Categoria | Cultura

Salvatore Quasimodo e la geografia emotiva.

Pubblicato il 02 gennaio 2016 da redazione

quasimodo-milano 68

Salvatore Quasimodo, Premio Nobel per la letteratura 1959.

 

Un atlante. Tutti lo hanno a casa? Spero di sì. Anche se probabilmente ormai se qualcuno cerca informazioni su un paese o una regione preferisce andare online, dove la cartina fisica e quella politica sono affiancate da mille informazioni utili, dalla densità demografica al principale luogo di interesse, fino alla segnalazione della pizzeria o gelateria con il maggior numero di recensioni positive. E’ certamente affascinante poter avere di fronte agli occhi un intero planisfero e seguirne i contorni col polpastrello, mari, fiumi, laghi, montagne e poi città, piccole e grandi, che si rincorrono sullo spazio come formichine colorate. Eppure, con un piccolissimo sforzo, basta guardare oltre la finestra per avere tutto in mano, anche senza un atlante da sfogliare. Scopriremmo dunque che esiste un mondo nuovo, con una forma tutta strana e tutta diversa. Ognuno può costruire il proprio mappamondo, allargando i confini, cambiando gli orizzonti e i punti cardinali, ridisegnando la terra applicando una scienza ancora inesplorata, la geografia emotiva, per cui ogni luogo è grande, piccolo, montuoso o pianeggiante a seconda di quello che evoca in noi il suo ricordo. Forse è follia, ma se leggessimo le storie che i libri ci hanno raccontato o tendessimo l’orecchio a canzoni e poesie il cui sussurro risuona forte a chi sa ascoltarlo, vedremmo che non è poi una grande novità rileggere l’universo con gli occhi dei ricordi e dell’immaginazione.

Un poeta dagli occhi scuri e malinconici ha fatto della geografia emotiva la sua piccola guida. Salvatore Quasimodo, modicano, nato alla prima alba di un Millenovecento pieno di promesse, ha raccontato la sua Sicilia come si racconta di una madre, che un po’ si abbraccia e un po’ si fugge o si teme, ma che resta sempre immensa al centro della vita.

 

rosa e salvatore quasimodo

Rosa e Salvatore Quasimodo.

 

La vita, tra geometria e poesia.
Salvatore era figlio di un capostazione e per seguire il lavoro del padre, continuamente trasferito da una stazione all’altra dell’isola, trascorse i primi anni di vita muovendosi da una città siciliana all’altra. Si formò all’istituto tecnico, iniziato a Palermo e terminato a Messina, in seguito scelse la facoltà di ingegneria e, diciottenne, lasciò la Sicilia per andare a Roma, ma ben presto le condizioni economiche della propria famiglia peggiorarono, costringendolo a lasciare gli studi e a passare dalla teoria alla pratica, accettando lavoretti saltuari come disegnatore tecnico e impiegato. E’ proprio questo periodo nella capitale che fece da culla alla nascita della duplice anima del giovane Salvatore, il cui barcamenarsi tra concretezza e sogno si tramutò presto in un’alternanza tra lavori manuali e interesse per la letteratura classica. Si avvicinò allo studio del greco e del latino e, iniziando a collaborare con alcuni periodici romani, cominciò ad appassionarsi agli autori classici, che accompagnarono, come angeli custodi, la sua storia d’amore con la poesia. Come spesso accade, tuttavia, anche il giovane amore di Salvatore sbocciò lentamente, senza rispettare il momento e il tempo giusto, ma insinuandosi nella sua vita come l’edera sui muri del castello incantato, con una forza sommessa ma tenace nel riempire piano ogni spazio della sua esistenza. Al primo sorgere di questa vocazione letteraria, però, Salvatore era un emigrante, le cui condizioni economiche rendevano inevitabile che la ricerca di un impiego fisso fosse ancora la sua priorità; fu così che ricoprì il tormento e la furia dei racconti che tanto amava leggere con il velo della necessità, accettando il posto di geometra al Genio Civile di Reggio Calabria. Tornato al Sud, riscoprì un contesto diverso da quello che aveva lasciato e si trovò a confrontarsi con un ambiente altamente imbevuto della foga antifascista di giovani pieni di voglia di cambiare le cose. Fu qui che il desiderio di scrivere tornò a solleticargli i baffi, affiancato dall’innamoramento per Bice Donetti, che sposò nel 1926, dopo un periodo di convivenza. Alla morte della prima moglie si sposò nuovamente nel 1946 con Maria Cumani.

