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Breve storia dell’Industria Italiana: ma dov’è finito il nostro Bel Paese?

Pubblicato il 05 novembre 2014 da redazione

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L’impresa pubblica se non è formata a criteri economici, tende al tipo dell’ospizio di carità. (Luigi  Einaudi)

Non occorre essere grandi economisti per avere coscienza della grave carenza di lavoro oggi in Italia, e di conseguenza l’insicurezza di ogni prospettiva per i giovani, ma anche e soprattutto per i cinquantenni, i loro padri, a pochi anni dal pensionamento, ormai di sicuro raggiungibile solo anagraficamente.

Eppure non bisogna disperare. Proprio dalla storia economica dell’Italia, dall’Unità in poi, vengono indicazioni utili per fare rinascere la speranza. Infatti nella storia dello sviluppo industriale italiano si evidenziano tre periodi, seguiti sempre da avvenimenti storici particolari: l’Unità d’Italia il 1861, il fascismo il 1922, dopo la Prima guerra mondiale, il postfascismo e la Repubblica il 1946. L’Italia è diventata, quindi, potenza industriale più o meno in 150 anni di storia, anche se l’industrializzazione non fu omogenea per tutto il Paese.

Ora sta di fatto che già da anni è tramontato il terzo periodo, quello del “miracolo italiano” e della grande industria privata e di Stato degli anni 1960-’70 e ’80, a partire cioè dal fenomeno della “globalizzazione”, o per essere più precisi, dal 1989, con la fine dei regimi comunisti dell’Est e l’affermarsi di una economia, appunto globale, ma secondo i principi del più puro neoliberismo.

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Le difficoltà di oggi per l’economia italiana, a parte l’enorme debito pubblico e i pesanti vincoli e condizionamenti europei, almeno in parte pur necessari, dipendono anche dalla presenza nel mercato globale di potenti economie emergenti, fino a pochi anni addietro inimmaginabili, come quella indiana, la brasiliana e soprattutto la esuberante e invadente economia cinese; tre economie, detto per inciso, favorite dai bassi salari e che ignorano del tutto, specie in Cina, un Paese ancora comunista, quelle che sono state le conquiste del movimento operaio europeo!

Più o meno lo stesso discorso valeva per l’Italia all’indomani della raggiunta Unità nazionale: anche allora vi era il pesante debito pubblico del Piemonte da risanare, a causa delle guerre d’Indipendenza sostenute da quel piccolo Stato. Ma la nascente economia italiana doveva confrontarsi con la Francia, la Germania, anche non unita, e soprattutto l’Inghilterra, Paesi già ampiamente industrializzati e con un commercio estero consolidato anche verso l’Italia.

Infatti, come scrive l’economista Maurizio Lichtner, “Il processo di industrializzazione si svolge in Italia in condizioni particolarmente difficili. Come ogni industrializzazione “in ritardo”, incontra gravi difficoltà di mercato mentre la rivoluzione industriale in Inghilterra era avvenuta in una situazione di “prolungata assenza di rivali”, con un mercato praticamente illimitato (essendo l’unico paese produttore di manufatti). La nascente industria italiana trova i mercati esteri già occupati, e deve anzi difendere il mercato interno dalla invasione di prodotti esteri”.

Eppure fino al 1915 il nostro Paese, anche se con infinite difficoltà e contraddizioni, è riuscito a creare una sua specifica industria, in vari settori, anche con un notevole export, riscoprendo forse le antiche radici delle solide economie comunali dei secoli passati: le mitiche botteghe artigiane fiorentine dove si inventava di tutto e i Medici inventori della finanza internazionale, poi gli arsenali delle potenti repubbliche marinare, ecc.

Soprattutto nel Centro-Nord la grande industria italiana in molti casi è nata per iniziativa di un operaio o artigiano poveri di mezzi, ma ricchi di fantasia e voglia di fare. E’ stato così, ad esempio, per quanto riguardava soprattutto il settore alimentare, come è risaputo una vera, unica e preziosa risorsa italiana; anche in questo caso con solide radici nel passato: le infinite ricette regionali, le più ricercate, quelle delle nostre mitiche nonne!

 

 Un’Italia da bere e da mangiare

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Cinzano.

Francesco CINZANO (1787-1859), ad esempio, distillatore, fonda l’azienda conosciuta ancora oggi in tutto il Mondo già il 1816 a Torino. In realtà era l’erede del mastro “acquavitaio” Giovan Battista Cinzano che con licenza sabauda nel XVIII secolo produceva il vermuth, “il migliore prodotto di una specialità torinese”. Dopo l’Unità l’azienda si consoliderà con nuovi prodotti.

