Le basi americane in Italia

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XV legislatura n. 70 Giugno 2007

Le polemiche sollevate dalla decisione del governo italiano di acconsentire all’allargamento della base americana di Vicenza hanno dimostrato ancora una volta quanto sia delicata la questione delle basi militari che gli Stati Uniti mantengono sul territorio italiano. Questo lavoro si propone di far luce su alcuni punti in merito ai quali spesso si accendono polemiche che non sempre hanno un solido fondamento giuridico.

Tra le questioni più controverse vanno annoverate senz’altro:

• Il fondamento giuridico delle basi, se cioè sia conforme all’ordinamento italiano che il governo mantenga segreti i termini di taluni accordi istitutivi delle basi americane;

• le condizioni di utilizzo della base; se la base sia una base comune – e cioè Nato – oppure esclusivamente americana;

• se la presenza di armi nucleari o altri tipi di armi contravvenga agli obblighi internazionali gravanti sull’Italia.

Su tutte queste questioni è di preminente importanza l’influenza dell’articolo 11 della Costituzione.

Non tutte queste problematiche possono essere sciolte (per es. è talvolta impossibile distinguere nettamente tra basi Nato e basi Usa), e su alcune soluzioni esistono opinioni divergenti.

In generale è opinione diffusa che le basi Usa in Italia discendano da una ‘bilateralizzazione’ degli impegni derivanti dal Trattato dell’Atlantico del Nord. Le basi pertanto dovrebbero servire gli scopi della Nato così come definiti dal trattato istitutivo dell’Alleanza e dalla sua evoluzione. Permangono ancora, soprattutto tra gli studiosi, divergenze interpretative alla luce del Documento di Washington approvato dalla Nato nel 1999, che ha esteso il raggio d’azione della Nato ‘codificando’ le missioni ‘fuori area’, cioè le missioni che non rientrano tra quelle previste dall’articolo 5 del Trattato Nato (che impegna le parti alla difesa collettiva a favore di uno stato membro oggetto di un attacco armato).

Più in generale, è necessario un riesame della normativa internazionale che regola i diversi aspetti legati al funzionamento delle basi, in modo da renderli compatibili con i mutati assetti internazionali.

1. Premessa

L’art. 9 del Trattato istitutivo della Nato assegna al Consiglio dell’Atlantico del Nord (North Atlantic Council, Nac) il compito di esaminare tutte le questioni inerenti al funzionamento del Trattato, inclusa la creazione degli organismi pertinenti. Ma per la dislocazione dei comandi alleati e delle infrastrutture è necessario un accordo con lo stato membro ospitante. Le basi messe a disposizione dagli stati membri dell’organizzazione si trovano, oltre che in Italia, anche nel Regno Unito, Spagna, Belgio, Germania, Norvegia e Grecia1. La Francia è uscita dalla struttura militare integrata nel 1966 ponendo fine anche agli accordi bilaterali con gli Stati Uniti.

Nel quadro della Nato, le strutture militari dell’organizzazione coesistono accanto a quelle derivanti da accordi bilaterali stipulati dagli Stati Uniti. Talvolta è difficile distinguere se si tratti di una base Nato o di una base Usa, poiché può darsi che nella base Nato esistano aree riservate agli Stati Uniti2. Si tratta di basi ad uso promiscuo. Una classificazione delle due categorie di installazioni non è possibile in questa sede e richiederebbe un’indagine puntuale, che si rivela difficile, spesso a causa della mancanza di pubblicità dei relativi accordi istitutivi.

Il ministro della difesa Arturo Parisi ha dichiarato, dinanzi alla Camera dei deputati, il 19 settembre 2006, che esistono otto basi Usa in Italia disciplinate sulla base di accordi bilaterali Italia-Usa. Secondo una precisazione pubblicata dagli autori della prassi italiana di diritto internazionale nell’Italian Yearbook of International Law3, le otto basi (o meglio basi e infrastrutture) degli Stati Uniti in Italia sarebbero le seguenti:

1. Aeroporto di Capodichino (attività di supporto navale);

2. Aeroporto di Aviano, Pordenone (31° stormo e 61° gruppo di supporto regionale);

3. Camp Derby (Livorno);

4. la base di Gaeta, Latina;

5. la Base dell’Isola della Maddalena;

6. la Stazione navale di Sigonella;

7. l’osservatorio di attività solare in San Vito dei Normanni;

8. una presenza in Vicenza e Longare.

Ma quali sono i rapporti tra Trattato Nato e basi militari americane? Normalmente si afferma che ha luogo una ‘bilateralizzazione’ dell’art. 3 del Trattato Nato che impegna le parti a sviluppare le loro capacità di difesa, individualmente e congiuntamente, e a prestarsi reciproca assistenza per sviluppare le loro capacità di legittima difesa individuale e collettiva4. Gli Stati Uniti, essendo distanti dal teatro di eventuali crisi e tensioni, si giovano dell’opportunità di usare le basi all’estero per rendere più efficiente la loro partecipazione alla Nato.

Occorre inoltre tenere presenti le basi che sono interamente italiane, ma che possono essere messe a disposizione dell’Alleanza. Ad es., Taranto è base italiana, ma le navi dell’Alleanza possono rifornirsi ed appoggiarsi. È una situazione che coinvolge altri membri dell’Alleanza, come Grecia e Spagna. La necessità deriva dalle operazioni marittime che si svolgono nel Mediterraneo. Sono da aggiungere i depositi di combustibili e munizionamento a disposizione dei membri dell’Alleanza.

