Categoria | Green, Viaggiando

I Penan sono tra le popolazioni del Borneo più colpite dalla deforestazione.

Pubblicato il 17 febbraio 2015 da redazione

Due giorni nel cuore del Borneo, in una terra remota, lontana, dove la natura e il tempo paiono avere lo stesso significato.

Mi sono ritrovato quasi per caso in questa spedizione, il cui nobile proposito era quello di portare provviste di cibo, vestiti e materiale utile a una popolazione Penan dispersa nel bel mezzo della foresta tropicale, e recentamente colpita da una forte alluvione.

Mosso dalla mia incessante curiosità verso l’ignoto e dalla voglia di esplorare il “poco conosciuto” e il “diverso”, accetto di buon grado la proposta. In compagnia di quattro insegnanti e una tenace donna malese, ci dirigiamo verso questo villaggio “senza-nome”, trascurato dalle cartine geografiche e immune allo scorrere incessante del tempo.

L’accessibilità e’ precaria, le quattro ore di strada sterrata dalla città più vicina per giungere a destinazione mettono a dura prova la stabilità delle nostre Jeep. Ma il tempo per fortuna è sereno e i guidatori esperti rendono il tutto più semplice. Ci infiltriamo nel cuore del Borneo, nella foresta tropicale, in uno dei grandi polmoni verdi del pianeta.

Il grande problema del Borneo

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La lunga strada sterrata che percorriamo per giungere a destinazione fa da sfondo all’enorme guaio che la foresta del Borneo sta forzatamente subendo da decenni: la deforestazione.

Sulla via del villaggio cui siamo diretti, la situazione critica è da subito evidente e tangibile. Numerosi camion con giganteschi tronchi a bordo ci incrociano, e individuiamo vaste aree destinate al “parcheggio” degli stessi.

In più, intere colline sono state devastate per lasciare spazio alle nocive coltivazioni di palma da olio. Queste brutte e tozze piante, che hanno rimpiazzato i più fieri e alti alberi, sono chiaramente innaturali e contribuiscono a rovinare anche la bellezza del paesaggio. Uno dei più grandi polmoni verdi del pianeta sta scomparendo e il risultato è sotto i nostri occhi.

Dagli anni 60′ la terza isola più grande del mondo, il Borneo, è stata letteralmente devastata, con danni di portata incredibile all’ecosistema interno e alle popolazioni indigene locali.

Studi compiuti dai satelliti mostrano che tra il 1985 e il 2001 più della metà delle foreste tropicali del Borneo sono state tagliate per soddisfare la domanda globale di legname.

Leggi a tutela del territorio sono effettive in tutti e tre i paesi del Borneo (Malesia, Indonesia e Brunei), ma troppo spesso risultano inadeguate o palesemente violate, per di più senza nessuna grande conseguenza per i trasgressori.

Gli anni 80′ e 90′ hanno rappresentato il momento più nero della storia dell’isola, con un tasso di distruzione di circa 5 volte superiore a quello rilevato in Amazzonia. Più dell’80% delle pianure di Kalimantan (la parte dell’isola che appartiene all’Indonesia) furono allora concesse per la produzione intensiva di legname. Le conseguenze rappresentano tutt’oggi un disastro per l’ecosistema.

La foresta tropicale fu devastata inoltre dai grandi incendi del 97′ e del 98′, originariamente appiccati dai locali per destinare parte della foresta all’agricoltura. Gli incendi, quell’anno, perpetuarono inesorabilmente a causa di un’eccezionale stagione secca che afflisse l’isola. Essi furono così distruttivi che si potevano addirittura rilevare dalle immagini satellitari, e la fuliggine creatasi raggiunse persino i vicini paesi di Singapore, Brunei e Malesia peninsulare.

Purtroppo, ad oggi, il fenomeno della deforestazione non accenna a placarsi, e ulteriori distruzioni di biodiversità sono anticipate in nome di nuove dighe, attività minerarie e altre ancora legate al disboscamento. Il solo Borneo contribuisce a soddisfare il 50% della domanda mondiale di legname, e l’interesse economico che vi sta dietroè incredibilmente elevato.

Il problema della deforestazione non è soltanto legato all’estrazione di legname pregiato, ma vi è un’altrettanto allarmante industria che negli ultimi decenni ha preso piede in Borneo (e non solo..): quella dell’olio di palma. Esso rappresenta il più diffuso olio vegetale tropicale, e nonostante sia originario dell’Africa centrale, la Malesia e l’Indonesia attualmente ne sono i maggiori produttori a livello globale. La pianta infatti, si adatta a qualsiasi ambiente caldo, e ricco di acqua.