 

elio_vittorini_siracusa

Elio Vittorini.

 

La sicurezza economica arrivò qualche anno dopo, lasciando un po’ di respiro a lui e alla sua penna, che iniziò a prendere forza e spazio crescente nella sua vita. Era divenuto cognato di Elio Vittorini, che, dopo aver sposato sua sorella Rosa, lo invitò a Firenze, introducendolo nei salotti letterari frequentati dai più celebri esponenti della poetica italiana, dove si avvicinò all’ermetismo, che sarà poi il tratto caratterizzante del suo stile letterario. Il suo impegno come geometra per il Genio Civile, tuttavia, proseguì parallelamente alla sua attività di poeta e alle continue collaborazioni con riviste letterarie in cui nel corso degli anni vennero pubblicate le sue raccolte di testi. Solo nel 1938 lasciò il lavoro di geometra per dedicarsi esclusivamente alla letteratura, affiancando la poesia alla traduzione dei lirici greci. Nel 1941 divenne professore di Letteratura Italiana presso il Conservatorio Giuseppe Verdi di Milano, dove avrebbe continuato ad insegnare fino al 1968. Ben presto il muro della vita di Quasimodo fu ricoperto dalle fronde arricciolate di una poesia viva e la letteratura prese tanto spazio in lui da raccoglierlo completamente fino ad elevarlo verso riconoscimenti internazionali. Nel 1959 arrivò il Premio Nobel per la Letteratura, seguito da due lauree honoris causa da parte dell’Università di Messina e di Oxford. Alla sua morte, nel 1968, tutti, riferendosi a lui, lo chiamavano Poeta.

 

La Sicilia come Itaca, tra illusione e mito.
Un esule, così si descrive il poeta, uomo che affronta la lontananza dalla sua terra come un destino afflittivo e pieno di significato. Basta dunque questa veste dolorosa a farsi pennello per dipingere l’isola che si è lasciato alle spalle come una terra promessa, un abbraccio atteso, un porto felice in cui approdare. Tutto rimanda alla dolcezza malinconica degli eroi greci, ai nostoi, storie di guerrieri e dei loro perigliosi viaggi di ritorno verso la patria. La prima fase poetica di Quasimodo è dunque distesa lungo il parallelismo tra mito e realtà. Il conflitto dell’uomo è ancorato al filo sottile del ricordo e del confronto desolante tra la vita di oggi e quella di ieri, che la memoria tinge di un profumo dolcissimo e irraggiungibile. Vano è dunque illudersi di ritrovare ciò che si è lasciato alle spalle, l’unico legame tra il presente e il passato resta il confortante tepore di una triste nostalgia, cruda e concreta, che si posa sul cuore, nascondendo una ferita ancora viva.

 

teatro greco Tindari

Tindari, mite ti so
Fra larghi colli pensile sull’acque
Delle isole dolci del dio,
oggi m’assali
e ti chini in cuore.
(…) A te ignota è la terra
Ove ogni giorno affondo
E segrete sillabe nutro:
altra luce ti sfoglia sopra i vetri
nella veste notturna,
e gioia non mia riposa
sul tuo grembo.
Aspro è l’esilio,
e la ricerca che chiudevo in te
d’armonia oggi si muta
in ansia precoce di morire;
e ogni amore è schermo alla tristezza,
tacito passo al buio
dove mi hai posto
amaro pane a rompere.
Tindari serena torna;
soave amico mi desta
che mi sporga nel cielo da una rupe
e io fingo timore a chi non sa
che vento profondo m’ha cercato.

