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Wislawa Szymborska, “Szukam slowa, ricerco la parola”.

Pubblicato il 15 aprile 2015 da redazione

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Nessun abisso è più profondo di quello che custodiamo dentro, ma se tanti abissi racchiusi in tanti uomini si riflettono alla luce dell’infinito, l’umanità della percezione che abbiamo della vita non sarà tanto più grande del salotto di casa nostra.

Ricerco la parola

Tutto iniziò da una bambina pronta a un grande cambiamento. Siamo in Polonia, nel 1931, e la nostra protagonista, ad appena otto anni, si prepara a cambiare casa, città e a trasferirsi da Kornik a Cracovia, senza immaginare che vi avrebbe lasciato parte di sé, per la vita, irrimediabilmente.

Wislawa non poteva ancora sapere quello che avrebbe vissuto di lì a poco.

Nessuno di noi può saperlo, in effetti. Non sapeva che sarebbe scoppiata la guerra e che la Polonia sarebbe stata tragico terreno di antisemitismo ed olocausto. Non sapeva che sarebbe stata costretta a portare avanti gli studi clandestinamente e che il suo nome sarebbe stato nella lista di persone da deportare in Germania per essere sbattute a marcire in un campo di lavoro. La mancanza di consapevolezza, in ogni caso, soprattutto in merito ad eventi tragici, può essere una grande benedizione.

Le cose infatti, al di là di quanto fosse prevedibile da un osservatore esterno, almeno per lei, andarono diversamente: un posto di lavoro nelle ferrovie, guadagnato al momento giusto, fu il suo lasciapassare per la libertà.

Libertà che, come è facile immaginare, servì di certo come buon trampolino da cui far partire una vita di poesia; fu così che Wislawa imparò che essere libera potesse regalarle il privilegio insperato di diventare consapevole dei propri talenti.

Superato lo stallo della guerra e lasciato alle spalle il pericolo della deportazione, la giovane donna iniziò dunque a disegnare. Illustrava libri e le storie tra le sue dita ci misero poco a tramutarsi da immagini a parole.

 

Interessante passaggio.

Potrebbe sembrare una leggera involuzione. Un’ immagine vale più o meno di una parola? Probabilmente non è neppure questione di confronto, anzi sicuramente non lo è, sempre che non si decida di tirare fuori il parametro della libertà, ancora una volta.

Immaginare richiama all’immagine, ma la parola? Un disegno offre un’immagine da ricordare, sta a noi farla vivere, ma una descrizione a parole ci fa essere artefici dell’immagine da vagheggiare. Non ci è chiesto di affidarci, bensì di creare.

Non è possibile dire se fu effettivamente questo pensiero che portò la giovane donna a cambiare il proprio stile comunicativo e a fare della carta e della penna un uso diverso di quello che era abituata a fare. Tant’è. Pochi anni e quella stessa bambina che era approdata a Cracovia in tenera età si riscoprì, da adulta appena affacciata alla vita, scrittrice prima e poi, poeta.

La contemporaneità è portata a sorridere di fronte a questa parola – poeta – e gli stereotipi sulla poesia sono davvero infiniti.

Un giorno poetico inizia sempre con una buona colazione. Bisogna ricordarsi sempre di usare le parole giuste. Ascoltare musica classica aiuta sempre l’ispirazione. Conviene sempre partire da sentimenti semplici, quando si scrive.

Sempre, ma anche no, perché probabilmente la poesia è così libera che in essa non esiste né il mai né il sempre.

Tutto quel che è non è, mentre quello che non è può tranquillamente essere in futuro, come nel paese delle meraviglie di Alice. Foglio bianco e barattolo pieno di pennarelli. Credo sia questa la prospettiva in cui inserirsi per stare al passo.

Ed improvvisamente non sembra tanto strano che si crei facile strada tra il disegnare ed il comporre. La prima poesia di Wislawa Szymborska venne pubblicata nel 1945 ed è emblematica in tal senso.

