frattempo, l’esplosione della primavera araba in Siria e la sua rapida degenerazione in guerra civile porta rapidamente le forze dell’I.S.I.L. a intervenire a fianco dei ribelli contro il governo di Damasco.

Man mano che la guerra dei governativi fedeli al presidente Assad si fà più crudele, l’egemonia dei combattenti islamici diviene più forte.

Già nel corso del 2012 le forze ribelli “moderate” siriane risultano assolutamente marginali.

Come al solito i metodi dei miliziani sono sempre gli stessi, o sotto le nostre bandiere o sottoterra. Poco importa che si tratti di avversari o di forze in teoria appartenenti allo stesso schieramento, gli islamici in realtà combattono una propria guerra nella guerra.

Centinaia di migliaia di profughi fuggiti in Giordania e in Turchia riportano il racconto di massacri e violenze senza alcun limite.

Il peggio però tocca alle popolazioni contadine di fede cristiana. Per loro, visti come antichi occupatori di terre sacre all’Islam, è possibile solo l’eliminazione fisica.

Lo stato islamico impone il proprio controllo a una parte dei governatorati di Ar Raqquah, Idlib, Dei er Zor e Aleppo, dove si trovano anche i principali pozzi petroliferi siriani.

Nel 2013 modifica il proprio nome in ad-Dawlah al Islāmīyah fil Iraq wa Sham, lo stato islamico dell’Iraq e della Siria. (I.S.I.S.), conosciuto con l’acronimo di Da’ish (lo stato islamico) in lingua araba: se qualcuno ravvisa nei frequenti cambi di nome un segnale di indecisione dello stato islamico sulla strategia da seguire, altri invece vi vedono grande flessibilità nell’adattarsi al mutare delle condizioni sul campo.

Ormai lo stato islamico è una forza autorganizzata, capace di elaborare le sue strategie sulla base dei propri ideali e obbiettivi, costruire una rete di governo del territorio in cui amministrare giustizia, servizi principali, tasse ed educazione dei giovani secondo i principi più ortodossi.

Ha un sistema economico che le consente di affiancare ai finanziamenti esterni anche la gestione dei traffici commerciali, legali e illegali, che passano da Mosul, e vende il petrolio siriano e iracheno (seppure non vi siano giacimenti consistenti), con un sistema di contrabbando simile a quello usato da Saddam durante l’embargo degli anni 90.

L’elettricità prodotta con le centrali idroelettriche strappate ai siriani nel bacino montagnoso a nord viene venduta in tutti i territori circostanti.

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Cartina delle città conquistate in Iraq e in Siria dall’I.S.S ed estensione dello stato islamico al momento della conquista di Mosul.

Nelle banche delle città conquistate i quadri del nuovo stato trovano centinaia di milioni dollari in valuta estera e oro: una manna per le esigenze organizzative degli jiadisti.

Il suo esercito è capace di addestrare e motivare i miliziani, sempre ben pagati (si parla fino a 600 dollari al mese per ogni combattente) e ben equipaggiati: gli effettivi stimati sono passati da circa 8.000/11.000 a forse 30.000. Si tratta ovviamente di stime, ma la pressante propaganda dell’I.S.I.S., sopratutto attraverso internet, sta portando moltissimi volontari tra le loro file.

Le scene di fucilazioni di massa, della decapitazione di ostaggi occidentali, molto più curati negli effetti e nella regia, servono a creare uno spartiacque.

Questa è la guerra santa definitiva, per ogni vero musulmano il suo posto è fra i combattenti, tutti gli altri sono solo nemici da annientare.

Anzi, coloro che compaiono nei terribili video incitano i correligionari a portare la guerra direttamente nelle nazioni occidentali.

Nel febbraio 2014 l’autonomia del nuovo movimento e la sua distanza anche ideologica da Al Quaeda viene sancita dalla scomunica da parte del leader Ayman Al Zawahiri.

Troppa la violenza anche per un gruppo come Al Qaeda che non si è mai fatto troppi scrupoli nel colpire civili innocenti, troppo diverse le motivazioni e gli obbiettivi.

Per cui in Iraq e nelle regioni dell’Oriente unica organizzazione combattente riconosciuta e sostenuta da Al Qaeda è Al Nusra.

Ma ormai i leader dell’I.S.I.S. non hanno più bisogno del credito dell’indebolita organizzazione di Bin Laden, è rivale diretta nel ruolo di riferimento per tutti i movimenti oltranzisti islamici nel mondo, dalla Cecenia alle Filippine.

La continua crescita del gruppo, i suoi successi militari sul campo destabilizzano pesantemente l’intera regione e rischiano di generare conseguenze ben più lontano dai confini dei territori conquistati.

Sin dall’inizio, l’intervento (e il successo militare) nella guerra civile siriana destabilizza ulteriormente la situazione.