Nel 1845 nella drogheria di Bernardino BRANCA a Milano il Dott. FERNET  inventò una ricetta, che tenne segreta, appunto l’odierno “Fernet-Branca”, un liquore amarognolo che risultava efficace anche contro il colera! Forse non vero, ma tant’è che aiutò la nascita dell’azienda!

Francesco CIRIO (1839-1900), figlio di genitori poverissimi, già a 15 anni vendeva verdure per le strade di Torino. A 20 anni, il 1859, si dedicò alla coltura orticola, e dopo aver appreso la tecnica della “appertizzazzione”, la conservazione dei cibi in scatole di latta, previa estrazione dell’aria, crea un’azienda capace di confezionare conserve alimentari, per il consumo interno e l’esportazione. In seguito Francesco Cirio, forse il primo esempio nella Storia d’Italia, ebbe anche

l’idea di venire a investire a Sud , con la sua azienda “Cirio, Società Generale Conserve Alimentari”, ed esattamente a San Giovanni a Teduccio in Campania, allora terra vergine, pura e fertilissima!

Altro tipico prodotto italiano, ancora oggi di largo consumo, il “Bitter alcolico” di erbe americanti, fu creato dalla Campari, azienda di Gaspare CAMPARI, la cui creazione avvenne nel suo “Caffè dell’Amicizia” il 1860 a Novara. E anche questa iniziativa si affermò grazie all’Unità.

Essendo l’Italia tutta terra di ulivi il 1870 i fratelli BERIO pensarono bene di esportare il nostro olio in lattine e soprattutto in America, anche per rafforzare il legame tra i nostri emigranti e la Patria lontana. Già nel ‘700 la Calabria esportava olio in Inghilterra, utile però per l’illuminazione.

Poteva anche nell’800 un italiano non mangiare pasta? Il 1877 nella zona di San Sepolcro a Milano vi era un modesto pastificio, una piccola impresa lasciata in eredità da Giovanni Battista BUITONI e dalla moglie Giulia al figlio Giovanni che in breve tempo, trasferitosi in un più ampio locale e utilizzando nuove macchine, riuscì a produrre il tipo di pasta indispensabile a persone anziane e bambini. Il successo definitivo della Buitoni arrivò il 1906 col manifesto delle principessine Jolanda e Mafalda di Savoia mentre si alimentavano con la pastina Buitoni. Ancora oggi la pasta Buitoni è presente anche nei più piccoli negozi alimentari con la sua caratteristica scatola blu.

E dopo un abbondante pranzo non occorre un buon digestivo? Sicuramente a questo ha pensato Felice BISLERI che il 1881 brevettò appunto un liquore nero ritenuto non solo digestivo, ma anche aperitivo e ricostituente; in realtà si trattava di una miscela di citrato di ferro e china, appunto il “Ferrochina Bisleri”, propagandato con il famoso marchio dei due leoni.

In ogni contrada d’Italia anche nell’800 si gustava un formaggio tipico, ad esempio nella Valsesina dove il figlio di un fabbro, Egidio GALBANI, il 1882 creò un caseificio inizialmente per il commercio locale. Dopo il “robiola” del 1888 il maggior successo per la Galbani arrivò il 1906 con il “Bel Paese”, un formaggio molto apprezzato anche all’estero e soprattutto in USA e Giappone.

Il 1919 Angelo MOTTA fonda a Milano la nota azienda dolciaria del famoso “panettone Motta”.

 

La siderurgia, le ferrovie e le navi

1881, “Società Italiana Per le Strade ferrate Meridionali”.

1881, “Società Italiana Per le Strade ferrate Meridionali”.

E’ nella seconda metà del XIX secolo, dunque, che inizia per l’Italia la vera e propria industrializzazione dei vari settori  economici. Il regno del Piemonte con Cavour aveva già creato una sua rete ferroviaria (cosa ben diversa dalla “Napoli-Portici dei Borboni”), logicamente da estendere a tutta l’Italia dopo l’Unità. E infatti già il 1862 il Conte Pietro BASTOGI creò un società ferroviaria, con altre partecipazioni tutte italiane, la cui ragione sociale venne perfezionata il 1881 come “Società Italiana Per le Strade ferrate Meridionali”, che intanto gestiva le linee ferroviarie a Nord e nel settore adriatico.