 

Il poeta nasconde dietro alla propria penna una forza sempiterna, l’onnipotenza creatrice, capace di modificare ciò che vede elevandolo all’ideale. Non basta descrivere, l’autore cambia il mondo che vede, lo reinventa, ricollocando luoghi e terre, abolendo alcune distanze ed esasperandone altre.

 

oleandro

Di te amore m’attrista,
mia terra, se oscuri profumi
perde la sera d’aranci,
o d’oleandri, sereno,
cammina con rose il torrente
che quasi n’è tocca la foce.

Ma se torno a tue rive
e dolce voce al canto
chiama da strada timorosa
non so se infanzia o amore,
ansia d’altri cieli mi volge,
e mi nascondo nelle perdute cose.

 

La descrizione rarefatta del paesaggio siciliano, riletto in chiave allegorica e mitica, rende un nido reale un rifugio sognato, che, posto di fronte allo specchio crudele della realtà, non si riflette, ma svanisce, distruggendo ogni speranza. Quasimodo racchiude nei suoi versi tutta l’atmosfera epica dei luoghi della propria infanzia, ridondanti di immagini incantate e scandite dalla forza dell’acqua e della terra, evocative di una vita che splende confinando il presente nel buio del rimpianto.
La solitudine di fronte al tramonto, ed è subito sera.
Cosa resta allora tra le mani, da stringere? Dietro l’uscio di casa scoppietta un fuoco fatuo, privo di calore familiare. Rimane un freddo leggero, l’abbandono di un risveglio di soprassalto in una casa e in un letto nuovo, con lo smarrimento che si nasconde tra le coperte. L’uomo ci viene raccontato come un piccolo istante di eterno, che ruzzola incerto lungo le strade di una vita di cui non si conoscono i contorni. Lo smarrimento governa lo spirito, che è guidato dalle domande e dall’inconsapevolezza, in cui la macchinosità del pensiero indagatore di un poeta si insinua, carica di disillusione. L’esilio non è solo una condizione del corpo, ma della mente, che, strappata dal luogo natio, fatica a riconoscersi e a trovare un equilibrio. La natura resta come collegamento fra interiorità ed esteriorità ed il pensiero, di fronte all’immenso, diventa dolce amico per sopportare la paura.

 

Giovanni_Fattori

Ognuno sta solo sul cuor della terra
trafitto da un raggio di sole:
ed è subito sera.

Scoppia, in poche parole cadute sul foglio, la potenza dell’ermetismo. Rinunciare ai fronzoli per raccontare di una preoccupazione che paralizza, ma non è abbastanza forte da trattenere un soffio di vita di fronte alla potenza della fine delle cose, che incombe sugli uomini rendendo vano ogni tentativo di dimenticare. Chissà cosa vede un poeta di fronte alla sera, che – subito- arriva a stupirlo. Un cielo viola sul mare, al tramonto? O un albero forte, che regala una foglia al vento che soffia dagli scogli? Nessun indizio, come a rimandare, come a dire che non è importante quello che fa nascere una poesia, ma conta molto di più lo strascico che il rumore di quella poesia lascia sulla battigia. Il silenzio è dunque riempito dal lettore, che leggendo immagina profumi di infinito o scatole magiche in cui costruire paesaggi in perfetta sintonia con ciò di cui ha più bisogno. La poesia dunque, come sempre, nello spazio di una parola trattenuta dall’inchiostro, diventa terreno fertile per una libertà di qualità eccelsa. Sembra tutto semplice, ma non lo è. La meraviglia di un gioco di prestigio, la cruna in cui passa il cammello, il buio che nasconde un arcobaleno di colori, ecco come appare la riflessione di Quasimodo di fronte al mistero che governa l’eternità.
Il gigante del realismo col cuore di uomo ferito.
L’evoluzione di Quasimodo poeta passa attraverso le vicende travagliate di una terra calpestata da tanti passi. Il richiamo al mito, il ricordo remoto di una fantastica isola gioiosa, il profumo fresco di giochi di infanzia e di foglie di limone, con lo scorrere dei versi, cedono il posto a un panorama di desolata rassegnazione. La malinconia diventa pena, la preoccupazione diventa angoscia e la morte e la guerra devastano i prati dell’immaginazione, lasciando solo il fumo della polvere da sparo e le lacrime dell’oppressione e dell’amore perduto.

