Categoria | Politica-Economia

Blasfemia: quando la politica usa la religione come censura

Pubblicato il 27 aprile 2015 da redazione

Anna Politkovskaja.

Anna Politkovskaja.

«L’unico dovere di un giornalista è scrivere quello che vede» (Anna Politkovskaja)

 

Mentre il 2014 ha visto una diminuzione del numero di giornalisti arrestati o condannati per questioni religiose, sempre più paesi stanno usando la “blasfemia” e il “sacrilegio” come ragioni per censurare la critica politica. Alcuni leader arrivano a rafforzare questi divieti approvando leggi che vietano qualsiasi critica al loro operato politico.

In quasi la metà dei paesi del mondo, giornalisti e blogger affrontano costantemente la censura in nome delle religioni, dei profeti o di Dio (c’est più inscrit dans la loi que dans la pratique, la trad deforme peu). Se un articolo, che riguarda la religione, viene considerato “offensivo” o infrange una “norma morale”, l’autore può subire gravi conseguenze. Nei paesi in cui le leggi sono particolarmente restrittive, e che prevedono anche la pena di morte, le agenzie di informazione si sono dovute auto-censurare per anni.

A volte i giornalisti hanno meno da temere dalla legge che dai loro compatrioti più radicali, che potrebbero essere pronti a ricorrere alla violenza per “rendere giustizia” alla loro religione. Il pericolo permanente che incombe su coloro che si occupano di questioni religiose è stato segnalato alla comunità internazionale, in particolare è stata sottolineata la forte criminalizzazione di alcune condanne e divieti per “blasfemia”, “diffamazione della religione” e “offesa dei sentimenti religiosi” che alcune organizzazioni come l’Organization of Islamic Conference stanno promuovendo.

 

Frasi pesanti

badawi

Raif Badawi.

I paesi più intransigenti sulla blasfemia sono l’Arabia Saudita e l’Iran che continuano a reprimere duramente giornalisti e blogger. Raif Badawi, che ha fondato il sito saudita Liberal Network con l’avvocato al-Shammari Souad, il 7 Maggio 2014 è stato condannato a dieci anni di carcere, 1.000 frustate e una multa di 1 milione di riyal (230mila euro).

Badawi è stato accusato di aver creato e moderato un sito web che insulta le religioni ufficiali, compreso il Committee for the Promotion of Virtue and Prevention of Vice (Comitato per la promozione della Virtù e la prevenzione dal Vizio), e violato le regole di base della Sharia. Nonostante la protesta internazionale, il 9 gennaio 2015 è stato pubblicamente fustigato alla prima delle 20 sedute, ciascuna di 50 frustate, che dovrà subire fino all’estinzione della pena.

Anche Mohammed Al-Ajmi, un attivista per i diritti umani e blogger dal Kuwait, conosciuto con il nome di Abo3asam, è stato arrestato con l’accusa di blasfemia il 27 agosto, in relazione a un tweet controverso che l’11 agosto accusava i membri del gruppo salafita Al-Jamiya di seguire ciecamente il suo leader religioso, Hamad al-Uthman. Non era il suo primo scontro con le autorità. Nel mese di aprile era stato accusato di aver diffamato l’emiro del Kuwait, lo sceicco Sabah al-Sabah, e il 6 luglio era anche stato arrestato e tenuto in stato di fermo per un breve periodo.

Nella Repubblica islamica dell’Iran, uno dei modi in cui il regime punisce i dissidenti è quello di definire “la critica politica”, rivolta ai leader del paese, come un “sacrilegio”. Un tribunale rivoluzionario di Teheran, il 27 Maggio 2014, ha condannato otto eternauti a 123 anni di carcere, con l’accusa di aver fatto propaganda anti-governativa sulla rete, commesso sacrilegio e insultato il “leader supremo della Rivoluzione.”

Mohamed Ould Cheikh Mohamed

Mohamed Ould Cheikh Mohamed.

Un giovane blogger della Mauritania, Mohamed Ould Cheikh Mohamed, è stato condannato a morte il 24 dicembre per aver criticato la disuguaglianza del sistema delle caste del Paese. Dopo l’indipendenza, è stata la prima condanna a morte della Mauritania per apostasia (apostasìa – dal greco ἀπό apò «[lontano] da» e στάσις stàsis da ἵστημι ìstemi “stare, collocarsi” – l’abbandono formale e volontario della propria religione). Nell’articolo incriminato, pubblicato sul sito web Aqlame, aveva scritto che l’ordine sociale della Mauritania era arcaico quanto quello vigente ai tempi del profeta Maometto.

Per questo è stato accusato di aver fatto “riferimenti impertinenti al Profeta”, “violando l’ordine divino” e commettendo “blasfemia”. Scusandosi per il post, il blogger ha negato di aver voluto attaccare il Profeta o l’Islam e ha detto che «voleva solo difendere gli umili, la casta dei maalemine» (fabbri), alla quale appartiene. Ora è nel braccio della morte, e spera che la sua sentenza verrà rinviata in appello.

 

La violenza dei “credenti”

Libertà

Non sono solo i governi autoritari che prendono di mira giornalisti e blogger. Alcuni gruppi religiosi esplicitano arbitrariamente anche “minacce” e “frasi” violente, nell’indifferenza delle autorità, la cui unica preoccupazione è quella di mantenere l’ordine.