La Società, però, non fu esente da scandali quanto al Consiglio di Amministrazione, dove sedevano molti parlamentari, mentre già il 1873 si discuteva del riscatto da parte dello Stato. “Politica e affari”, un vizio antico degli Italiani, ancora oggi ben radicato, come  si sa!

Comunque, sarà il governo Depretis a statalizzare le ferrovie, eliminando la convenzione del 1885 con la Società di Bastogi, dopo regolare indennizzo nel 1906. In seguito la Bastogi diventerà una Società finanziaria.

L’appena costituito Regno d’Italia, oltre alle ferrovie, logicamente aveva bisogno anche di navi e un nuovo armamento, prodotti siderurgici che sostanzialmente dovevano essere importati. Il ministro della Marina Menabrea, cosciente dell’importanza della industria del ferro, propose al Re già nel 1861 la nomina di una commissione mista d’ingegneri e ufficiali delle varie armi per studiare le condizioni delle nostre ferriere e officine.

Al momento dell’unificazione all’Italia occorrevano, oltre alle ferrovie e alle navi, tubi vari, ponti in ferro e una infinità di prodotti metallurgici di uso comune. Il fabbisogno era di oltre 100 mila tonnellate tra ghisa, ferro e acciaio che bisognava importare, oppure creare in Italia con grandi stabilimenti per la produzione.  Ed  ecco  allora la  creazione  in diverse parti d’Italia, soprattutto a Nord, di impianti di produzione, come a Savona, per la vicinanza dell’Isola d’Elba e a Piombino già di antica vocazione siderurgica.

Acciaierie di Terni.

Acciaierie di Terni.

In Umbria nel marzo 1884 nasceva la “Società degli Alti forni”, e poi le “Fonderie e Acciaierie di Terni” che ricevettero subito commesse statali. Altra ferriera importante si realizzava a Torre Annunziata. Nel 1891 le Acciaierie di Terni acquistavano l’impianto di Savona e nel 1902 a Portoferraio veniva inaugurato il primo alto forno italiano funzionante a carbone coke, con una produzione giornaliera di 150 tonnellate di ghisa.

Un’azienda molto importante nella storia d’Italia è stata certamente la “Società Anonima di Ernesto BREDA” (1852-1918) specializzata nelle costruzioni ferroviarie. Il 1884 anche la Breda contribuì con propri capitali alla nascita delle acciaierie di Terni. Il 1886 la “Società Breda” rilevava una modesta fonderia di ghisa a Milano, ma con l’arrivo poi delle commesse statali per la produzione bellica fu in grado anche di creare locomotive.

Un’azienda collegata in un certo qual modo alle metalmeccaniche anche nel XIX sec. è stata la PIRELLI dell’Ing. Giovanni Battista (1848-1932) che ha inventato l’industria della gomma in Italia. Nel 1872 la “Pirelli” creava a Milano il primo stabilimento per la lavorazione della gomma, con un capitale iniziale di £. 215 mila. E già allora la Pirelli  poteva produrre diversi tipi di gomme: per fili telegrafici e anche cavi sottomarini per le comunicazioni a distanza. Nuove e infinite possibilità di ulteriore sviluppo rappresentarono poi per la Pirelli il mercato ciclistico e ovviamente quello automobilistico.

 

L’Italia si veste dalla testa ai piedi

Lanificio Marzotto.

Lanificio Marzotto.

Non soltanto l’industria pesante si affermò nell’Italia della seconda metà dell’800, ma anche l’abbigliamento, ad esempio. Il 1836 a Valdagno (Vicenza) vi era il “Lanificio Luigi MARZOTTO e Figli”, vi lavoravano non più di 12 operai. Nel 1839 Francesco e Giovanni Marzotto si sostituirono al padre nel girare, col carrettino trainato da un asino, per le campagne ad acquistare lana. Il 1842 è Gaetano Marzotto a guidare la piccola azienda familiare, ormai in continua crescita anche come numero di dipendenti, che da 30 diventeranno già il 1876 ben 400. La “MARZOTTA” negli anni aumenterà sempre più il fatturato fornendo alla clientela prodotti sempre nuovi, già confezionati, e con ben 1700 dipendenti, solo all’inizio del XX secolo. Ormai non è più un’azienda familiare, ma una vera e propria industria che veste gli Italiani e non solo.