Parole giuste? Arte poetica? Chissà, magari bastò solo chiudere gli occhi e lanciarsi, senza pensare. Lei debuttò con l’umiltà – di socratica memoria – di chi non sa e non ha paura di ammetterlo.

La nobile modestia di chi ricerca perennemente qualcosa che sia abbastanza giusto per descrivere ciò che prova e ciò che vede.

Szukam slowa, scriveva Wislawa. Ricerco la parola.

Mise in versi l’attività principale del poeta concreto: la scelta.

Come può una giovane, un poeta, trovare una parola tanto precisa da descrivere l’orrore del nazismo? Non può, risponde Wislawa, si arrende.

 

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(…) La nostra lingua è impotente, i suoi suoni all’improvviso poveri. 

Cerco con lo sforzo della mente cerco questa parola

ma non riesco a trovarla.

Non riesco.”

(…) Bezsilna nasza mowa, jej dźwięki nagie – ubogie. 

Szukam wysiłkiem myśli, szukam tego słowa –

ale znaleźć nie mogę.

Nie mogę.”

 

La libertà del poeta è dunque tale da farsi libertà di scoprirsi a tratti impotenti di fronte a ciò che non si capisce e a tratti invincibili, divinità padrone del mondo di possibilità che solo allo scrittore sono concesse, celebrando la propria gioia di scrivere, senza nascondere una latente paura di sentirsi inadeguati.

 

(…) Non una cosa avverrà qui se non voglio.

Senza il mio assenso non cadrà foglia,

né si piegherà stelo sotto il punto del piccolo zoccolo.

C’è dunque un mondo

di cui reggo le sorti indipendenti?

Un tempo che lego con catene di segni? Un esistere a mio comando incessante?

La gioia di scrivere

Il potere di perpetuare.

La vendetta d’una mano mortale. ”

(…) Na zawsze, jeśli każę, nic się tu nie stanie.

Bez mojej woli nawet liść nie spadnie

ani źdźbło się nie ugnie pod kropką kopytka.

Jest więc taki świat,

nad którym los sprawuję niezależny? Czas, który wiążę łańcuchami znaków? Istnienie na mój rozkaz nieustanne?

Radość pisania. Możność utrwalania. Zemsta ręki śmiertelnej”

 

Fierezza del poeta che scrive liberamente.

Eppure la libertà è troppo preziosa per essere di facile dominio, persino per i poeti.

La dittatura socialista imponeva scelte precise ed ogni scrittore in Polonia dovette farci presto i conti. La censura bollava come sovversive tutte le manifestazioni di idee che sembrassero anche solo lontanamente non in linea con l’ideologia che il governo tentava di instillare nel popolo. Trovare una mediazione divenne questione di sopravvivenza artistica. Rinunciare a un pezzetto di libertà per continuare liberamente a fare quello per cui si è nati. Un diritto trasformato in privilegio.

La libertà mutilata è sempre libertà? O, perso un pezzetto, è persa del tutto? E’ un dilemma con cui facciamo i conti ancora oggi.

Dopo un rifiuto della sua prima raccolta di testi, nel 1948, Wislawa Szymborska accettò il compromesso, si iscrisse al partito comunista e limitò la propria libertà per amore. Compatibilmente al realismo socialista, dunque, compose una serie di opere approvate dalla censura.

Tentando di riacquistare progressivamente una certa libertà di scrittura attraverso un’ulteriore raccolta di poesie pubblicata nel 1957, si distaccherà infine definitivamente dal partito nel 1966.

Ciò sarà l’inizio della caratterizzazione del proprio stile poetico, sempre più separato dalla politica e proiettato verso la timida realtà dell’astrazione, condita di ironia, pungente a tratti e a tratti dolce, in nome della quale è concesso dire qualsiasi cosa, persino la verità.

Lo stile è semplice, ma preciso. Versi liberi che danno estrema fluidità e scorrevolezza al testo, senza togliere pregio alla ricercatissima scelta lessicale, con la quale l’autrice tradisce se stessa nel rivelare teneramente un amore viscerale per le parole, come fiori in un giardino a cui si dedica con cura.