2. L’accordo istitutivo della base 

La base militare viene istituita in territorio altrui mediante un accordo, che contiene il regime della base stessa e dettaglia i diritti e gli obblighi dello stato o dell’organizzazione titolare della base e dello stato territoriale (cioè lo stato che ospita la base). Per quanto riguarda l’Italia, l’accordo è la fonte dei diritti e degli obblighi tanto delle basi sottoposte al regime Nato quanto delle basi Usa.

Il Trattato Nato non contiene precise disposizioni per quanto riguarda le basi. Si è fatto spesso riferimento a due categorie di disposizioni: a) l’art. 3 , che obbliga gli stati membri a prestarsi mutua assistenza e a mantenere ed accrescere la loro capacità individuale o collettiva di resistere ad un attacco armato; e b) l’art. 9, istitutivo del Consiglio atlantico, che è stato talvolta invocato, specialmente in passato, per giustificare l’assunzione di obblighi indipendentemente da un accordo formale stipulato secondo le procedure stabilite dalla nostra Costituzione. Ma dall’obbligo di cooperazione non discende certamente l’obbligo di concedere una base. Il fondamento della base resta pur sempre un accordo bilaterale.

Nell’ordinamento italiano esistono due procedure per la stipulazione degli accordi internazionali. Una procedura solenne ed una procedura semplificata. La prima – la procedura solenne – comporta che l’accordo venga sottoposto al Parlamento (art. 80 Cost.), al quale spetta autorizzare il presidente della Repubblica alla ratifica (art. 87, 8° comma) mediante una legge ad hoc. La procedura semplificata – che non è disciplinata esplicitamente dalla Costituzione ma che è invalsa nella prassi – comporta invece che l’accordo entri immediatamente in vigore non appena sottoscritto dai rappresentanti dell’esecutivo. La L. 11 dicembre 1984, n. 839, prescrive la pubblicazione degli accordi, inclusi quelli in forma semplificata. Le categorie di accordi che debbono essere sottoposti al Parlamento per l’autorizzazione alla ratifica sono indicate dall’art. 80 della Costituzione e hanno in genere contenuto di rilievo politico5. Gli accordi in forma semplificata, invece, dovrebbero avere un contenuto eminentemente tecnico.

Mentre per quanto riguarda i quartieri interealleati si è sempre proceduto mediante la stipulazione prescritta dagli artt. 80 e 87, 8° comma, Cost., per quanto riguarda le basi tale procedura è stata spesso disattesa e taluni accordi non sono stati resi pubblici o sono stati resi pubblici tardivamente.

Il trattato fondamentale che disciplina lo status delle basi americane in Italia è l’Accordo bilaterale sulle infrastrutture (Bia), stipulato tra Italia e Stati Uniti il 20 ottobre 1954. Tale trattato, noto agli specialisti come ‘Accordo ombrello’, non è mai stato pubblicato. Secondo un autorevole commentatore, esso fu firmato dall’allora ministro italiano degli esteri (Giuseppe Pella) e dall’ambasciatrice Usa in Italia (Clara Booth Luce)6. Si tratta quindi di un accordo in forma semplificata. Tra l’altro, esso stabilisce il tetto massimo delle forze Usa che possono stazionare in Italia. L’accordo è inoltre corredato di annessi tecnici, relativi alle singole basi.

L’altro accordo che disciplina la presenza dei contingenti militari in Italia e l’uso delle basi è il Memorandum d’intesa tra il ministero della difesa della Repubblica italiana ed il dipartimento della difesa degli Stati Uniti d’America, relativo alle installazioni/infrastrutture concesse in uso alle forze statunitensi in Italia (c.d. Shell Agreement). Tale accordo è stato concluso il 2 febbraio 1995 ed è stato sottoscritto dal sottocapo di Stato maggiore della difesa e dal vice-comandante delle Forze armate statunitensi in Europa. Anche in questo caso si tratta di un accordo in forma semplificata, che non fu pubblicato, nonostante la vigenza della L. 839/1984. L’accordo in questione e i relativi annessi furono però resi pubblici nel 1998, dopo la tragedia del Cermis, dall’allora presidente del Consiglio Massimo D’Alema.

Come si concilia la segretezza degli accordi con le disposizioni della Costituzione? Taluni affermano, a buon diritto, che tra i valori garantiti dalla nostra Costituzione sono da ricomprendere la difesa e la sicurezza, cui fanno esplicitamente e implicitamente riferimento gli artt. 11 e 52. Si tratta di valori fondamentali che, tuttavia, non possono nullificare il principio democratico del controllo parlamentare della politica estera del governo. Quindi si potranno tenere segrete le clausole strettamente riservate dell’accordo, ma la sua cornice dovrà essere sottoposta alle normali procedure parlamentari e pubblicata in Gazzetta Ufficiale7.