Per la verità la stessa idea l’ebbe il commesso di un negozio di tessuti, tale Ferdinando BOCCONI (1836-1908) quando decise di aprire un suo negozio di tessuti per vendere “abiti belli e fatti”. Non solo, ma pensò ancora più in grande! Infatti iniziò lui a realizzare in Italia “i grandi magazzini” con la scritta “VENDO TUTTO”, il primo accanto alla Galleria a Milano. Ferdinando fu abile anche a pubblicizzare i “Magazzini Bocconi”. In seguito per onorare la memoria del figlio Luigi, caduto ad Adua durante la Prima guerra d’Africa, volle istituire a Milano l’ “Università Luigi Bocconi” nel 1906. E forse per questo Ferdinando Bocconi fu nominato Senatore del Regno d’Italia.

Nel 1870, poi, un certo Santino TROLLI, un operaio o forse un artigiano, pensò bene di creare un calzaturificio per fornire un paio di scarpe a tutti gli Italiani. La sua piccola azienda crescerà nel tempo finché il 1910 assumerà la denominazione di “Calzaturificio di Varese”, con negozi nel tempo diffusi in tutte le regioni d’Italia dove verranno esposti i diversi tipi di calzature.

Il chimico Achille BERTELLI, esperto di profumi, può essere considerato il pioniere della cosmetica italiana. Il suo primo profumatissimo prodotto, il “Calendarietto Bertelli”, era molto ricercato dalle giovinette aristocratiche e dalle buone borghesi del XIX secolo. La cosmetica Bertelli nel 1937 all’Esposizione di Parigi ebbe l’attrice Greta Garbo come testimonial del “Profumo italiano Bertelli”.

       La famiglia FELTRINELLI, 12 fratelli, era originaria di Gargnano sul Lago di Garda. Soprattutto per iniziativa di Giovanni i Feltrinelli si arricchirono con il commercio del legname e con i capitali accumulati contribuirono all’espansione edilizia di Milano, ma anche alla estensione della rete ferroviaria nazionale per la quale fornivano le traversine. Anche alla cultura i Feltrinelli erano interessati, soprattutto Giangiacomo che nel 1949 realizzò l’ “Istituto per la Storia del Movimento Operaio” e nel 1954 l’omonima “Casa Editrice”.

 

Alti forni, acciaierie e ferriere

Ansaldo_Genova

Ansaldo.

Anche l’inizio del ‘900 segnerà importanti iniziative per la industrializzazione del Paese e, come vedremo, non solamente a Nord, ma anche nel Sud Italia.

Oggi, a causa dell’inquinamento, a Taranto l’ILVA è agli onori della cronaca. Intanto “Ilva” è l’antico nome dell’isola del’Elba da dove era estratto il ferro che alimentava i primi altiforni alla fine del XIX secolo.  L’atto  costitutivo  di  questa  importante  industria  siderurgica  fu  sottoscritto  il   1° febbraio 1905 a Genova, sulla dismessa ITALSIDER  e dalla fusione di aziende siderurgiche come l’”ELBA”, “TERNI” e la siderurgica “Massimo BONDI”. Vedrà in seguito diversi passaggi di proprietà: prima dell’IRI, pubblica, poi dei “Riva”, gruppo privato.

Sempre nel 1905 nasceva, anche, la “Società Anonima Acciaierie e Ferriere Lombarde FALK” di Giorgio Enrico Falk (1866-1947), con un importante impianto a Sesto San Giovanni. I Falk furono

decisamente antifascisti e anticomunisti, ma sensibili verso la pubblica assistenza e i problemi sociali.

Per l’industrializzazione dell’Italia un ruolo non certamente marginale lo ebbe anche qualche famiglia ebrea, come la “OLIVETTI” di Ivrea. All’Ing. Camillo Olivetti (1868-1943), già allievo prediletto di Galileo Ferraris, si devono speciali strumenti di misurazioni e nel 1909 la “macchina da scrivere”, inventata e costruita pezzo per pezzo con i suoi dipendenti.

In pochi anni la Olivetti diventerà una grande azienda in Italia e nel Mondo, non solo per le macchine da scrivere, ma anche per le calcolatrici, tanti i modelli dal perfetto design, e poi transistor e addirittura per le ricerche relative al Personal Computer. Già  l’Ing. Camillo Olivetti si distinse per la sua sensibilità ai problemi sociali, fino a collaborare con il PSI e le forze riformiste. Questa tradizione fu condivisa dal figlio Adriano che impegnò la Olivetti anche con stabilimenti al Sud Italia e col quale l’azienda ebbe una ulteriore espansione: infatti in ogni ufficio italiano vi erano, e vi sono ancora, prodotti Olivetti.

     

Automobili memorabili

Il motore W18 Isotta Fraschini Asso 750.

