Categoria | Arte-Appuntamenti

‘Casina’, nel gran circo della familia

Pubblicato il 06 novembre 2014 da redazione

Casina

La ricetta è semplice. Eppur complessa, nella sua articolazione. Prendete una selva di personaggi, abbigliateli con paludamenti ad hoc, innervateli di pulsioni e forse sentimenti, inscriveteli dentro progetti ardimentosi ad alto tasso d’improbabilità, verso l’orizzonte di aspettative solamente agognate. Innescate, poi, la miccia di una comicità ad orologeria, tanto puntuale quanto imprevedibile, nella vulcanica esplosione, come maionese impazzita, di battute fulminati e situazioni esilaranti. Sotto l’occhio attento di un magnus coquus di nome Tito Maccio Plauto, la cucina teatrale del più celebrato nome della antichità latina classica prende corpo e si siede a tavola, meglio in platea con gli spettatori, lì, nell’ideale càvea. La Casina è tutto questo e anche di più. Satura lanx. Pietanza preziosamente ridanciana con retrogusto amarognolo, perchè riflessivo. L’intreccio che prevale sui caratteri e viceversa, in un percorso a rimpiattino che rimbalza tra ruoli plurimi, manichini, scambi e inganni dissimulati (tal è la versione offerta da Marina Thovez, colta e attenta), si dipana e narra di Lisidamo, senex libidinosus, e di suo figlio, l’adulescens Eutinico, che si contendono la bella Casina, una giovane schiava abbandonata ancora in fasce e allevata da Cleostrata, scaltra matrona (moglie di Lisidamo e madre di Eutinico). L’idea, da parte di Lisidamo stesso, di accasare la bella fanciulla con il suo scontroso fattore Olimpione, si allinea ad una strategia parallela dell’adulescens con il proprio scudiero P/Calino: il fine di giacere sul talamo insieme a Casina, sì, ma fuori casa, è lo stesso. Ma è la stessa Cleostrata mulier, nel combinare il matrimonio di Casina col giovane scudiero P/Calino (Chalinus servus), a rimanere nodo fulcrale della famiglia, al centro di un microcosmo di amiche e schiave, tutt’insieme disposte ad orchestrare un inganno ai danni dei maschi prevaricanti, ma creduloni (semper), per difendere le ragioni della passione e contrastare la servile sudditanza nei confronti di una società ostilmente vessatoria. I piani di Lisidamo e Olimpione saltano. Con la beffa finale ad aprire il sipario-velario su una sostanziale sconfitta intrisa di pentimento sincero ed un po’ melanconico: desiderio di libertà e illusione di sconfiggere il tempo accoppiandosi a una donna più giovane finiscono per infrangersi. Casina, figlioccia, poi, non è neanche schiava: è di nascita libera! Il quadro si ricompone “post factum” con l’”agnitio” finale (vedi, agnizione: riconoscimento improvviso ed imprevedibile dell’identità di un personaggio).

E non fa nulla (anzi fa parte integrante del gioco) se i nomi dei protagonisti a partire dalla coppia Sciolgotutto (leggi, Lisidamo) e Strepitosa (Cleostrata) col fido scudiero Palino trascolorano in una contemporaneità (non solo lessicale, ma anche gestuale) da cartone animato! Sì ma un cartoon d’alto lignaggio, sapientemente strutturato che sposa la traiettoria metateatrale e, instaurando un filo diretto col pubblico partecipe e divertito (nella milanesissima bomboniera del Teatro San Babila), abbatte la fatidica ‘quarta parete’, infrange l’illusione scenica, noncurante della fabula incoerente a volte confusa, per sottolineare l’effettiva venatura plautina intessuta di pura –  dichiaratissima – finzione (con la realtà a tessere la trama, però). Così, la riscrittura di un classico del 184 a.C., al di là del fervore cultural-ideativo e della calibrata (ri)costruzione di Marina Thovez, affiancata da un sulfureo, trascinante Mario Zucca, diventa occasione ghiotta per un itinerario davvero speciale, che dalla Roma repubblicana di allora, un po’ guerriera, molto contadina, riallaccia un filo sottilissimo e tenace con un presente nient’affatto dimentico di un passato mai passato. Assecondando l’onda lunga di un andamento nobilmente circense dalle nuances similcabarettistiche, con due scatenatissimi interpreti (voraci, ingordi, bugiardi) capaci di indossare i panni variopinti di sette-personaggi-sette (ma anche otto) nel tratteggiare la concreta fantasia di una girandola di caratteri mutuati dal genere umano, glorie e miserie comprese tra sfide, rivalità, piccole invidie e meschine infedeltà coniugali. Thovez-Zucca: Marina e Mario, Mario e Marina, sempre loro, solo loro, ma mai così tanti. Bravissimi, provvidi di sfumature nel caleidoscopio interpretativo scoppiettante. In scena, attraverso una fin troppo esibita finzione dichiarata, con dialoghi inframmezzati sulla messinscena e sui ruoli da assegnare, che dai Blues Brothers in poi s’aggroviglia ben dentro un intreccio inestricabile, innervato da pennellate di voci cangianti, toni modulati, dettagli, sfumature e approda sul lido della sfida e del puro azzardo (assai rischiosa, la rielaborazione di un classico!). Come fiume torrentizio il linguaggio, prodigiosamente inventivo, scorre impetuoso, trascinando note buffe, goliardiche, luoghi comuni, per ritagliare figure e figurine assai connotate, ben al di là dello spazio concesso loro dalle storie narrate. Il vezzo, poi, per il lazzo spiazzante e per l’allusione (magari) sessuale, per la battuta al fulmicotone (anche attualizzata all’oggi), nel vortice di situazioni che s’incastrano vicendevolmente, in un dentro-fuori-dentro scosso da un irrefrenabile fregolismo, abbinato a mimetismo ‘modello seconda pelle’, che detta ritmi forsennati nel cambio di vesti, scene e situazioni ad inseguire mogli scaltre e vendicative, servi pusillanimi, cuochi perfidi, complici beffati, contadini allupati e donne vittoriose, sostanziano l’intera messinscena e tutt’insieme festosamente colorano uno spazio solo apparentemente fasciato dall’eleganza scenografica di Nicola Rubertelli e illuminato da luci sapienti ma, in sostanza, intriso degli umori ondivaghi di una classica familia, vero centro propulsore della comicità plautina. Tutto cambia. La società si trasforma . Ma quante storie, ancora da raccontare attendono di essere srotolate?!? Hic et nunc, ora e subito. La parola a teatro è un attimo fuggente. Shakesperare, Molière, Feydeau verranno dopo. Plauto, il grande genius iocandi (ed i suoi fantastici intrecci), anticipa tutti. Con un sorriso grande così. 2200 anni dopo, codici di comunicazione e riferimenti culturali, gli stessi, assieme alla voglia intonsa di andare in scena, deflagrano (e conquistano) all’unisono.

 di Franco Bruno

 

‘Casina’ di Marina Thovez   –  da Tito Maccio Plauto – Regia di Marina Thovez

con Marina Thovez – Mario Zucca                                     

Al Teatro San Babila di Milano, poi in tournèe

 

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