Lo status  delle forze armate negli stati membri della Nato è disciplinato dalla Convenzione di Londra del 19 giugno 1951, un trattato concluso in forma solenne, sottoposto alle Camere per l’autorizzazione alla ratifica (L. 30 novembre 1955, n. 1335) e ratificato dal presidente della Repubblica. La Convenzione del 1951 disciplina lo status del personale militare degli stati parti che si trovino nel territorio di un altro stato parte e quindi disciplina anche lo status dei membri delle basi militari Nato o americane stazionanti in territorio italiano. La Convenzione disciplina anche lo status del personale civile al seguito della forza armata dell’Alleanza stazionante nel nostro territorio. Nelle infrastrutture militari viene di regola occupato personale civile dello stato di soggiorno per soddisfare le necessità locali. Anche questo punto è disciplinato dalla Convenzione di Londra.  Com’è intuibile, la Convenzione del 1951 è uno strumento di estrema importanza, che è stata spesso oggetto di esame da parte della nostra giurisprudenza. La Convenzione, che meriterebbe un esame ad hoc, esula dall’economia del presente lavoro8.

È ovvio che qualsiasi mutamento dello status della base implica un accordo tra lo stato detentore e lo stato concessionario. Ad es. lo stato detentore non potrebbe ampliare la base e costruire nuove infrastrutture senza l’accordo con lo stato territoriale. Il problema si è posto recentemente per la base di Vicenza.

3. L’art. 11 della  Costituzione

L’art. 11 della Costituzione9 contiene un divieto e due disposizioni permissive. In particolare, vieta la guerra di aggressione, consente limitazioni di sovranità necessarie per assicurare la pace e la giustizia tra le nazioni, e favorisce le organizzazioni rivolte a tale scopo.

Sulla compatibilità tra Nato e Costituzione italiana alla luce dell’art. 11 si è espressa la Corte di Cassazione in una sentenza del 22 marzo 1984, n. 1920. A prescindere dalle motivazioni della sentenza in cui si assume che la Nato sarebbe un’organizzazione internazionale che favorisce la pace e la giustizia tra le nazioni, il punto essenziale che viene in considerazione è quello secondo cui la Nato è un’alleanza difensiva e quindi non può essere in contrasto con l’art. 11, che ammette l’uso della forza in legittima difesa. Qualora la Nato fosse un’alleanza aggressiva (tali alleanze venivano talvolta stipulate in passato), la sua contrarietà all’art. 11 sarebbe di tutta evidenza, poiché la disposizione vieta la guerra di aggressione.

In tale contesto vanno anche valutate le “limitazioni di sovranità”, che la concessione di basi necessariamente comporta. La legittima difesa è un diritto riconosciuto dalla Carta delle Nazioni Unite (art. 51) ed è quindi un elemento essenziale per garantire “la giustizia” tra le nazioni. Quanto alle organizzazioni rivolte a tale scopo, la Nato vi rientra non solo per l’organizzazione della legittima difesa tra gli stati membri,  ma anche tenendo conto degli artt. 2 e 3 del Trattato del 1949, che impegnano le parti a risolvere pacificamente le controversie internazionali ed a sviluppare relazioni pacifiche e amichevoli.

Le basi americane non devono essere considerate isolatamente, ma nel quadro dell’art. 3 del Trattato, con la conseguenza che non ne può essere fatto un uso diverso e indipendente dalla Nato. La compatibilità tra Nato e art. 11 deve essere valutata non solo in relazione al trattato Nato, ma anche agli sviluppi posteriori, in particolare tenendo conto del Documento di Washington del 1999 e della nuova dottrina strategica. Il Documento del 1999, pur non essendo un trattato in senso formale, ma un semplice strumento di soft law non giuridicamente vincolante, amplia i poteri della Nato e codifica le missioni “fuori area”10. Secondo il Documento di Washington, le operazioni che possono essere intraprese e che sono chiamate “operazioni non-Articolo 5”, per distinguerle da quelle in legittima difesa collettiva a favore di uno stato membro, comprendono:

• il peace-keeping;

• altre operazioni sotto “l’autorità” del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite o sotto la “responsablità” dell’Osce;

• le peace support operations (comprensive sia del peace-keeping sia del peace-enforcement);

• gli interventi umanitari;

• gli interventi a favore di uno stato non membro della Nato, che sia stato oggetto di attacco armato;

• anche il post-conflict peace building è ormai entrato a far parte delle competenze non- Articolo 5.

Il Documento di Washington stabilisce che ogni azione non-Articolo 5 deve essere conforme al diritto internazionale e quindi, in linea di principio, non ci può essere contrasto con l’art. 11. Ma il problema di fondo restano le eventuali divergenze interpretative tra gli stati membri. Ad es. è ammissibile, sotto il profilo giuridico, l’intervento d’umanità senza l’autorizzazione del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite (quale fu a giudizio della Nato l’operazione intrapresa contro la Serbia-Montenegro nel 1999)? Quid per la nozione ampliata di legittima difesa, così come interpretata dagli Stati Uniti (c.d. teoria della guerra preventiva)?.

Le missioni non-Articolo 5 hanno un’importanza particolare per la questione relativa all’uso delle basi. Uno stato Nato potrebbe sostenere in sede di Consiglio atlantico la non conformità della missione al diritto internazionale e quindi decidere di non partecipare. Un’ulteriore garanzia è offerta dal fatto che il Documento di Washington stabilisce che le missioni non-Articolo 5 rimarranno soggette alle decisioni degli stati membri in conformità alle loro disposizioni costituzionali.