L’uso massiccio delle piante comporta grandi costi ambientali ed etici. La richiesta di olio di palma è talmente alta che, per stare al passo con gli ordini dell’industria alimentare, centinaia di ettari di foreste vengono abbattute e convertite in monoculture. Nel solo Borneo, si passa dai 2.000 chilometri quadrati del 1967 agli oltre 30.000 odierni. E poiché la domanda mondiale sta crescendo a tassi molto elevati (ad oggi essa si aggira attorno ai 60 milioni di tonnellate l’anno), il processo non sembra arrestarsi.

Il Wwf ha calcolato che ogni ora nel mondo vengono abbattute porzioni di foreste tropicali della grandezza di 300 campi da calcio. Secondo Forest Trends, tra il 2000 e il 2010 l’80% del taglio è avvenuto illegalmente.

Le conseguenze

Disboscamento industriale e piantagioni intensive di palme portano con sé una lunga serie di conseguenze dalle quali sarà poi difficile tornare indietro.

La deforestazione causata dalla produzione di olio di palma contribuisce significativamente al cambiamento climatico. Infatti, gli incendi provocati per la rimozione degli alberi nuocciono gravemente all’ambiente naturale sottostante al terreno, emettono immense quantità di gas tossici nell’atmosfera e fanno dell’Indonesia il terzo paese al mondo con la più alta emissione di gas serra.

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Attualmente, un terzo dei mammiferi è considerato a rischio di estinzione a causa di porzioni sempre inferiori di alberi e frutti commestibili. In particolare, l’Orango Tango, l’icona di queste foreste tropicali, è seriamente in pericolo, poiché negli ultimi 20 anni il 90% del suo habitat é stato distrutto, e si stima che ogni anno a causa di questo problema perdono la vita dai 3 ai 5 mila esemplari.

La costruzione di strade per circolare all’interno degli immensi campi di palme ha fatto si che i bracconieri avessero un facile accesso alla foresta, mettendo a repentaglio le già deboli specie animali.

Infine, l’erosione delle colline ha gravemente danneggiato i bacini acquiferi e barriere coralline. I fiumi dell’isola sono irrimediabilmente inquinati, e il terreno instabile produce un’erosione costante che conduce a maggiori rischi di inondazioni e incendi.

Penan

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I Penan sono una di quelle popolazioni locali indigene maggiormente colpite dal problema deforestazione. Essi sono stati decimati nel corso degli anni e privati della loro principale fonte di sostentamento: “Noi apparteniamo alla foresta”, dichiarano. Fino a qualche decennio fa erano una popolazione nomade, che si spostava nella jungla a seconda della presenza o meno di cibo, cacciagione e risorse naturali. Viaggiavano in gruppi familiari, spesso composti da numerosi membri e dopo aver “sfruttato” una determinata area per alcune settimane si spostavano, permettendo alla stessa di autorigenerarsi. Profondi conoscitori di piante ed erbe, talentuosi cacciatori, basavano la loro vita su ciò che la natura garantiva per la sussistenza.

La loro direzione era spesso decisa da segnali naturali, quali il volo di un’aquila, l’intervallo delle pioggie o messaggi lasciati nella foresta da altri Penan.

Tuttavia, molto è cambiato nel corso dell’ultimo secolo. Attualmente, parecchi dei 20.000 Penan rimasti, si sono stabiliti in villaggi, dove vivono con altre famiglie. Purtroppo la vita spensierata della foresta, la caccia con le cerbottane e l’esistenza animistica sono rimasti un lontano ricordo. Nonostante ciò, la conoscenza degli elementi naturali e la grande esperienza permette loro di dipendere dalla natura per molte delle medicine e nutrienti. Inoltre, essi conservano molti dei loro valori culturali tradizionali e offrono risposte sostenibili ai problemi ambientali di cui abbiamo discusso. I Penan, per esempio, utilizzano la pratica della condivisione equa di tutti i beni, e attuano il concetto di “molong”, secondo il quale tutti i raccolti dalla foresta debbano avvenire in maniera responsabile. Non allevano animali, ma si cibano soltanto di cacciagione. Mantengono un legame indissolubile con la natura e le sono grati ogni giorno con danze tribali, canti e preghiere.

L’arrivo al villaggio

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Dopo 4 lunghe ore arriviamo finalmente a destinazione, dove ai piedi di un grande corso d’acqua parcheggiamo le nostre 4×4. Scarichiamo il nostro carico e alcuni membri del villaggio Penan, lì ad aspettarci, ci salutano calorosamente e ci aiutano a portare l’ingente peso attraverso un fitto sentiero nella jungla che terminerà dopo circa mezz’ora.

La favola di Shida

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Shida, la ragazza malese che ha organizzato la spedizione, ha un’incredibile storia alle spalle che credo valga la pena di essere menzionata. Essa si batte per le popolazioni Penan da circa 4 anni, e la sua è davvero un’interessantissima attività piena di passione e sacrifici. Il suo impegno è giornaliero e costante, e intorno a lei si sono unite alcune persone fidate che collaborano nella sua apprezzabile e gratificante missione.