Sotto la pressione popolare, Jitendra Prasad Das, un redattore del Samaj, quotidiano regionale del Cuttack, in India, è stato arrestato lo scorso 15 gennaio con l’accusa di aver offeso i sentimenti religiosi, il giorno successivo a quello in cui ricorreva la nascita di Maometto, quando pubblicò un’immagine del Profeta accompagnata da un breve testo. Il suo arresto avveniva dopo gli attacchi contro gli uffici del Samaj a Cuttack e in altre città in Odisha, da parte dei membri della comunità musulmana, durante i quali vennero fracassati computer, stampanti e in generale gli uffici di Balasore e incendiata la sede di Rourkela, nonostante il giornale avesse già pubblicato le sue scuse.

In Bangladesh, un gruppo islamico finora sconosciuto che si fa chiamare Ansar al Islam Bangladesh (Difensori dell’Islam) ha postato un messaggio a Novembre 2014 in cui rivendicava tre omicidi, tra cui quello di Rajib Haider, un blogger sgozzato a Febbraio 2013, ed elencava altre future vittime, tra cui Asif Mohiuddin, un blogger sopravvissuto fino a Gennaio 2013 e poi accoltellato. Nel suo blog “Onnipotente solo di nome, ma impotente nella realtà,” Mohiuddin aveva spesso espresso scetticismo sulla religione e gli insegnamenti dell’Islam.

 

Proteggere la religione attraverso la legge

Libertà di stampa mondo-2014

Incoraggiate da una diffusa autocensura, per via delle leggi che puniscono qualsiasi attacco alla religione di Stato, le autorità di alcuni paesi stanno cercando di estendere i divieti attraverso nuove leggi che consacrerebbero i leader a entità sacre e per i quali sarebbe quindi proibita qualsiasi critica.

Questo è quanto sta avvenendo in Kuwait, dove il governo ha stretto un giro di vite a difesa dell’emiro Sabah al-Ahmed al-Jabir al-Sabah. Dopo che due giornalisti locali, Badr Al-Rashidi e Ourance Al-Rashidi, sono stati condannati per averlo insultato nel 2013, è stato presentato un disegno di legge che prevede pesanti multe in caso di critiche all’emiro o al principe ereditario e condanne fino a 10 anni di carcere in caso di offese a “Dio, ai profeti dell’Islam o alle mogli o alle compagne.” Anche se questa legge non è stata ancora adottata, i giornalisti kuwaitiani ora hanno ancora meno libertà.

La stessa tendenza si è verificata in alcuni paesi del Nord Africa, come la Tunisia, in cui la National Constituent Assembly, in Gennaio, ha adottato una nuova costituzione che sancisce la libertà di informazione e garantisce il rispetto della libertà di espressione. Nonostante abbia dichiarato l’Islam quale “religione di Stato”, riconosce la “libertà di credo e di pensiero,” e impedisce che venga criminalizzata l’apostasia. Tuttavia, anche se il sacrilegio non può essere punito con la reclusione, in un emendamento lo Stato viene eletto  quale “guardiano della religione” e “protettore del sacro” e “proibisce attacchi contro ciò che è sacro.”

Un emendamento di “moralità pubblica”, dunque, che può limitare la libertà di espressione (articolo 49 della Costituzione tunisina) è ora anche una fonte di preoccupazione. La persecuzione giudiziaria di Jabeur Mejri, un blogger condannato nel 2013 a causa di alcune vignette sul Profeta, dimostra perché tale preoccupazione sia giustificata. Poiché la bestemmia non è un crimine, Jabeur è stato accusato di offendere gli standard riconosciuti di buon comportamento, la pubblica decenza e correttezza. Il blogger è oggi ancora perseguitato dalle autorità che per tenerlo in carcere lo hanno anche accusato di appropriazione indebita.

La stessa tendenza è stata osservata nei progetti di riforma dei media in Marocco – sulla “stampa e l’editoria,” lo “status di giornalisti professionisti” e il “Consiglio Nazionale della Stampa” – che il ministro della comunicazione del Marocco ha presentato a Novembre 2014. Sebbene sia migliorativo della legislazione già esistente, le riforme non smantellano la linea rossa che vieta la critica dell’Islam, del re e degli altri membri della famiglia reale, lasciando il Marocco in violazione dell’articolo n°19 della Carta internazionale dei diritti civili e politici.

L’articolo n°19 dice che qualsiasi restrizione alla libertà di espressione deve essere oggetto di una legge che, per rispetto del paragrafo 3 dell’articolo, includa “la protezione della sicurezza nazionale, l’ordine pubblico, la salute o la morale pubblica.” In altre parole, le autorità devono dimostrare che le informazioni riservate riguardino solo esplicite “minaccie alla sicurezza nazionale o altri criteri espressamente specificati”.

Nel Commento Generale n°34, della Carta internazionale dei diritti civili e politici (http://www.ohchr.org/EN/ProfessionalInterest/Pages/CCPR.aspx), il Comitato per diritti umani delle Nazioni Unite afferma che «Qualsiasi restrizione deve essere proporzionata all’interesse da tutelare. Il divieto di manifestare la mancanza di rispetto per una religione o altra fede di Stato, comprese le leggi sulla blasfemia, sono incompatibili con la Carta internazionale dei diritti civili e politici, salvo per le circostanze particolari previste dall’articolo n°20. Si tratta di propaganda di guerra e incitamento all’odio nazionale, razziale o religioso, e costituisce un chiaro invito alla discriminazione, all’ostilità e alla violenza.»

(articolo apparso su Reporters Without Bordershttp://index.rsf.org/#!/themes/blasphemy-political-use-of-religious-censorship)

traduzione a cura di Adriana Paolini

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