Uno stato membro non è obbligato a concedere l’uso della base Nato per una missione non-Articolo 5, qualora non intenda partecipare, poiché la missione non rientra stricto sensu tra gli obblighi che derivano dal Trattato Nato. Qualora lo stato membro ritenga che la missione sia contraria al diritto internazionale, esso potrà impedirne l’uso.

Le basi americane, giova ripeterlo, non hanno uno status completamente indipendente dalla Nato. Esse sono strumentali all’assolvimento dei compiti dell’organizzazione, come si evince dall’art. 3, secondo la lettura che ne è stata data come detto anche dall’attuale ministro della difesa.

Dopo il vertice della Nato di Riga del 2006, però, il crisis management è diventato uno dei compiti principali della Nato, che ha accentuato il suo ruolo di attore nello scenario internazionale, senza peraltro adottare un nuovo concetto strategico. Sono stati definitivamente superati gli angusti confini dettati dalla concezione dell’Alleanza come patto di sicurezza collettiva tra gli stati membri e questo non può non avere una ripercussione sulle funzioni cui sono destinate le basi americane in Italia.

4. L’uso della base in caso di crisi o di conflitto armato, peace-keeping, peace-enforcing e missioni non-Articolo 5

Qualora si parta dalla premessa secondo cui le basi americane non siano altro che una bilateralizzazione dell’art. 3 del Trattato Nato, bisognerebbe concludere che la base dovrebbe essere usata per scopi strettamente difensivi, cioè qualora l’Italia o altro membro dell’Alleanza sia oggetto di un attacco armato. Ma il reale uso della base smentisce questo assunto. Il concetto di sicurezza si è ampliato e la Nato ha ormai intrapreso una serie di missioni, che vanno ben oltre la nozione di legittima difesa contro un attacco armato. Anche la nozione di attacco armato si è ampliata con l’espandersi della minaccia terroristica e l’attacco alle Torri gemelle. Proviamo a configurare le varie fattispecie.

È ormai riconosciuto che ai fini dell’esercizio della legittima difesa l’attacco armato possa provenire non solo da uno stato, ma anche da un’entità non statale (ad es. un gruppo terroristico). Qualora uno stato membro dell’Alleanza sia oggetto di un attacco armato, l’Italia ha l’obbligo di non ostacolare l’uso della base per gli scopi difensivi che il Trattato Nato istituisce. Tale obbligo deriva dall’ultimo inciso del par. 1 dell’art. 5, dove viene espressamente sancito il dovere di assistenza, ed un comportamento che ostacolasse l’uso della base sarebbe chiaramente in contrasto con tale disposizione. La presenza di basi in territorio nazionale potrebbe esporre lo stato che ospita la base a reazioni da parte dell’avversario, qualora gli atti di ostilità  provengano dalla base sita in territorio italiano. Ma questo è inevitabile e la neutralità non può essere mantenuta.

Per quanto riguarda il peace-keeping e il peace-enforcing, si tratta di situazioni da valutare nel quadro delle missioni non-Articolo 5 ed è da ricordare che esse, se intraprese dalla Nato, devono essere decise per consensus in seno al Consiglio atlantico.

Il peace-keeping non comporta particolari problemi e, a nostro parere, può essere attuato anche in assenza di un mandato delle Nazioni Unite, purché vi sia il consenso dello stato territoriale.

Più delicato è invece di un’azione coercitiva (peace-enforcing), che dovrebbe implicare una doppia decisione: a livello di Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite, che deve autorizzare la missione; a livello di Consiglio atlantico, allo scopo di dar seguito all’autorizzazione delll’Onu. Un esempio di peace-enforcing deciso nel quadro del Consiglio di sicurezza è costituito dalla risoluzione 816 (1993), che ha autorizzato gli Stati a prendere nel quadro di organizzazioni regionali misure per garantire l’interdizione aerea nei cieli della Bosnia-Herzegovina.

Un uso delle basi per fini diversi da quelli stabiliti dal Trattato, sia come missioni Articolo 5 sia come missioni non-Articolo 5 non dovrebbe essere consentito. La prassi, però, smentisce tale assunto. Durante il conflitto iracheno, la base di Vicenza fu usata, anche se l’uso consentito fu limitato, avendo l’Italia aderito ad una politica di non-belligeranza. Questa è d’altra parte la via obbligata se si hanno basi straniere sul territorio nazionale, poiché la neutralità perfetta, che comporterebbe l’internamento di uomini e materiali, non può essere mantenuta11.

Resta inoltre aperta la questione dell’utilizzo delle basi americane nel quadro degli accordi Berlin Plus (2002). Questi consentono l’uso di assets Nato per operazioni a sostegno della pace a guida Ue. Occorre vedere come l’utilizzo delle basi Usa si inserisca nel quadro degli accordi Berlin Plus e se queste possano essere a pieno titolo utilizzabili per operazioni Ue, qualora si parta dalla premessa secondo cui le basi americane costituiscono una bilateralizzazione degli impegni Nato12.

5. Basi straniere e sovranità territoriale  

Lo status del territorio su cui sorge la base viene talvolta erroneamente qualificato come territorio estero, specialmente in certa letteratura politologica. Il territorio su cui si trova la base, si tratti di basi americane o di basi Nato, è territorio italiano. Quindi l’istituzione della base non implica alcuna cessione di sovranità territoriale. Lo stato estero può essere presente in territorio italiano nei limiti dell’autorizzazione concessa e in virtù del principio volenti non fit iniuria. La base non è da considerare extraterritoriale, come se fosse una sede diplomatica.