Ogni parola è importante, nessuna vale più delle altre.

Amore, gatto, valigia, vita, morte, cipolla, corpo.

Non esiste alcuna gerarchia e ciò conduce anche alla pari dignità di tutti i sentimenti.

Chi dice che il primo amore è più importante del rancore di un gatto che aspetta dinanzi alla porta il padrone che mai più farà ritorno?

La Szymborska canta la bellezza e il dolore dei sentimenti piccoli o di quelli grandi che diventano uguali agli altri se riportati nello spazio minuscolo che contiene un uomo qualunque, nella sua limitata essenza.

Con l’abilità di parole posate – sembra quasi di sentire una sottile mano femminile tracciare le lettere sul foglio – le sue poesie ci ricordano la relatività di piccoli pensieri e di piccole cose che, forse proprio perché tanto semplici, sono importanti. Di fronte all’ansia di ricondurre tutto ai massimi sistemi, ai grandi valori, alla tragedia, all’eterno, alla disperazione, l’ironia di Wislawa ci sussurra quanto sia probabile che ci siamo sbagliati di grosso nel convincerci di sapere quel che non sappiamo.

E’ così che un amore improvviso e tanto nuovo all’animo di chi lo possa provare ci è inaspettatamente presentato come qualcosa di inevitabile e consequenziale nella ruota degli eventi, il frutto delicato di una fredda condicio sine qua non.

 

La potenza della semplicità

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(…) Vi furono maniglie e campanelli

su cui anzitempo

un tocco si posava sopra un tocco

(…) Ogni inizio infatti

è solo un seguito

e il libro degli eventi

è sempre aperto a metà”

(…) Były klamki i dzwonki,

na których zawczasu dotyk kładł się na dotyk.

(…) Każdy przecież początek to tylko ciąg dalszy,

a księga zdarzeń

zawsze otwarta w połowie.”

 

Persino Hitler ci è raccontato come un bambino che posa beato per la sua prima fotografia e – in un frammento amaro – passato il furore della guerra restano solo le macerie di un campo di battaglia e la vita che scalpita per riprendere il suo corso. Come sempre, come prima.

 

Dopo ogni guerra c’è chi deve ripulire.

In fondo un pò d’ordine da solo non si fa.”

Po każdej wojnie

ktoś musi posprzątać. Jaki taki porządek

sam się przecież nie zrobi”

(…) Sull’erba che ha ricoperto le cause e gli effetti,

c’è chi deve starsene disteso

con la spiga tra i denti,

perso a fissare le nuvole.”

(…)W trawie, która porosła

przyczyny i skutki, musi ktoś sobie leżeć z kłosem w zębach

i gapić się na chmury.”

 

Nessun abisso è più profondo di quello che custodiamo dentro, ma se tanti abissi racchiusi in tanti uomini si riflettono alla luce dell’infinito, l’umanità della percezione che abbiamo della vita non sarà tanto più grande del salotto di casa nostra.

Può sembrare un elogio della piccolezza, in parte, ma forse va addirittura oltre: niente è più suscettibile di misurazione, la forza di una sensazione è pura in quanto tale e in quanto tale importante, al di là del motivo che la scateni. Attraverso la potenza della semplicità schietta, Wislawa Szimborska parla senza mezzi termini, snocciolando storie, come perle diverse di un’unica collana.

Gioiello prezioso che nel 1996 fece guadagnare all’artista il Premio Nobel per la letteratura, elogio alla forza della sua poesia che «con ironica precisione, permette al contesto storico e biologico di venire alla luce in frammenti d’umana realtà».

La perseveranza nel credere nel valore della propria identità di scrittrice ha dunque portato Wislawa lontano, ma al di là dei riconoscimenti e dei premi e molto oltre il consenso della critica e del pubblico, leggendo i suoi versi è facile sentirsi avviluppati e piacevolmente invasi dal solletico che prova chi si diverte un mondo a giocare con le parole.

di Maria Elena Micali

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