Il volto del ‘900: un percorso per capire dove stiamo andando

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Si è da poco conclusa a Palazzo Reale la mostra Il volto del ‘900, manifestazione che ha ospitato 80 opere, tra dipinti e sculture, provenienti dalla collezione del Centre Georges Pompidou di Parigi. Il titolo della mostra rispecchia l’intenzione dei curatori di guidare lo spettatore attraverso un secolo, riflesso non dai fatti storici, bensì nei volti e negli occhi dei nostri compagni di viaggio. Il filo conduttore è la trasformazione del volto che passa dalla maschera, nell’accezione pirandelliana del termine, al riflesso dell’anima e all’assenza di qualsiasi filtro tra lo spettatore e l’artista.

 

"Rossetto", Henri Le Fauconnier (1910).

“Rossetto”, Henri Le Fauconnier (1910).

La forza dell’espressione

Il punto di partenza della provocazione dell’arte novecentesca si ha con l’Espressionismo, in quanto il nuovo focus dell’indagine diventa il soggetto. Il linguaggio di questa nuova corrente si contrappone all’oggettività dell’impressionismo: gli artisti espressionisti vogliono che lo spettatore non sia più osservatore annoiato, bensì sia costretto a fare i conti con le emozioni dell’artista!

All’interno della mostra, un quadro che ben riflette questa nuova impostazione è Rossetto di Henri Le Fauconnier (1910). Il tema centrale dell’opera è proprio la maschera: il soggetto è una donna che si sta truccando davanti a uno specchio, sta costruendo la propria maschera un pezzetto alla volta. Il collo e le braccia sono verdi, come se il soggetto fosse morto, e ciò che “dà vita” ad esso è proprio il rossetto. I colori sono freddi e le tonalità predominanti sono il verde e il blu, l’unica cosa che crea un contrasto è il rosso della bocca ed è proprio in questo punto che le linee di forza conducono l’occhio dello spettatore.

Un’altra opera in cui addirittura l’osservatore si sente in uno stato di “soggezione” rispetto al quadro è Nudo sul divano di Albert Marquet (1912). L’opera ritrae una donna nuda, semisdraiata con le gambe accavallate su un sofà verde. I tratti del volto sono maschili e le conferiscono un aspetto grottesco, così come la posa sgraziata. Non si tratta certo di un tema nuovo, eppure ad esso viene conferito un significato diverso: l’espressione della donna non rispecchia più la bellezza eterea di una dea greca, anzi è fin troppo terrena!

Eppure, dal momento che il punto di vista non è frontale, bensì abbassato, la figura si impone e lo spettatore si ritrova a sentirsi giudicato. Non solo! La diagonale non convenzionale, già sperimentata da alcuni artisti del ‘700 per creare un senso di inquietudine, porta lo spettatore a spostarsi verso sinistra, proprio per “scoprire” cosa si cela dietro la gamba accavallata.

 

Francis Bacon (1909, Dublin - 1992, Madrid), “Autoritratto” / “Self-Portrait”, 1971, Olio su tela / Oil on canvas, 35.5 x 30.5 cm, Musée National d’Art Moderne, Centre Georges Pompidou, Paris.

Francis Bacon “Autoritratto” 1971, Centre Georges Pompidou, Paris.

La tela come specchio dell’Io

Con l’avvicendarsi della guerre, l’anima dell’uomo viene stravolta e l’artista getta la maschera, non riuscendo più a reggere il peso di questa finzione, mostrando allo spettatore il suo vero Io.

Tra le opere esposte, quelle i cui autori si “aprono” maggiormente, sono gli Autoritratti di Francis Bacon e Zoran Anton Music, rispettivamente del 1971 e del 1988.

Francis Bacon apparteneva alla corrente dell’Informalismo europeo, un tipo di espressionismo in cui l’artista mantiene la forza dell’immagine, ma ne modifica la forma, secondo le proprie emozioni. Questa nuova rappresentazione dell’uomo è brutale, deformata e molto concreta e purtuttavia il soggetto resta ancora riconoscibile. In questo Autoritratto, Bacon riprende dal classicismo il tema del ritratto e da Caravaggio la forza del colore e della luce. Il volto è deformato e scomposto, riflettendo il caos interiore dell’artista. All’epoca della realizzazione della tela, il compagno del pittore, George Dyer, si era suicidato e il tema della morte assume nella sua produzione un ruolo preponderante. L’artista vuole catturare sulla tela la materia nell’istante stesso in cui essa si sta progressivamente e inevitabilmente avvicinando al disfacimento. Paradigmatica la sua celebre frase: “Non sto cercando di dire qualcosa, io sto cercando di fare qualcosa”.

Inoltre, parafrasando una sua intervista, l’autore concepiva ogni sua opera come un autoritratto, in quanto essa era il risultato delle sensazioni e dei sentimenti che quel tema suscitava in lui.

Nell’Autoritratto di Music, invece, la forza della materia, diversamente da Bacon, non vi è più: l’uomo è uno spettro. L’artista sloveno fu, infatti, uno dei deportati nel campo di concentramento di Dacao, esperienza che non riuscì più a rimuovere dalla sua opera. La sua è un’opera di denuncia nei confronti dei campi di sterminio, dove l’unica cosa di cui l’uomo resta proprietario è la propria anima, e alla fin fine soltanto di un’anima logora e distrutta dal dolore. Dell’uomo rimane soltanto uno spettro consumato.

 

Chuck Close, Arne (1999-2000), collezione del Centre Pompidou.

Chuck Close, Arne (1999-2000), collezione del Centre Pompidou, Paris.

La freddezza dell’Iperrealismo

La mostra si chiude con un quadro di Chuck Close, Arne (1999-2000).

L’autore è un esponente dell’Iperrealismo, altrimenti denominato realismo radicale, in cui l’intento è quello di riprodurre una fotografia. La fotografia viene ingrandita fino a che ogni singolo pixel diventi un quadro a sé che nell’insieme va a comporre l’immagine. L’immagine perde di significato, è fine a sé stessa ed altro non è se non la riproduzione di una copia: si perde l’anima dell’uomo che diventa solo immagine.

Questa tendenza, in netta contrapposizione con la nudità diretta o indiretta degli artisti del Novecento, mostra lo smarrimento dell’uomo dietro alla mera immagine della realtà. Perciò, questo nostro percorso tra i volti del Novecento si conclude in maniera un po’ secca, lasciandoci con questo interrogativo: “ Se l’arte è lo specchio dell’anima, allora anche le nostre anime stanno correndo il rischio di diventare asettiche?”

di Costanza Galli

e Giulia Pavesi