I poteri di polizia all’interno della base sono esercitati da elementi della forza straniera che vi soggiorna (art. VII, par. 10 della Convenzione del 1951, sopra citata), ma un comandante italiano è sempre presente per sottolineare la sovranità italiana e la non extra-territorialità della base. L’annesso all’accordo tra Italia e Comando supremo alleato in Europa del 26 luglio 1961 stabilisce che i poteri di polizia riconosciuti ai Quartieri generali interealleati dovranno essere esercitati senza arrecare alcun pregiudizio alla sovranità nazionale. Per quanto riguarda la sorveglianza esterna della base, questa è esercitata dagli organi di polizia dello stato di sede.

Anche l’immobile su cui sorge la base resta di proprietà dello stato di sede ed è dato in uso allo stato estero. La concessione ad erigere nuovi edifici è data dallo stato territoriale, ma anche in questo caso lo stato straniero non acquista la proprietà del nuovo edificio13. La realizzazione di nuove opere deve avvenire sotto la supervisione di una commissione congiunta.

L’oggetto dell’attività consentita nella base è determinato dall’accordo e può spaziare dal semplice stoccaggio di materiali a funzioni più complesse, come quelle che si esplicano in una base navale. Al riguardo, occorre notare che l’accesso alla base comporta l’attraversamento del mare territoriale per entrare o prendere il largo dalla stessa e il sorvolo del territorio per le basi aeree. La procedura di accesso è in genere dettagliata, a meno che vi sia un accordo che disciplini l’ingresso di una particolare categoria di navi, come è avvenuto per la base di sommergibili nucleari della Maddalena, disciplinata da un accordo segreto del 1972.  Una procedura di accesso deve comunque essere stabilita, specialmente per gli aerei (per evitare interferenze con il traffico aereo nazionale).

6. L’uso della base contrario al diritto internazionale  

Da un rapporto del Consiglio d’Europa si apprende che la base di Aviano e quella di Ramstein (Germania) sarebbero state usate per operazioni di extraordinary renditions14. L’individuo catturato sarebbe stato poi consegnato ad un paese dell’altra sponda del Mediterraneo e sottoposto a tortura. L’arresto di individui con procedure extragiudiziali è procedura in violazione del diritto internazionale e costituisce un trattamento inumano e degradante – aggravato, a quanto sembra, dalla successiva sottoposizione a tortura dell’individuo. Ovviamente l’extraordinary rendition non rientra tra gli usi consentiti della base. Si tratta di un uso in violazione del diritto internazionale, la cui illiceità non è superabile neppure qualora lo stato territoriale abbia consentito all’operazione. In questo caso, infatti, il principio volenti non fit iniuria non potrebbe operare, poiché il comportamento illecito sarebbe contrario ad una norma imperativa del diritto internazionale (ius cogens), quale incontestabilmente è quella sul divieto di tortura e di trattamenti inumani e degradanti.

7. Armi nucleari detenute nelle basi americane

Nelle basi Usa in Italia dovrebbero essere stanziate circa 90 testate atomiche, che fanno parte del deterrente nucleare Usa e dell’Alleanza atlantica, site nelle basi di Aviano e Ghedi Torre, Brescia15. La deterrenza nucleare viene mantenuta, nonostante abbia perso d’importanza con la fine della guerra fredda e la disgregazione dell’impero sovietico. Il problema che si pone è la compatibilità dell’esistenza di armi atomiche in territorio italiano con il Trattato di non-proliferazione nucleare (Tnp), di cui sono parti tanto l’Italia quanto gli Stati Uniti.

Gli Stati Uniti, in quanto ‘stato nucleare’ ufficialmente riconosciuto dal Tnp, hanno diritto a possedere armi atomiche. Essi, però, hanno l’obbligo di non trasferire tali ordigni agli stati non-nucleari. Vietato è anche il trasferimento del controllo (art. 1). A sua volta l’Italia, in quanto stato non-nucleare del Tnp, è obbligata non solo a non fabbricare armi nucleari, ma anche a non ricevere il loro trasferimento o controllo (art. 2).

Come si conciliano gli obblighi derivanti dal Tnp con la presenza di armi atomiche in Italia? Si è rimediato con il sistema della “doppia chiave”. Le armi nucleari restano in possesso degli Stati Uniti e sotto il suo stretto controllo. Solo gli Usa potranno decidere se ricorrere all’arma nucleare. Tuttavia l’uso è consentito solo dopo autorizzazione dello stato territoriale, cioè dell’Italia.  Sotto il profilo formale, dunque, l’Italia non esercita alcun controllo sulle testate nucleari Usa e quindi la loro presenza non è incompatibile con il Tnp.