Per esempio, gli iraniani sono già intervenuti in sostegno dei governativi siriani attraverso le milizie di Hezbollah presenti in Libano e di solito impegnate contro Israele.

Nemmeno questo però ferma le forze dello stato islamico, tanto che Tehran invia direttamente in Siria almeno 500 appartenenti alle forze speciali Quds, la crema della crema dei pasdaran, le guardie della rivoluzione Khomeinista, preparandosi ad aumentare il contingente nel caso l’I.S.I.S. continui nella sua offensiva.

E l’Iran è uno stato a maggioranza sciita.

Del resto le forze militari iraniane presenti, così vicino ai propri confini, non fanno altro che aumentare il nervosismo degli Israeliani e dei turchi.

Nessuno può veramente sapere, nemmeno gli analisti più esperti di medio oriente, quale sarà la direzione che prenderà il vento del deserto…

Le radici storiche, religiose e politiche dell’I.S.I.S.

Tra i finanziatori dei gruppi estremisti religiosi combattenti vi sono sempre stati i ricchi paesi dei petrodollari della penisola arabica, in primis l’Arabia saudita.

Una posizione spesso difficile per un paese oramai abituato a vivere il suo tempo in economia, la cui elite si forma e frequenta abitualmente il mondo occidentale, ma le cui radici morali e culturali sono profondamente ancorate alla tradizione.

Tanto che oggi la società saudita è fortemente divisa fra chi sente il messaggio dell’I.S.I.S. come un richiamo alla purezza morale e religiosa, chiedendo un cambio nella direzione politica dei governi sia all’interno, sia nei rapporti con gli altri paesi e chi invece reputi il furore moralista dei fondamentalisti sunniti anacronistico e pericoloso per il futuro del regno.

Le radici culturali e storiche dello stesso stato sono immerse nella dottrina di Muhammad ibn ‘Abd al-Wahhab, fondatore del Wahabismo e vissuto nel corso del 18° secolo.

Seguace del pensatore del 14° secolo Ibn Taymiyyah, predicava un ritorno alla purezza nell’osservanza dei principi religiosi e morali musulmani.

Considerava corrotti e traditori i nobili egiziani e ottomani, la crema della classe dirigente dell’Impero Ottomano che governava la regione, che vedeva andare a pregare alla Mecca, con tutte le loro ricchezze e le loro sfarzose corti.

Esempio da seguire nella gestione del potere temporale e spirituale era quello del profeta Maometto, al tempo della sua permanenza alla Medina.

Per Abd al Wahhab, austero moralista, ogni comportamento che deviasse dal più stretto monoteismo era un tradimento di Dio e della fede. Anche solo la venerazione dei morti e delle persone sante era una deviazione inaccettabile, una forma di idolatria.

Ma il cuore più profondo di questa ribellione purificatrice, tutta interna al mondo musulmano, stava nel fatto che non solo fosse necessario per il vero musulmano denunciare queste deviazioni, ma che chiunque si comportasse in questo modo perdesse ogni immunità e fosse meritevole di essere ucciso, le sue donne stuprate e portate in schiavitù, i suoi beni sequestrati.

Sono le radici del pensiero Salafita.

‘Abd al-Wahhab dovette fuggire per via delle sue teorie oltranziste e nel 1741 raggiunse i territori sotto il potere della tribù di Ibn Saud, che lo accolse.

Ibn Saud vide subito nel furore del predicatore il mezzo per poter prendere il potere su tutte le altre tribù rivali e per poter fare quel che avevano fatto fino a quel momento, razziare e conquistare territori, ma con la copertura della fede e della morale.

La Jiad, la guerra santa e il martirio, antiche forme di estremismo religioso, vennero rispolverate da Saud e sotto le sue bandiere riunì un esercito sempre più grande, che arrivò a mettere a ferro e a fuoco numerose città dell’Arabia e dell’Iraq, come la Medina e Karbala.

La strategia del terrore era il mezzo: sottomettetevi o morirete.

Le stragi perpetrate nel nome del fuoco purificatore moralista arrivarono a mettere in pericolo l’esistenza stessa dell’Impero ottomano, per cui eserciti da tutte le provincie arrivarono per contenere la conquista Saudita e wahabita, specie dopo la presa della Mecca.

Nel 1818 il sogno della stirpe Saud e del Wahabismo si chiuse nel sangue con la cattura della sua capitale Dahirya, non prima che l’Arabia avesse perso gran parte delle sue architetture e del suo patrimonio culturale.

Durante la prima guerra mondiale il vecchio sogno di potere dei Saud visse una nuova primavera: nel nome dell’indipendenza da Costantinopoli e dal morente Impero ottomano, il re Abd Al Aziz Saud riunì le tribù beduine del deserto e le riportò alla vittoria, riuscendo a fondare il regno saudita.