Il motore W18 Isotta Fraschini Asso 750.

Anche l’industria automobilistica italiana ebbe la sua nascita e sviluppo esclusivamente a Nord. La più importante e famosa fu senz’altro la FIAT del Senatore Giovanni AGNELLI (1866-1945), già tenente di cavalleria poi dimissionario per seguire la sua passione per le macchine e i motori.

Con la partecipazione di altri soci benestanti nel 1899 creò appunto la FIAT (Fabbrica Italiana Automobili Torino). Data  l’importanza avuta dalla FIAT in tutto il secolo XX in Italia, credo che storia e vicende varie siano ormai patrimonio di ogni italiano. La stessa considerazione del resto può valere anche per la prestigiosa FERRARI e le sue invincibili macchine da corsa col mitico simbolo del “Cavallino rampante” a ricordo dell’eroe della Primo guerra mondiale Francesco Baracca.

E’ bene, invece, accennare anche alle altre aziende automobilistiche italiane, che ebbero anch’esse una grande importanza per il design innovativo, la sicurezza e per il forte contributo allo sviluppo di motori moderni e veloci. Tipico esempio, il caso della “ISOTTA-FRASCHINI”, una azienda automobilistica italiana specializzata nella produzione di auto di lusso e veloci, molto ricercate anche all’estero. La casa automobilistica fu fondata nel 1900 da Cesare ISOTTA e dai Fratelli  FRASCHINI. La prima auto è del 1902, l’ultima prodotta del 1949. Anche la “ISOTTA-FRASCHINI” partecipò alla produzione bellica fornendo i motori ai primi aerei da combattimento e ai mitici MAS durante la Grande Guerra.

La “MASERATI”, invece, produceva auto sportive a Modena, perciò aveva una sua “squadra corse”. L’azienda fu fondata il 1° dicembre 1914  a Bologna da Alfieri MASERATI; inizialmente contava 5 operai compresi due fratelli Maserati. Ancora oggi la “Maserati” rappresenta l’eccellenza nella produzione di auto di lusso e veloci in Italia.

Quanto alla BUGATTI, malgrado il nome di chi l’ha fondata, Ettore BUGATTI, nel 1903, era una casa automobilistica francese che costruì macchine sportive fino al 1963. I diritti del marchio in seguito apparterranno a diversi  proprietari.

Una tipica storia italiana, quasi una favola, è quella dell’ultima casa automobilistica la LANCIA. Il fondatore, Vincenzo LANCIA (1881-1937), lavorava in una officina dove si riparavano biciclette, ma la sua grande passione era la meccanica e i motori. Quando la piccola officina fu rilevata da Agnelli il Lancia divenne collaudatore della nascente FIAT e poi dal 1900 addirittura pilota. In seguito Vincenzo Lancia lasciò la FIAT e si mise in proprio a costruire auto, piuttosto di lusso; la prima nel 1906, costruita nel suo  stabilimento. Nel 1913 Lancia è il primo ad utilizzare l’avviamento elettrico del motore. Il 1986 l’Azienda “Lancia”, insieme all’“ALFA-ROMEO”, costituisce la “Società Alfa-Lancia Industriale” che dopo qualche anno sarà inglobata nel gruppo FIAT.

 

L’industria del Sud Italia

Casa Editrice Laterza.

Casa Editrice Laterza.

Quanto fin qui raccontato riguarda esclusivamente l’industrializzazione del Nord del Paese, fra l’800 e l’inizio del ‘900. Viene da chiedersi: perché una certa industrializzazione spontanea non si verifica anche a Sud? L’analisi storica richiederebbe uno studio particolare, ben al di là del presente saggio. In verità una parziale industrializzazione del Meridione d’Italia avviene nel Secondo dopoguerra con iniziative industriali dello Stato, investimenti di aziende del nord e anche estere.

Comunque, il Regno Borbonico qualche accenno di industrializzazione l’aveva già avviato, in Calabria, per esempio, con una fonderia. Più nota fu poi la flotta del Regno di Napoli, la più potente d’Italia;  molto  ricercata era anche la “Ceramica  di  Capodimonte”,  per  non  parlare

dell’esperimento di San Laucio, una vera e propria industria manifatturiera, ecc. Questi esempi dopo l’Unità non furono salvaguardati e potenziati dai primi governi unitari, anzi finirono nel dimenticatoio, come uno degli aspetti dell’annosa “Questione meridionale”.

Ritornando, invece, alle iniziative economiche volte allo sviluppo del Sud vanno senz’altro citati.