Non sono peraltro pubblici i dettagli del sistema connesso alla doppia chiave. Elementi possono essere desunti da una serie di interviste date nel 1981 dall’allora ministro della difesa Lelio Lagorio, secondo cui “fin dal 1962 l’Italia ha sempre ottenuto il principio della doppia chiave. L’uso delle basi non dipende esclusivamente dal comando americano, ma dal combinato consenso delle autorità italiane e statunitensi. Certo, la parola ultima, a conflitto scoppiato spetta al comandante in capo di tutte le forze”. Successivamente fu precisato dallo stesso ministro della difesa che “il governo italiano non accetta che l’uso di armi atomiche dal proprio territorio sia disposto senza l’espresso e preventivo assenso delle autorità italiane” e veniva precisato come la realizzazione tecnica del meccanismo dovesse essere classificata come riservata16. Paradossalmente la conformità della condotta italiana al Tnp non verrebbe messa in alcun modo in discussione qualora le atomiche Usa, come dicono alcuni, fossero sotto l’esclusivo controllo degli Stati Uniti. La presenza di ordigni nucleari sul territorio italiano, di proprietà degli Stati Uniti e sotto il loro controllo, non ha comunque sollevato alcuna protesta dell’Agenzia internazionale per l’energia atomica (Aiea), l’organismo deputato dall’art. III del Tnp ad effettuare i controlli. L’Italia tra l’altro non fa parte di una zona denuclearizzata e quindi la presenza di ordigni atomici in territorio italiano non costituisce una violazione di alcun obbligo internazionale.

Di per sé, la presenza di armi nucleari in territorio italiano non incide sulla questione della titolarità delle garanzie di sicurezza negative. Queste sono accordate dagli stati nucleari agli stati non-nucleari parti del Tnp o di altro trattato regionale di denuclearizzazione ed hanno per oggetto l’impegno degli stati nucleari a non usare l’arma atomica nei confronti di uno stato non-nucleare. Le garanzie, che sono concesse mediante una dichiarazione unilaterale, sono variamente condizionate e, ad esempio, la garanzia accordata dalla Federazione russa esclude che essa si estenda agli stati non-nucleari qualora la Federazione fosse oggetto di un attacco armato sferrato o appoggiato da uno stato non-nucleare insieme o in alleanza di uno stato-nucleare. Quello che conta, per escludere le garanzie negative, è l’alleanza con uno stato nucleare e non la presenza di armi atomiche nel territorio dello stato. Pertanto l’Italia sarebbe esclusa dalle garanzie di sicurezza negative anche se non ospitasse sul proprio territorio armi atomiche.

Piuttosto il problema si pone in relazioni alle conclusioni raggiunte dalla Corte internazionale di giustizia con il parere sul divieto della minaccia e dell’uso dell’arma nucleare (1996). Il parere non è limpido e non è scevro di contraddizioni. Però su un punto è chiaro: l’uso dell’arma atomica è soggetto alle prescrizioni del diritto internazionale umanitario. Poiché una rappresaglia nucleare che coinvolga l’intera popolazione civile di una città (c.d. counter-city strategy) sarebbe vietata dal I Protocollo addizionale alle Convenzioni di Ginevra del 1949, gli stati Nato, al momento della firma del I Protocollo, hanno formulato una dichiarazione interpretativa, che è una vera e propria riserva, secondo cui il Protocollo non si applica alle armi nucleari. Tale riserva è stata apposta anche dall’Italia, che ha precisato come il Protocollo si applica alle sole armi convenzionali, ma ha lasciato impregiudicata la questione dell’esistenza di regole consuetudinarie in materia di armi nucleari. Tale posizione, volutamente ambigua, andrebbe ora chiarita, mediante il ritiro della riserva interpretativa, non più sostenibile alla luce del parere della Corte internazionale di giustizia.

8. Armi vietate da trattati che vincolano l’Italia ma non gli Stati Uniti

A parte il caso specifico del Tnp, che consente solo ad alcuni stati il possesso dell’arma nucleare, vi sono dei trattati di disarmo che vietano in modo assoluto il possesso di determinate armi e ne impongono la loro distruzione. Questo comporta particolari problemi circa l’osservanza del trattato per lo stato concedente la base. In linea di principio, non si pone alcun problema quando tanto lo stato detentore della base quanto lo stato concedente sono parti dello stesso trattato, come ad es. è avvenuto per il Trattato sulla proibizione delle armi chimiche del 1993. Il problema si pone nel caso contrario. Ad es. gli Stati Uniti non sono parti della Convenzione di Ottawa del 1997 sulle mine antiuomo, che vincola invece l’Italia. L’art. 4 della Convenzione obbliga lo stato parte a  distruggere entro quattro anni dall’entrata in vigore tutte le mine antiuomo in deposito di sua proprietà o possesso o che si trovino sotto la sua giurisdizione o controllo. La dizione dell’art. 4 è ampia e, secondo una possibile interpretazione, comprende anche quelle aree in cui si estende virtualmente la giurisdizione dello stato territoriale, quantunque le armi ivi stanziate non siano sotto il suo esclusivo controllo. In tal caso, per evitare di violare la convenzione, non resta che stipulare un accordo con lo stato titolare della base per la rimozione delle armi vietate allo stato territoriale.