Shida gira di villaggio in villaggio e incoraggia la donne che vi vivono a produrre i loro personali manufatti. Essi sono prodotti con materiale in plastica, per cui non vanno ad intaccare le già precarie risorse naturali. I prodotti finiti sono soprattutto borse, ma anche ceste, tappeti e tovaglie. Shida fornisce loro materiale, assistenza e formazione. Queste donne riescono a creare artefatti di pregevole bellezza e qualità. Le donne sono le prime a meravigliarsi delle proprie qualità.

Quando questi prodotti sono pronti, Shida ritorna al villaggio. Solo il fatto di raggiungere questi remoti paesi nel bel mezzo del nulla implica un grande spirito e una forte determinazione, poiché spesso si impiegano ore e ore per raggiungerli, tra superamenti di pericolose strade, attraversamento di fiumi e lunghi percorsi a piedi nella jungla.

Un dettaglio importante è che i manufatti prodotti vengono direttamente comprati da Shida e dagli altri volontari, e i soldi consegnati direttamente nelle mani di queste donne. Essi vengono poi rivenduti in Brunei e in Malesia, e i profitti ottenuti vengono nuovamente reinvestiti per comprare ulteriore materiale e dare nuovi aiuti alle altre popolazioni Penan. Èun circolo virtuoso.

Io lo trovo un incredibile ed efficace modo per responsabilizzare le donne Penan, le quali, offrendo in maniera tangibile un contributo alla famiglia, si sentono parte della stessa e meglio integrate all’interno della società. Inoltre, come io stesso ho assistito, nel momento in cui le donne ricevono il denaro e vengono ricompensate del loro lavoro, nei loro visi si intravede una grande manifestazione di felicità e gratitudine. Con i soldi guadagnati possono comprare cibo dalle minuscole botteghe locali, vestiti e materiale di prima necessità.

Shida poi, non si limita a comprare le borse, ma cerca anche di fornire una completa formazione alle donne. Per esempio, è capitato di istruirle su come pulire la casa (sembra banale ma non lo e’ per una popolazione indigena) o come rispettare alcune basilari regole igeniche.

I due intensi giorni passati al villaggio, mi hanno messo in contatto diretto con questa incredibile e dimenticata realtà. Ho personalmente assistito e contribuito all’acquisto dei manufatti, ed era commovente vedere la dedizione con la quale le donne si erano applicate in questa, per loro grande, sfida personale.

È triste pensare che queste tribù indigene andranno piano piano scomparendo a causa della deforestazione e del consumo del suolo a servizio della modernizzazione. Il governo malese non si è fatto scrupoli nel corso degli anni ad eliminare fisicamente coloro che hanno provato ad opporsi a questi scandalosi processi di deforestazione. Coraggiosamente molti dei Penan avevano tentato di intraprendere alcune proteste, ma invano.

Tuttavia, il meccanismo che Shida ha messo in moto potrebbe quantomeno garantire a queste persone una maggiore dignità, un’indipendenza dal mondo esterno e una consapevolezza che loro possono dare un contributo alla società.

Bruno Manser

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Un importante contributo a riguardo è stato dato da Bruno Manser, uno svizzero che ha vissuto 6 anni nella jungla con i Penan negli anni 80′. Manser fu il primo a far conoscere questa popolazione al mondo intero, ma soprattutto a riuscire a convergere l’attenzione del mondo sul grande danno che le foreste del Borneo stavano subendo. Al Gore e altri personaggi di spicco internazionale erano stati toccati personalmente dalle sue avventure e parole, ma purtroppo nulla è cambiato negli anni. Bruno è scomparso nel 2000 e molte piste portano a pensare che il governo malese sia coinvolto, visto il grande odio maturato nei suoi confronti. La donna che si è presa cura di lui per molto tempo era l’anziana della famiglia che ci ha ospitato. https://www.youtube.com/watch?v=sNx9Np3wmEc qui il film-documentario.

Il resto delle giornate al villaggio trascorre in una surreale pace e armonia. Si vive senza orologio e telefono al ritmo naturale del sole, si ballano le loro danze avvolti in un particolare drappo Penan, si beve il loro vino di riso, si gioca con i bambini e si fa il bagno nel fiume. Ah, senza bagni e senza letti!

Due giorni lontani dal mondo e dalle comodità, ma più vicini all’essenza.

di Andrea Cecchi

Linkografia:

http://news.mongabay.com/2013/0717-borneo-rainforest-logging.html

http://borneoproject.org/borneo/overview-of-current-threats

http://www.thepostinternazionale.it/mondo/italia/il-business-dell-olio-di-palma

http://en.wikipedia.org/wiki/Deforestation_in_Borneo

http://wwf.panda.org/what_we_do/where_we_work/borneo_forests/borneo_deforestation/

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