 

Quasimodo_puppo
Avete finito di battere i tamburi
a cadenza di morte su tutti gli orizzonti
dietro le bare strette alle bandiere,
di rendere piaghe e lacrime a pietà
nelle città distrutte, rovina su rovina.
E più nessuno grida: «Mio Dio,
perché m’hai lasciato?» E non scorre più latte
né sangue dal petto forato. E ora
che avete nascosto i cannoni fra le magnolie,
lasciateci un giorno senz’armi sopra l’erba
al rumore dell’acqua in movimento,
delle foglie di canna fresche tra i capelli,
mentre abbracciamo la donna che ci ama.
Che non suoni di colpo avanti notte
l’ora del coprifuoco. Un giorno, un solo
giorno per noi, o padroni della terra,
prima che rulli ancora l’aria e il ferro
e una scheggia ci bruci in piena fronte.

 

La guerra imprime un segno indelebile nella vita e nella poesia di Quasimodo. La stessa terra che egli aveva osannato e visto come benefico paradiso di latte e miele da cui attingere nel ricordo per alleggerire il cuore, diventa un fiore reciso, un bottino di guerra, che l’invasore depreda senza ritegno, annichilendo perfino la forza dei poeti, che non riescono a coprire l’orrore con le proprie parole.

 

Salice_piangente
(…) Alle fronde dei salici, per voto,
anche le nostre cetre erano appese,
oscillavano lievi al triste vento.

La realtà gioca di forza con l’incanto, che resta schiacciato dalla violenza di un dolore a cui l’uomo è impreparato, nella sua limitatezza. Non è possibile scappare da una furia concreta che incalza, l’unico debito che ognuno ha con se stesso è confrontarsi con ciò che è stato, riconciliandosi con le proprie origini e i propri affetti. Nella poetica di Quasimodo dunque prendono corpo immagini più crude e concrete, che raccontano la vita vera che corre per le strade delle città, ma che restano lo spunto per richiami ad echi dolorosi e nostalgici d’eterno. La morte diventa il pendolo scuro che rintocca d’ora in ora, ricordandoci un presagio inevitabile. Resta lei l’ultimo riferimento del poeta nella sua riflessione sulla esistenza umana. Ogni cosa dunque cambia colore, come illuminata da una luce traballante, il cui contrappeso è fatto di parole scelte, capaci di far tremare le certezze ad un primo leggerissimo sussurro. Crollano gli arazzi pieni di mitologiche avventure, le fiammelle nella notte e gli scorci di montagna con oleandri rosa e fichi d’india, eppure è bello credere che nonostante tutto rimanga un fiore sulla giacca, rosso e fiero, in risposta al dolore che affligge un uomo che vede le macerie attorno a sé e abbassa il capo. L’isola lontana in cui Ulisse è approdato dopo tanti viaggi è una chimera e un’immagine che per Quasimodo, in fondo, non ha mai smesso di brillare. Tradurre opere antiche, leggere libri e scrivere poesie di certo è sufficiente per conservare un quadratino di infinito, dove ogni tanto è piacevole ritrovarsi a nuotare, in solitudine, bagnandosi di acqua di mare e di voglia di alzarsi al mattino con una nuova storia da raccontare.

di Mariaelena Micali

 

Biografia:
– http://www.salvatorequasimodo.it

Lascia un commento

Advertise Here

Foto da Flickr

Guarda tutte le foto

Advertise Here

LINK