Il primo riguarda la cultura con la nota “Casa Editrice LATERZA” a Bari. Giovanni LATERZA (1873-1943), figlio di un falegname barese, emigrò a Milano dove sposò un’operaia della tipografia “Vallardi”. Qui il giovane Giovanni ebbe un rapporto indiretto con l’attività della stampa che gli tornò utile al suo rientro a Bari, dove decise di aprire nel 1901, a Putignano, una tipografia insieme ai fratelli, la “Casa Editrice Laterza”.

Per il successo dell’iniziativa, determinante fu l’incontro e la collaborazione nel 1908 con un vero blasone della cultura italiana, Benedetto Croce, un connubio ideale e culturale che non si interruppe neanche durante il ventennio fascista. Interessanti le diverse collane che la Casa Editrice Laterza pubblica negli anni: “I Libri tempo”, le “Universali Laterza”, “La Biblioteca Universale Laterza”, ecc.

    

La famiglia Florio

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Sala d’imbottigliamento dello Stabilimento Florio di Favignana dove lavoravano anche i detenuti per 50 giorni all’anno (1920 circa).

I “Florio”  di Sicilia, invece, riuscirono a creare, a partire da un negozio di spezie, una grande e complessa realtà economica, anche se in fondo ebbe vita breve malgrado l’impegno di ben quattro generazioni di Florio. L’origine della famiglia è calabrese. Infatti il capostipite, Paolo FLORIO (1772-1807) all’inizio dell’8oo da Bagnara Calabra si trasferì in Sicilia, dove aprì appunto un negozio di spezie, presto diventato florido e affermato.

Dopo la morte prematura di Paolo toccò al fratello Ignazio proseguire l’iniziativa commerciale fino alla maggiore età del figlio di Paolo, Vincenzo Florio, nel 1829. All’originale commercio di spezie Vincenzo Florio associa altre iniziative commerciali e soprattutto la pesca con la tonnara e l’inscatolamento del tonno. Alla sua morte, il 1868, è Ignazio Florio Senior (1838-1891) il nuovo titolare della ormai complessa impresa commerciale. Il 1876 Ignazio compra l’isola di Favignana dove costruisce uno stabilimento conserviero del tonno sott’olio e non più sotto sale.

Con Ignazio Florio Yunior (1869-1957) gli interessi dell’azienda si estendono ad altre importanti attività: fonderie, saline, cantine vinicole, una “Società di Navigazione Italiana” con una grande flotta, ecc. Tra il XIX e XX sec. quello dei Florio è un  vero e proprio impero economico che decide di finanziare il giornale “L’ ORA” di Palermo e creare, nella stessa città, il “Teatro Massimo”.

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Lo stabilimento Florio impiegava motori a vapore in grado di produrre annualmente cinquantamila botti di spirito e tremila botti di vino.

All’apice della potenza economica anche il matrimonio di Ignazio junior con la bellissima baronessa Franca Notarbartolo, “Donna Franca” per la cronaca del tempo, aumentò  la celebrità dei Florio in Italia e non solo; così come l’iniziativa di Vincenzo Florio, fratello  di Ignazio, che nel 1906 inventa la corsa automobilistica “Targa Florio”.

       La crisi per le numerose aziende Florio arriva, però, proprio all’inizio del XX secolo quando lo Stato italiano, forse con un preciso intento, elimina la convenzione con la Società di Navigazione dei Florio per favorire il porto di Genova. Per salvare i cantieri navali di Palermo Ignazio Florio junior è costretto a impiegare gran parte del capitale accumulato, e malgrado l’incoraggiamento di Giolitti va incontro a diversi fallimenti. Al disastro economico segue poi la morte prematura degli eredi di Ignazio e poi della stessa “Donna Franca”: un duro colpo per l’ultimo dei Florio, che reagirà con un lungo, doloroso silenzio! Questo il triste tramonto dei Florio “una grande famiglia meridionale”, ma anche la speranza di un originale sviluppo industriale e non solo della Sicilia.

 

I diritti dei lavoratori e l’alienazione del rapporto uomo macchina

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Gli anni dei “migranti”.

“Gli italiani sono il popolo che emigra di più in Europa. Tutti i grandi lavori pubblici in Europa e fuori d’Europa si fanno principalmente per opera degli italiani. Si può dire che sia la manodopera più attiva e mobile di cui disponga il mercato del mondo” (F.S.Nitti)

 

Naturalmente l’industrializzazione italiana, come una moneta, ha avuto due facce: quella eroica, perché no?, ma anche una drammatica. Infatti l’inizio della vera e propria “era industriale” per i lavoratori italiani (una volta contadini, braccianti o artigiani) è stato senz’altro traumatico.