9. I controlli sugli accordi di disarmo

Taluni trattati di disarmo prevedono controlli molto incisivi. Tra questi il Trattato sulla proibizione delle armi chimiche del 1993, che dispone di invasive ispezioni in loco, denominate “ispezioni su sfida” (Challenge Inspections). Uno stato parte, che abbia il sospetto che un altro stato parte svolga un’attività contraria alla Convenzione, può chiedere al Consiglio esecutivo dell’Organizzazione per il disarmo chimico che il segretariato tecnico dell’organizzazione sottoponga ad ispezione un determinato luogo. Cosa accade se il luogo da ispezionare si trova all’interno della base? In questo caso chi è stato ispezionato: lo stato concedente o lo stato concessionario? La Convenzione del 1993 detta talune regole nell’Annesso sulle verifiche. Ma la procedura necessita di essere dettagliata in un accordo ad hoc, tra lo stato concedente e lo stato concessionario, per disciplinare le ispezioni nel quadro della Convenzione del 1993. Tali accordi non sono una novità. Ad es. l’Accordo sullo smantellamento dei missili a raggio intermedio tra Stati Uniti e Unione Sovietica del 1987 ha comportato la stipulazione di un accordo ad hoc tra Usa e altri paesi, tra cui l’Italia, dove erano stanziati i missili e uno scambio di note tra Italia e Urss relativamente alle operazioni di verifica dello smantellamento dei missili (vedi L. 20 maggio 1988, n. 174 di autorizzazione alla ratifica degli accordi in questione).

10. Conclusioni

Questo studio è partito dalla premessa secondo cui i trattati istitutivi delle basi americane in Italia costituiscono una bilateralizzazione degli impegni Nato, costituiscono cioè un attuazione dell’art. 3 del Trattato istitutivo dell’Alleanza atlantica. Da questo consegue che le basi americane non possono essere usate per scopi estranei all’Alleanza, tranne che s’intenda stipulare dei trattati ad hoc integrativi di quelli esistenti.

Occorre peraltro tener conto dell’evoluzione dell’Alleanza atlantica e del nuovo concetto strategico adottato nel 1999, che consacra una prassi già attuata negli anni precedenti. Sotto questo profilo è da tener presente che le basi Nato e quelle americane possono essere usate per missioni non-Articolo 5, che includono una vasta gamma di operazioni. Tali missioni devono essere conformi al diritto internazionale. Non solo: lo stato italiano potrebbe decidere di non partecipare e addirittura stabilire che non vengano usati assets Nato o Usa presenti nel suo territorio. Quando, invece, decide di partecipare occorre che sia pienamente edotto delle modalità delle operazioni belliche 18.

Altra questione aperta riguarda le armi detenute nelle basi americane. Per quelle atomiche, si è visto come la loro detenzione in basi americane sia conforme al Tnp, nonostante la riserva di qualche autore20. Il parere della Corte internazionale di giustizia, inoltre, ha confermato che il possesso delle armi nucleari e la stessa deterrenza nucleare non sono contrari al diritto internazionale. Il parere in questione, però, ha stabilito che l’uso dell’arma nucleare è sottoposto alle regole del diritto internazionale umanitario. L’Italia dovrebbe pertanto ritirare la riserva interpretativa al I Protocollo addizionale alle quattro Convenzioni di Ginevra del 1949, che stabilisce che il I Protocollo non si applica alle armi nucleari. Quanto alle armi convenzionali, proibite da trattati ratificati dall’Italia ma non dagli Stati Uniti, dovrebbe essere chiarito, come politica generale, che queste non possono essere detenute in basi americane in Italia. È questo il caso, a quanto pare risolto, delle mine antiuomo proibite dalla Convenzione di Ottawa. Domani potrebbe essere il caso delle cluster munitions, qualora il processo di Oslo pervenisse alla conclusione di un trattato volto alla loro proibizione21.

È necessaria inoltre una maggiore trasparenza per le decisioni relative agli impegni convenzionali concernenti le basi. Naturalmente la trasparenza va conciliata con le esigenze di sicurezza.

Si è più volte detto che un esame della Convenzione di Londra del 1951 sullo stato delle forze armate in paesi terzi esula dall’oggetto della presente nota. La Convenzione è stata conclusa durante il periodo della Guerra fredda ed è da chiedersi se essa corrisponda ancora agli interessi dei paesi Nato, soprattutto di quelli che ospitano basi sul loro territorio o necessiti aggiornamenti e quindi una revisione. A tal fine occorrerebbe una disamina delle fattispecie disciplinate, specialmente in relazione al riparto della giurisdizione penale sulle Forze armate dei paesi Nato presenti in Italia, alla esenzione dalla giurisdizione civile e alla disciplina dei rapporti di lavoro instaurati con la manodopera locale. Occorre in altri termini vedere come il regime delle basi sia compatibile con il mutato assetto dei rapporti internazionali.

NOTE

1 La presenza di basi militari concesse ad un altro stato o ad un’alleanza militare non è dunque un fenomeno solo italiano Vedi in generale Marchisio, Le basi militari nel diritto internazionale, Milano, 1994.

2 Ad es. è da classificare tra le infrastrutture comuni la base aerea di Decimomannu in Sardegna, mentre è una base Usa quella di Camp Derby vicina a Livorno. La base di Camp Ederle, vicino a Vicenza, è infrastruttura comune (Nato), ma è anche utilizzata dagli Stati Uniti e quindi riproduce la dicotomia struttura comune-base bilaterale

3 Vol. XVI del 2006, in corso di pubblicazione.

4 Recentemente, si può citare la dichiarazione del ministro della difesa che, intervenendo alla Camera il 25 ottobre 2006, ha precisato che la presenza delle forze Usa in Italia si fonda sull’art. 3 del Trattato Nato.