Le istanze Wahabite erano ancora alla base della politica del nuovo regno, ne avevano colonizzato il dna culturale.

Ma re Aziz era un realista: nella penisola araba era stato scoperto il petrolio, gli stati protagonisti della politica occidentale, l’Impero Britannico in testa, corteggiavano il nuovo sovrano e collaboravano volentieri alla modernizzazione del regno, in cambio dello sfruttamento dell’oro nero.

1945, il presidente statunitense Franklin Delano Roosevelt di rientro dalla conferenza di Yalta che disegnerà il mondo dopo la seconda guerra mondiale, si ferma in Arabia saudita a parlare con re Abdul Aziz bin Saud.

1945, il presidente statunitense Franklin Delano Roosevelt di rientro dalla conferenza di Yalta che disegnerà il mondo dopo la seconda guerra mondiale, si ferma in Arabia saudita a parlare con re Abdul Aziz bin Saud.

La parola d’ordine del Wahabismo, un capo, un’autorità, una moschea, venne piegata alle esigenze di stabilizzare il nuovo regno: il capo era il re, l’autorità la dinastia, la moschea la Mecca.

Così quando l’Ikhwan, la fratellanza religiosa, si sentì tradita dalla svolta istituzionale dei Saud e lanciò la ribellione, re Aziz ebbe buon gioco a isolarli e a massacrarli, con le armi moderne fornite dall’occidente, questa volta.

Con l’arrivo della manna petrolifera, il sogno dei Saud di wahabizzare l’intero mondo musulmano, di unirlo nella stessa visione culturale e religiosa la comunità islamica venne perseguito spendendo miliardi di dollari per creare scuole che diffondessero i precetti morali di Abd al Wahhab anche fuori dall’Arabia Saudita, in tutti i paesi musulmani.

Così è iniziato anche il disastroso equivoco interpretativo occidentale nei confronti della società Saudita, da un lato così moderna, dalla ricchezza, dalla volontà di conquistare leadership nel mondo musulmano.

Tanto che non hanno saputo vedere il contrasto profondo con la rigidità dei costumi e delle regole religiose che manteneva al suo interno la società saudita.

La dinastia saudita aveva posto il suo regno e le sue grandiose forze al fianco dell’occidente in molte battaglie come la lotta alla penetrazione del pensiero materialista comunista, del Nasserismo, del Baathismo, l’influenza della rivoluzione Khomeinista in Iran e dei regimi arabi che fossero in contrasto con gli interessi politici e economici dell’occidente in genere.

Fino ad accettare la presenza di migliaia di soldati occidentali e cristiani sul suolo sacro della Mecca durante la guerra in Kuwait, in nome della lotta comune verso il pericolo Iracheno.

Del resto, Osama Bin Laden, così come molti altri, faceva parte dell’elite della società saudita: quando andò a combattere l’invasione dell’URSS in Afghanistan l’Occidente non fu in grado di vederne lo spirito wahabista e di coglierne il pericolo.

L’I.S.I.S. oggi è profondamente wahabista, nel modo in cui ne condivide i principi ultraradicali e autoritari: quindi mette in discussione l’autorità del regno saudita così come mette in discussione quella di altri stati ‘secolarizzati’.

E per una parte influente della società, mettere in discussione l’autorità del re non è altro che un ritorno alle origini dell’antico modello saudita – wahabita.

L’impostazione morale Ikhwan gode del favore di molte persone influenti in Arabia saudita e negli altri stati arabi ricchi.

La nascita dell’I.S.I.S. ha portato allo scoperto la contraddizione di una società che sembrava ricca, moderna e moderata, la cui influenza è stata a lungo considerata positiva per lo sviluppo del resto del mondo arabo. Ma la cui anima non è mai veramente cambiata.

 di Davide Migliore

Linkografia e bibliografia

http://www.ilpost.it/2014/06/19/isis-iraq/

Elena Zacchetti, 19 giugno 2014, il Post.

http://www.rainews.it/dl/rainews/articoli/isis-stato-islamico-iraq-al-baghdadi-79d74ed1-9d09-4731-9486-40f8d43e032a.html?refresh_ce

http://www.huffingtonpost.it/alastair-crooke/non-si-puo-capire-isis-senza-storia-wahhabismo-arabia-saudita_b_5757146.html

Alastair Crooke, 3.9.2014, Huffington Post.

http://apps.washingtonpost.com/g/page/world/map-how-isis-is-carving-out-a-new-country/1095/

http://en.wikipedia.org/wiki/Islamic_State_of_Iraq_and_the_Levant

http://www.newrepublic.com/article/119259/isis-history-islamic-states-new-caliphate-syria-and-iraq

Graeme Wood, The New Republic online.

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