Chiaramente la produzione industriale presupponeva l’utilizzo di  macchine in ogni settore, ben più complesse dei soliti strumenti di lavoro, agricolo o artigianale, e sempre più difficili  da capire e utilizzare, anche se non richiedevano un grande sforzo muscolare.

E la meccanizzazione, oltre a questa difficoltà, non alleggeriva affatto né facilitava il lavoro, perché il lavoratore doveva seguire il ritmo della macchina e adattarsi ai suoi tempi che in sostanza significava prolungare l’orario di lavoro fino a 12 ore effettive e spesso anche con turni aggiuntivi  di notte, perché le macchine non potevano fermarsi mai! Solo in seguito si capiranno gli effetti di un lavoro a ciclo continuo, ripetitivo e alienante, sulla psiche e il sistema nervoso dei lavoratori.

Quanto poi ai protagonisti dell’industrializzazione, cioè il padronato delle nascenti aziende, almeno per un secolo si chiusero nei loro interessi, senza rispetto per i diritti dei lavoratori, che verranno allora rivendicati in una lunga sequela di lotte, scioperi e scontri, anche con le forze di polizia, che segneranno la storia del movimento operaio italiano.

Nei primi decenni dell’industrializzazione italiana non esiste, infatti, una specifica legislazione sul lavoro industriale in generale, e neppure su quello femminile e minorile. Mancano completamente norme che definiscano minimi salariali e dell’orario di lavoro, condizioni igieniche, infortunistica, malattie professionali e assicurazioni.

Leggi specifiche e significative arriveranno solo nel periodo giolittiano, generalmente ignorate dal padronato, come la legge sul lavoro minorile dell’11 febbraio 1886, che stabiliva non più di 6 ore di lavoro per i ragazzi da 12 a 15 anni e vietava assolutamente il lavoro notturno.

Il regolamento interno della Pirelli dice che: la giornata è di 11 ore effettive, ma che la direzione si riserva di modificarla secondo le esigenze e le stagioni” (M. Lichtner citato).

Nel caso di visite ispettive, molto rare, gli industriali erano solamente ammoniti, grazie anche alle indulgenze del potere politico e giudiziario. Infine, per decenni il padronato italiano, a parte i suoi indubbi meriti storici, si è opposto alla razionalizzazione e a una diversa organizzazione del mondo del lavoro, oltre a un’alleanza  di tutte le forze produttive.

 

L’industria italiana del ventennio fascista

Al di là del giudizio storico sul fascismo e le sue gravi responsabilità verso il Popolo italiano, non si può ignorare che con la dittatura di Mussolini iniziò per l’Italia un secondo periodo del suo sviluppo industriale, con la riconferma e l’ulteriore sviluppo di imprese, aziende e società industriali del primo periodo, che dal 1919, oltretutto, dovettero riconvertire la produzione bellica in civile. E anche per questo il fascismo e Mussolini adottarono specifiche iniziative economiche, come l’IRI, ad esempio, l’ ”Istituto per la Ricostruzione Industriale”, un ente pubblico italiano istituito il 1933 per evitare il fallimento delle principali banche italiane, che avrebbe comportato il crollo della stessa intera economia nazionale, già minata in parte dalla “Crisi del 1929”.

       L’IRI poi controllava alcune società come la FINMARE del 1936, una finanziaria per i servizi marittimi; la FINSIDER del 1937, la “Società Finanziaria Siderurgica SpA”, che a sua volta, fra l’altro, controllava l’ILVA e la STET, la “Società Torinese per i Servizi Telefonici”. Anche l’IMI, l’ ”Istituto Mobiliare Italiano” del 1931, come l’IRI, era sorto a sostegno della economia italiana che rischiava di essere inghiottita dalla crisi del dopo ”1929”. L’IRI e l’IMI, così come l’ “AGIP” del 1926  (che in verità durante il fascismo era considerata l’ “Associazione Generali In Pensione”, praticamente ente inutile nella ricerca degli idrocarburi), saranno riconfermati anche nel Secondo dopoguerra. L’IRI, in particolare, come una immensa scatola cinese, controllerà altre società industriali, quelle salvate da sicuro fallimento; lo stesso ruolo assumerà in seguito anche l’IMI.