5 Più precisamente, l’art. 80 Cost. menziona: trattati di natura politica; trattati che prevedono arbitrati o regolamenti giudiziari; trattati che importano variazioni del territorio dello stato; trattati che importano oneri alle finanze; trattati che importano modifiche di legge.

6 Mario Arpino, È l’Accordo ombrello del ’54 a regolare la presenza dei militari americani in Italia, “Il Resto del Carlino”, 18 gennaio 2007, p. 6.

7 Tra gli accordi segreti, di cui si è ricorrentemente parlato, figura quello per la base dei sommergibili atomici Usa a La Maddalena del 1972. Gli Usa hanno dichiarato che lasceranno la base entro l’8 ottobre 2008. Come si apprende dall’audizione sulle servitù militari, recentemente svoltasi alla Camera, si tratta di una struttura a terra, cui si appoggia un tender, grande nave officina per il rifornimento e manutenzione dei sommergibili (a propulsione nucleare).

8 Vedi, anche per esempi di diritto comparato l’ampia ricerca diretta da D. Fleck, The Handbook of the Law of Visiting Forces, Oxford, 2001. Tra l’altro, il personale civile e militare Nato presente in Italia si trova sotto la “giurisdizione” di uno stato membro della Convenzione europea dei diritti dell’uomo, con la conseguenza che esso, in linea di principio, dovrebbe godere dei diritti garantiti dalla Convenzione. Ma anche questo punto, che ha per oggetto i potenziali conflitti tra Convenzione di Londra e Convenzione europea dei diritti dell’uomo, non viene qui trattato.

9 “L’Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali; consente, in condizione di parità con gli altri stati, alle limitazioni di sovranità necessarie ad un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia fra le nazioni; promuove e favorisce le organizzazioni internazionali rivolte a tale scopo”.

10 Cfr. Ronzitti, Il documento di Washington, Problemi politici e giuridici, CeMISS, 2001.

11 Vedi più ampiamente il nostro contributo “Trattato Nato, Carta delle Nazioni Unite e azioni militari originate da basi site in territorio italiano”, in Camera dei Deputati, Le basi militari della NATO e di paesi esteri in Italia, cit., pp. 1-18.

12 Più in generale occorre esaminare la compatibilità tra presenza delle basi militari con i progressi della Politica europea di sicurezza e difesa (Pesd).

13 Cfr. S.Marchisio, “Confronto giuridico delle basi militari Nato e di altri stati nel territorio nazionale alla luce delle vigenti disposizioni costituzionali e degli accordi internazionali conclusi dall’Italia”, in Camera dei Deputati, Le basi militari della Nato e di paesi esteri in Italia, Quaderni di studi e legislazione 42, Roma, 1990, pp. 57-59.

14 Committee on Legal and Human Rights, Alleged secret detentions and unlawful inter-state transfers involving Council of Europe member states, 07/06/2006, Explanatory memorandum by Mr. Dick Marty (Rapporteur).

15 Vedi Paolo Cotta Ramusino, “La presenza di armi nucleari in Italia”, Uspid, 1996 e, più recentemente, l’interrogazione a risposta scritta della senatrice Tana de Zulueta al presidente del Consiglio e al ministro della difesa, in data 10 febbraio 2005. Cfr. anche Kristensen, US Nuclear Weapons in Europe, Natural Resources Defence College, Washinton, DC, 2005.

16 Le interviste di Lelio Lagorio a La Repbubblica, rese il 9-10 agosto 1981 e l’8 settembre 1981 sono riportate da Marchisio, Le basi militari, cit., p. 325.

18 Curiosa è ad es. la difesa del governo italiano, convenuto in giudizio dinanzi alla Corte europea dei diritti dell’uomo, in cui affermò, per escludere ogni responsabilità derivante dal bombardamento della Radio-Televisione di Belgrado durante la guerra del Kosovo da parte di aerei decollati dal territorio italiano, di non essere a conoscenza dei piani di attacco e che “un’analisi del sistema di decision-making della Nato non ha rivelato alcuna partecipazione dell’Italia alla selezione dei vari obiettivi e che tutte le operazioni militari erano state compiute in conformità alle regole di diritto internazionale umanitario” (European Court of Human Rights, Grand Chamber, Case of Markovic and Others v. Italy, Application no. 1398/03, Judgment , 14 December 2006, par. 39).

20 Vedi ad esempio E. Cannizzaro, N.A.T.O., Digesto IV Edizione, vol. X Pubblico, 1995, p. 19 dell’estratto.

21 Le cluster weapons (‘bombe a grappolo’) sono bombe a frammentazione che consistono in un grosso guscio contenente un numero variabile (in genere centinaia) di ‘bombette’ o ordigni esplosivi (bomblets) della grandezza di una palla da tennis che vengono sparse in un’area piuttosto vasta. Data l’altissima incidenza di vittime civili dovute a questo tipo di armi, si discute da tempo dell’opportunità di bandirne la produzione. La questione è stata dibattuta al momento da una conferenza convocata ad Oslo dal governo norvegese con la partecipazione di governi e Ong, ma non è stata ancora conclusa (appunto, il ‘processo di Oslo’).

di Natalino Ronzitti (consigliere scientifico dell’Istituto affari internazionali (IAI) e professore ordinario di Diritto internazionale presso l’Università Luiss “Guido Carli” di Roma. )

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