L’ “ENI”, l’ “Ente Nazionale Idrocarburi”, in un primo momento doveva essere eliminato, ma grazie alla scoperta del gas in Lombardia, alla caparbietà e audacia del nuovo Presidente Enrico MATTEI, ex capo partigiano, diventerà il vero motore del boom economico italiano negli anni ’50 e ’60, grazie anche a un nuovo e più giusto rapporto con i Paesi arabi produttori di petrolio.

 

Fine o rinascita?                            

Come accennato il “Terzo periodo dello sviluppo industriale italiano” praticamente si esaurisce verso la fine del Secondo Millennio, che vede l’Italia salvata da un probabile default dalla Moneta unica europea, l’Euro, ma con una profonda crisi del nostro apparato industriale e produttivo: chiusura di migliaia di aziende e nello stesso tempo  un’alta percentuale di disoccupati!

Negli ultimi anni le nostre migliori aziende hanno delocalizzato in altri Paesi con un minor costo della manodopera e anche a causa della burocrazia italiana inamovibile come un pachiderma. Gli antichi e prestigiosi marchi che in 150 anni hanno assicurato il benessere degli Italiani sono stati venduti a società e multinazionali estere. E viene da chiedersi, allora, se l’Italia stessa non è un Paese in vendita!

Indubbiamente il “Made in Italy fa sempre gola, soprattutto i settori italiani dell’abbigliamento e dell’alimentazione. Secondo alcuni economisti questo non sarebbe un danno perché solo così risulterebbero maggiormente conosciuti i nostri marchi all’estero. Senz’altro vero, però, non sono dello stesso parere quei lavoratori che hanno visto chiudere la loro azienda perché i nuovi proprietari, o quelli tradizionali, ne hanno trasferito la produzione, ad esempio nei Paesi dell’Est, dove è più facile lo sfruttamento a basso costo e si sono trovati improvvisamente disoccupati e disperati!

Intanto l’acqua “San Pellegrino” è finita in America e in Cina; i cioccolatini della “Perugina”, il riso “Scotti”, gli spumanti “Gancia” e lo “Stok 84” nella Repubblica Ceka; la svizzera “Nestlé” ha acquistato la pasta “Buitoni”, i biscotti “Plasmon” e l’italianissima “Birra Peroni”; gli olii “Bertolli”, “Carapelli” e “Sasso”, la “Star” e poi “Parmalat”, “Galbani”, “Invernizzi”  e l’ “Eridania” tutti marchi  non più italiani e alcuni scomparsi dalla pubblicità già da molti anni. Ormai la pubblicità di tutti questi marchi, una volta orgoglio del lavoro e del buon gusto italiani, la si può vedere solo in vecchi film degli anni ’50-’60 – ’70 e ’80 oppure quando la Rai ritrasmette gli indimenticabili spot di “Carosello”.

Credo che occorra una profonda e obiettiva riflessione sul “Made in Italy” e intanto, se possibile, affrettiamoci almeno a bloccare la vendita di altri marchi storici italiani, e inventiamone di nuovi, capaci di richiamare investimenti esteri per creare nuovo lavoro, ma in Italia.

Solo dall’iniziativa privata, seppur supportata dallo Stato con burocrazie snelle e facilitazioni in tema di energia, iniziativa intelligente e attenta alle novità dei tempi, può venire il bene più prezioso che tutti ricerchiamo: il lavoro, l’unica fonte di benessere di un individuo e ancor di più di una Nazione!

Ogni Paese deve valorizzare prima di tutto i beni che ha, che per l’Italia, tra gli altri, sono sempre stati: la “CULTURA”, una “STORIA MILLENARIA che tutto il mondo ci invidia, l’“AMBIENTE” e il “BUON GUSTO”.

di Luigi Gatta

 

 Bibliografia:

– Giovanni ANSALDO: “DIZIONARIO DEGLI ITALIANI ILLUSTRI E MESCHINI”, Longanesi & C., Mi, 1980.

– Maurizio LICHTNER: “L’ORGANIZZAZIONE DEL LAVORO IN ITALIA”, “Strumenti Editori Riuniti, Roma, 1975.

– Varie ricerche su WIKIPEDIA.

3 Comments For This Post

  1. Enrico roversi Says:

    Salve mio nonno avava il calzaturificio elettrico e poi calzaturificio Terni dove si producevano ,come raccontava mio padre gli anfibi per l esercito partecipo alla fiera di Tripoli potete controllare grazie

  2. t Says:

    lol

  3. lucia Says:

    Io penso che la globalizzazione abbia rovinato tutto

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